Lucia Patrizi's Blog
November 13, 2025
Predator: Badlands
Regia – Dan Trachtenberg (2025)
Nell’ultima decina d’anni, o giù di lì, abbiamo vissuto lo strano paradosso per cui i grandi blockbuster diventavano ogni giorno più puerili, mentre mancava una vera e propria offerta, in un mercato saturo di supereroi, di cinema per ragazzi, animazione esclusa, ovviamente.
Non è un discorso nostalgico, il mio, ma è vero che, neanche troppo tempo fa, esisteva una grossa fetta di film dedicati a un pubblico molto giovane, godibili anche dagli adulti che fungevano da accompagnatori, e responsabili della formazione cinematografica di più di una generazione. Erano film d’avventura, film di fantascienza, a volte persino film dell’orrore, e servivano ai bambini ad avvicinarsi alla bellezza del grande schermo e a cominciare a riconoscere i generi cinematografici.
Mi sembra che un film come Predator: Badlands faccia parte di questa categoria che credevo estinta, e sono felicissima della sua esistenza.
Vi presento il nuovo film preferito di mio nipote, visto in una sala strapiena di ragazzini in una domenica pomeriggio di metà autunno.
Badlands racconta di un giovane Yautja, Dek (), più piccolo e meno forte rispetto agli esemplari tipici della sua razza, che se ne va sul cosiddetto “pianeta della morte”, Genna, per uccidere il Kalisk, orrida e letale creatura, e così dimostrare di essere all’altezza del suo clan, attraverso il rito della caccia, quello a cui abbiamo assistito in ogni film della saga dal 1987 a oggi. La differenza, in questo caso, è il cambio radicale di prospettiva: Dek è infatti il nostro protagonista, e tutto il film brilla per l’assenza dell’elemento umano.
Oltre ai vari mostri che Dek incontra durante il suo coming of age, lo Yautja si imbatte in Thia (), una sintetica della Weyland-Yutani rimasta danneggiata proprio mentre la sua squadra (tutta formata da altri sintetici) cercava di catturare il Kalisk. I due dovranno unire le forze per trovare la tana del Kalisk e contrastare i loschi piani della Weyland-Yutani e di Tessa, la “gemella” di Thia.
Continuando a parlare di cambio di prospettiva, la struttura di Badlands è abbastanza simile a quella di Prey, sempre diretto da Trachtenberg nel 2022: anche lì c’era una giovane aspirante guerriera, considerata debole e inadatta al ruolo da parenti e amici, che partiva per un viaggio iniziatico allo scopo di provare il proprio valore.
La differenza, in Badlands, sta tutta nella scelta, a mio parere di portata quasi rivoluzionaria per il futuro non solo del franchise, ma della fantascienza in generale, di far compiere il percorso di crescita e di acquisizione della consapevolezza a una creatura non umana, da sempre percepita dal pubblico come antagonista. Mi si potrebbe obiettare che, in effetti, gli alieni con le treccine hanno stipulato alleanze con noi umani, per quanto transitorie e fragili, nei due Alien vs Predator, e questo è senz’altro vero: da un lato, rende più semplice il posizionamento del predator nell’alveo dei “buoni”, perché lo abbiamo già visto collaborare con noi in altre circostanze; dall’altro, questa collaborazione è sempre avvenuta, al cinema, all’insegna di una lotta contro un nemico comune, il molto meno addomesticabile xenomorfo. Se gli Yautja possiedono un codice di comportamento, per quanto brutale e draconiano, lo xenomorfo è sempre rimasto quel perfetto organismo “non offuscato da coscienza, rimorsi, o illusioni di moralità” del 1979. Almeno fino ad Alien: Earth, ma questa è un’altra storia ed è tutta in divenire.
Insomma, Predator la possibilità di diventare qualcosa di diverso da un semplice assassino alieno ce l’ha sempre avuta in potenza; ci voleva però coraggio a metterla in pratica.
Trachtenberg lo ha fatto avvalendosi del linguaggio tipico del cinema d’avventura per ragazzi, con una spruzzata di buddy movie nella relazione tra Dek e Thia, e ricordando un piccolo capolavoro del cinema di fantascienza degli anni ’80, mai troppo celebrato, ovvero Il Mio Nemico, di Wolfgang Petersen (che compie 40 anni proprio nel 2025, auguri!). In quel film, due soldati di opposti schieramenti, un umano e un alieno, si ritrovavano dispersi su un pianeta ostile e dovevano superare le reciproche diffidenze per tirarsi fuori dai guai. Era, proprio come Badlands, un PG13 e credo che un regista nato nel 1981 come Trachtenberg lo abbia avuto ben presente nello scrivere la sceneggiatura di questo suo terzo film del franchise. Petersen aveva un tono più serioso, ma l’operazione dietro a Badlands è ancora più estrema, perché ci obbliga a guardare il mondo con gli occhi di un alieno e di una sintetica, senza controparti umane ad aiutarci nel processo di identificazione.
Aiuta anche Trachtenberg a inserire nel suo film un body count altissimo e a non cadere tra le maglie della censura, dato che i morti ammazzati sono tutti sintetici.
È un film che abbatte i confini tra live action e animazione, come fanno moltissimi blockbuster contemporanei, a dire il vero, anche se in questo caso è studiato, intenzionale e fatto con criterio; c’è un amalgama perfetto tra effetti pratici e in post produzione, a partire proprio dalla resa di Dek, un attore in carne e ossa con un costume e una maschera, i cui movimenti facciali sono poi stati aggiustati in sede di VFX, ma la cui presenza in scena è concreta e tangibile.
Trachtenberg e tutti i suoi collaboratori hanno fatto un enorme lavoro su personaggi e ambientazione: ogni creatura ha una sua personalità e il pianeta Genna è, a sua volta, un’entità viva che si merita pienamente l’appellativo di Pianeta della Morte.
Dek, anche a causa del suo tanto criticato design meno aggressivo e (vi giuro, l’ho letto con i miei occhi) “mascolino” rispetto ai Predator precedenti, è molto espressivo, senza tuttavia essere mai davvero antropomorfizzato in maniera eccessiva; Thia è una spalla eccezionale, con il suo entusiasmo e la sua curiosità nei confronti del mondo che la circonda, la sua continua ricerca di comunicazione, il suo sguardo privo di pregiudizio.
La dinamica da buddy movie tra i due protagonisti è il cuore del film, il suo centro emotivo, intorno al quale si salda tutto il resto.
Criticare Badlands per quella che è la sua natura, ovvero cinema per ragazzi, è del tutto lecito (ci sono persino gli animaletti carini che fanno le facce buffe con gli occhioni dolci): anche io preferisco Prey e Killer of Killers, perché alla mia età vado in cerca di narrazioni più mature. E tuttavia, a mio avviso, è anche pretestuoso, perché la ragion d’essere del film è quella di rivolgersi a un pubblico che, da un Predator tradizionale, verrebbe automaticamente escluso.
Non c’entra la Disney, perché anche Prey nasce sotto l’egida della Disney, c’entra la volontà precisa di espandere la portata di una saga molto amata, ma sempre rimasta un po’ in ombra. Se questo sia il metodo giusto ce lo diranno gli incassi, che fino a ora sono ottimi.
Per quanto mi riguarda, credo sia un bene se un film come Badlands fa avvicinare una nuova generazione a queste stupende creature, se la spinge a esplorare un cinema meno convenzionale e se le trasmette l’amore che Trachtenberg ha dimostrato nei confronti degli Yautja e della loro lore, rispettata con devozione maniacale, anche in questa incursione di Predator nei territori dei film per tutta la famiglia.
Se vogliamo sangue e sgozzamenti, ne abbiamo a profusione nei sei film precedenti; Badlands è un po’ diverso da ciò a cui siamo stati abituati con Predator, ma non è affatto una cosa negativa.
Recensione di Fabrizio: “È il film più bello che abbia mai visto, zia, e questo è il pomeriggio più bello della mia vita. Ma secondo te, Dek lo sconfiggerebbe Godzilla?”
Ai posteri l’ardua sentenza.
November 11, 2025
Tanti Auguri: 60 anni di The Nanny
Regia – Seth Holt (1965)
Complehorror di novembre nel segno della Hammer e di sua maestà Bette Davis, qui arrivata quasi al termine del suo personale ciclo hagsploitation, iniziato nel 1962 con il capolavoro di Aldrich.
Davis sarebbe apparsa in altri horror, dopo The Nanny, ma con ruoli un po’ diversi da quelli della “vecchietta fuori di testa” che interpreta in Baby Jane, in Chi Giace nella mia Bara e in Piano… Piano, dolce Carlotta e che l’avrebbe resa l’attrice simbolo della stagione dell’hagsploitation anni ’60. Ricordiamo di sfuggita che, ai tempi delle riprese di The Nanny, Davis aveva cinquantasei anni, e lasciamo sedimentare questa informazione per avere il quadro preciso di come le donne sono sempre state trattate nella dorata industria cinematografica.
A differenza della sua collega Crawford, anche lei costretta, dopo il successo di Baby Jane, a fare la megera pazza per l’ultima parte della sua carriera (Crawford aveva qualche anno in più di Davis, ma la sostanza del discorso non cambia), Davis ha avuto la fortuna di incappare in progetti più validi o solo leggermente più prestigiosi rispetto ai lavori di William Castle.
The Nanny è un thriller psicologico di classe, almeno da un punto di vista formale, uno degli ultimi grandi film in bianco e nero della Hammer e antesignano di tanto domestic thriller contemporaneo.
Alla sceneggiatura troviamo il solito Jimmy Sangster, la vera colonna portante della Hammer, non solo di quella più nota e celebrata dei vari Dracula e Frankenstein, ma anche di quella che oggi tendiamo a ricordare meno, piena di elegantissimi gioielli a basso costo. Uno di essi, Taste of Fear del 1961, segna l’esordio dietro la macchina da presa del montatore e produttore anglo-palestinese Seth Holt, nonché l’inizio della sua collaborazione con la Hammer, in quel periodo al picco del suo splendore e del suo potere al botteghino inglese.
I thriller in bianco e nero della Hammer possiedono delle caratteristiche comuni che prescindono dal regista, come del resto anche i loro film a colori sul corpus di mostri Universal: è il celeberrimo stile Hammer, un marchio, un’atmosfera, un’intenzione capaci di rendere queste opere immediatamente riconoscibili. Se è molto facile individuarli negli horror soprannaturali, la questione è più sottile quando parliamo della filmografia in bianco e nero, in parte perché meno studiata, in parte perché anche meno identitaria. È infatti Terence Fisher che imposta, con La Maschera di Frankenstein, tutti gli elementi destinati a tornare negli altri film, anche quando realizzati senza un suo coinvolgimento diretto.
Non si può dire la stessa cosa per l’altra serie di film, ai tempi definiti “mini-Hitchcock”, ma molto più vicini alle produzioni della RKO o, in ambito europeo, ai noir più feroci di Clouzot, come I Diabolici.
Si tratta quasi sempre di thriller e horror da camera, incentrati su paranoia e manie di persecuzione, personaggi la cui sanità mentale viene costantemente messa in discussione, un certo grado di morbosità nell’affrontare temi scabrosi, e finali a sorpresa che avevano lo scopo di traumatizzare il pubblico pagante. Freddie Francis ha diretto il più interessante del mucchio, ovvero Paranoiac, ma a dare il via alle danze è stato proprio Holt con Taste of Fear.
Ce ne sarebbero stati altri all’inizio degli anni ’70, ma a colori, e fanno parte di quella fase della storia della Hammer in cui la casa di produzione annaspa per tentare di adeguarsi a un mercato in via di trasformazione. Con scarsi risultati.
Il ciclo dei “mini-Hitchcock” si chiude proprio con The Nanny, ai tempi un grande successo di pubblico e critica, esercizio paziente e preciso di costruzione della tensione, grandissima prova d’attrice di Davis, qui molto più contenuta rispetto a come siamo abituati a vederla nella sua fase hagsploitation.
The Nanny può anche vantare la presenza di una giovane, ma già veterana, in uno dei ruoli più bizzarri della sua carriera, che di ruoli bizzarri è costellata.
Ecco, bizzarro è un aggettivo che calza a pennello a The Nanny, un film pieno di momenti che sembrano andare in contro tempo, di situazioni stranianti, che si ferma sempre un istante prima di diventare davvero osceno, ma ti fa intuire l’oscenità sotto traccia.
Racconta di una facoltosa famiglia che ha da poco subito la perdita della loro figlia minore, la piccola Susy, annegata nella vasca da bagno. La responsabilità della morte è stata attribuita a Joey, il figlio più grande, subito spedito in una “scuola speciale” per un paio d’anni. La storia comincia proprio il giorno del ritorno a casa di Joey, accolto con enorme ansia dalla madre, con indifferente durezza dal padre e con amore e comprensione dalla vecchia tata, la Nanny del titolo, che non ha neanche un nome, tanto è identificata con la sua mansione.
Il problema è che Joey detesta Nanny: non vuole che gli sistemi la camera, non vuole mangiare nulla che sia preparato da lei, non vuole che gli vada vicino. È anzi certo che l’obiettivo di Nanny sia ucciderlo, come ha ucciso la sua sorellina Susy. Nessuno gli crede: d’altronde Joey è un bambino problematico e aggressivo, mentre Nanny è un pilastro della famiglia.
Trovandoci all’interno di un classico dell’hagsploitation, sarebbe naturale credere il film indirizzi subito le nostre simpatie nei confronti di Joey e le nostre inquietudini nei confronti di Nanny; invece, Sangster e Holt sono bravissimi a confondere e dirottare i sentimenti dello spettatore: Nanny è sinistra, è sempre troppo calma, e dietro l’amabilità e la gentilezza riservata di ogni suo gesto, si cela qualcosa di sbagliato. Tuttavia Joey è un piccolo mostro e un insopportabile marmocchio.
Il giovanissimo William Dix (nove anni all’epoca delle riprese) dà un’interpretazione controllatissima e sottilmente malvagia, impressionante considerando la sua età e la scarsa esperienza: eccezionale nel farsi odiare sin dalla prima scena, nel non ispirare mai un solo momento di tenerezza o di vicinanza, il suo Joey fa parte della nutrita galleria di bambini mostruosi del cinema horror, e di conseguenza, diventa molto complicato dargli ragione o schierarsi dalla sua parte nella guerra psicologica intrapresa con Nanny. Davis, dal canto suo, mostra di avere una pazienza quasi ultraterrena, e non solo nei confronti del demoniaco ragazzino, ma anche nei confronti di sua madre coi nervi a pezzi e di una delle peggiori figure paterne mai apparse in un film Hammer, mai stata avara di padri, a voler usare un eufemismo, discutibili.
The Nanny impiega molto tempo ad arrivare al dunque e allo svelare il mistero su cosa abbia causato la morte di Susy, ma si tratta di tempo molto ben impiegato in un meticoloso sviluppo della psicologia del personaggi: è un crescendo continuo di paranoia e di anime sconvolte da traumi passati, che tuttavia non ci vengono mai chiariti del tutto. Ogni cosa resta avvolta in una coltre di non detto, non risolto, non affrontato, e per questo fa una quantità inimmaginabile di danni.
Dati i due temi principali dell’intero film, ovvero l’aborto clandestino e l’abbandono di minori, è anche normale che fosse così la bellezza di sessant’anni fa, ma è proprio questa reticenza a dare a The Nanny un tono ambiguo e incerto che, alla fine, diventa la chiave della sua riuscita, perché non si riesce mai ad anticipare quello che sta per accadere, e lo stile di Holt, tutto ombre e tagli che lasciano sempre qualcosa ai margini dell’inquadratura, aumenta ancora di più questa sensazione di instabilità, di star seduti sopra a dei candelotti di dinamite pronti a esplodere.
Purtroppo, il film soffre di un finale frettoloso e normalizzante: com’era consuetudine di molto cinema della Hammer, a un certo punto prende e finisce. In compenso, gli ultimi venti minuti hanno un climax da incubo, con almeno due sequenze, il malore della zia di Joey e il doppio flashback sulla morte di Susy, che non avrebbero sfigurato in Repulsion o L’Inquilino del Terzo Piano.
Sessant’anni dopo, ci si rende conto di quanti debiti abbia una grossa fetta di thriller contemporanei con i vecchi “mini-Hitchcock” della Hammer, un intero filone di cinema di genere da riscoprire e da studiare.
November 9, 2025
Good Boy
Regia – Ben Leonberg (2025)
Nel 1992 esce il romanzo Thor, scritto da Wayne Smith, in cui il protagonista è un pastore tedesco, Thor appunto, che si accorge della presenza di un licantropo all’interno della sua famiglia umana. È l’unico a rendersi conto della cosa e, come moltissimi protagonisti della narrativa horror e gotica, non viene creduto fino a quando non è troppo tardi. Nel 1996, il libro (credo sia inedito in Italia) viene portato sullo schermo da Eric Red, con il titolo Bad Moon. Il film è abbastanza fedele alla sua controparte letteraria, ma non ne adotta la principale caratteristica, ovvero il punto di vista interamente non umano.
Non credo che, trent’anni fa, il pubblico avrebbe capito un’operazione cinematografica così sperimentale, soprattutto in un film non d’animazione e non per ragazzi. C’è anche da aggiungere che lavorare con gli animali ti complica sempre la vita.
Oggi siamo molto più abituati alle sperimentazioni in ambito horror, e anzi, le cerchiamo e le premiamo. Good Boy, opera d’esordio del tuttofare Leonberg (ha scritto, prodotto, diretto, montato e curato la fotografia del film), è il corrispettivo puccioso di In a Violent Nature: un’inversione radicale del punto di vista che mette in discussione il linguaggio di un altro filone classico dell’horror, quello della casa infestata.
Indy (interpretato da se stesso) è un adorabile canetto che trasloca, insieme al suo umano Todd, nella vecchia casa in campagna del defunto nonno di lui.
La leggenda di famiglia vuole che quella casa sia infestata: il nonno di Todd è morto in circostanze poco chiare, il suo cadavere è stato ritrovato nel bosco, mentre il suo cane, Bandit, è sparito da allora senza lasciare traccia. La sorella di Todd, Vera, è molto preoccupata, perché Todd non sta bene: ha una malattia cronica ai polmoni, e lei teme che l’isolamento e l’aria lugubre che si respira nella villetta, disabitata da anni, possano aggravare la sua condizione.
Chi si accorge, non appena posa zampa oltre la soglia, che in quella casa c’è qualcosa che non torna, è proprio Indy: vede una figura spettrale, ricoperta di una sostanza scura simile al fango, che si aggira per le stanze e i corridoi, gli appare Bandit che sembra voglia dirgli qualcosa, è tormentato dagli incubi e non è in grado, in nessun modo, di comunicare al suo umano quello che sta passando, non sa come proteggerlo o salvarlo. Nel frattempo, in parte a causa degli eventi soprannaturali di cui solo Indy è consapevole, in parte a causa del deteriorarsi progressivo delle condizioni di salute di Todd, il rapporto tra i due subisce un brusco cambiamento per il peggio.
Ho fatto prima un paragone con In a Violent Nature, perché con Good Boy condivide l’essenza da cinema sperimentale fatto con pochi soldi e tanta cazzimma, ed entrambi i film ci ricordano di come ogni storia, soprattutto se raccontata per immagini, sia sempre e soltanto una questione di punto di vista; in tutti e due i film siamo obbligati ad assistere alla vicenda attraverso lo sguardo di qualcuno di cui di solito non vestiamo i panni, ma che è spesso una presenza fondamentale nei rispettivi generi di appartenenza: l’assassino nello slasher e l’animale domestico nella ghost story.
Good Boy, a differenza di In a Violent Nature, colpisce gli spettatori dove fa più male, sul piano puramente emotivo, ma non lo dico per stabilire la superiorità di un film sull’altro: le storie di fantasmi e di case infestate hanno spesso a che vedere con i sentimenti dei protagonisti, con i loro affetti e con la loro sensibilità. Sia Chris Nash l’anno scorso che Leonberg oggi sanno benissimo quello che stanno facendo e con quali codici, sistema di regole e registri stanno giocando.
È abbastanza consueto che, all’interno di un nucleo familiare minacciato da un’entità malevola, ci sia una bestiola che avverte il pericolo prima degli umani. Accade da Poltergeist in giù, e proprio a Poltergeist dice di essersi ispirato Leonberg quando ha scritto Good Boy.
È anche normale osservare i nostri animali assumere comportamenti bizzarri: i gatti che fissano il vuoto, i cani che abbiano verso il nulla. Si tratta di una serie di situazioni altamente riconoscibili, perché vissute in prima persona o viste al cinema, dalle quali Good Boy pesca a piene mani, rivoluzionandone la prospettiva. Non siamo più noi a non capire a cosa sta ringhiando il nostro cane o cosa abbia improvvisamente attirato l’attenzione del nostro gatto; è l’animale che non possiede gli strumenti per comunicarci ciò che ha visto.
Good Boy è quindi una storia che parla, innanzitutto, di incomunicabilità tra specie di fronte al pericolo, che tuttavia è duplice e ancora più insidioso che se si trattasse di una semplice casa infestata: la malattia di Todd ha infatti un ruolo molto importante, tanto che si potrebbe arrivare a stabilire un’identità assoluta tra malattia e infestazione, dove Indy non può comprendere la prima, ma può invece sentire la seconda, che è la sua emanazione. Indy non è in grado di spiegare a Todd cosa vede, e Todd non è in grado di spiegare a Indy cosa sta succedendo al suo corpo; una relazione che fino a poco tempo prima, era perfettamente bilanciata, non appena si arriva nella vecchia casa del nonno, perde tutto il suo equilibrio.
E pure questo, lo abbiamo già visto succedere, da Amityville in giù: i rapporti deteriorati, le persone che si trasformano nella loro versione peggiore, quando arriva il soprannaturale a intaccarne le fondamenta. Non lo abbiamo mai visto, e scusate se mi ripeto, dalla prospettiva di una creatura che non solo si esprime in maniera diversa da noi, ma ha una differente percezione della realtà.
Good Boy, infatti, fa a meno dell’elemento umano: non mostra mai, se non per pochi istanti e in una scena specifica, il volto di Todd, tiene la macchina da presa ad altezza cane, ci mostra il mondo con uno sguardo che non è il nostro, e così, pur lasciando invariata la struttura narrativa della ghost story classica, ne risistema tutte le priorità.
A me pare miracoloso che Good Boy funzioni così bene mettendo in scena un azzardo così grande. Non fraintendetemi, qualunque individuo che non sia rivoltante e immondo non può resistere di fronte al musetto di Indy, ma questo serve ad attirare l’attenzione del pubblico, è una mossa scaltra, che tuttavia serve a poco se poi non ti presento un film che sia coerente con le premesse e solido da un punto di vista narrativo ed estetico.
Good Boy possiede entrambe le caratteristiche: è efficace come puro racconto del terrore in ogni sequenza in cui il povero Indy è alle prese con l’entità che dimora tra le mura domestiche, ha una messa in scena molto semplice, anche povera (il budget è quello che è), ma in grado di simulare alla perfezione il punto di vista del suo personaggio principale, che viene adottato dall’inizio alla fine senza mai uscirne, e la breve durata lo aiuta a non ripetere all’infinito lo stesso meccanismo.
Se avevate il dubbio, lecito, che Good Boy fosse soltanto una trovata simpatica senza un vero film intorno, non è assolutamente questo il caso.
Questo perché Leonberg ha molto chiaro quale sia il cuore della vicenda, quell’amore del tutto privo di condizioni che soltanto un animale è in grado di dare e che, tuttavia, parla una lingua che spesso non possiamo capire. Ci capita spesso di dare per scontata la silenziosa e affettuosa presenza dei nostri animali, di non prestarvi la sufficiente attenzione, di non darvi quasi peso, perché è semplicemente lì, sempre accanto a noi. Sottovalutiamo un dettaglio niente affatto trascurabile: per noi, loro sono una parte, anche se importante, della nostra vita; per loro, noi siamo il loro mondo, tutto intero.
Good Boy racconta, con una lucidità straziante, quello che accade quando il loro mondo crolla, quando li tradisce, li ferisce e li scaccia e loro non hanno gli strumenti per comprenderne il motivo, e nonostante tutto, non esiste tradimento o ferita così grande da spegnere quell’amore gratuito, assoluto e (per noi) incomprensibile, che alla fine ci salva, se non la vita, almeno l’anima.
Ora corro ad abbracciare i miei gatti prima di piangere da qui al 2030.
November 6, 2025
Frankenstein
Regia – Guillermo del Toro (2025)
Uno dei più grossi privilegi dell’abitare a Roma è dato dal fatto che i film escono tutti ed escono sempre, magari solo in un paio di sale all’altro capo della città, e tu devi fare i salti mortali per arrivarci, ma va bene lo stesso: almeno ci sono. Questo vale in particolare quando bisogna combattere con quei maramaldi di Netflix, perché a loro non interessa affatto che il film abbia una distribuzione capillare nei cinema; Netflix usa le sale come veicolo per prendersi le nomination agli Oscar, terreno su cui il colosso dello streaming si comporta da bambino capriccioso che vuole il premio più grande a tutti i costi. È per questo che finanzia progetti ambiziosi di autori di rilievo. Anche nel caso di Frankenstein, tuttavia, la vedo dura: se contribuisci attivamente all’assassinio del cinema come luogo privilegiato per vedere i film, è ovvio che l’industria ti guardi con un leggerissimo sospetto.
Tediosa introduzione per dire che io Frankenstein l’ho visto in una delle due sale romane in cui è uscito, e che è stato davvero un privilegio. Ho aspettato oggi per parlarne, perché oggi il film arriva su Netflix e ce lo possiamo guardare tutti quanti, anche se non sarà mai la stessa cosa: Frankenstein è un’opera pensata per il grande schermo.
Guillermo del Toro fa parte di quel gruppo di registi sui quali rivendico il mio essere smaccatamente di parte. C’è qualcosa, nel suo stile, nel modo in cui usa i colori, nei movimenti che fa fare alla sua macchina da presa, che parla dritto alla parte più profonda di me, ma a parte questo, è ancora uno dei pochi in circolazione a fare un cinema magniloquente e barocco, un cinema che espone la propria natura di finzione pura, attraverso l’uso di tutta una serie di dispositivi linguistici e di metodi artigianali. Del Toro è uno che i film li crea e li costruisce con le mani, che si tratti di robottoni contro mostri giganti, di creature anfibie che trovano l’amore o di storie gotiche senza tempo, lui resta sempre agganciato a una concezione di cinema molto vicina alla magia, al gioco di prestigio, all’illusionismo. E qui lo abbiamo detto tante volte che, alla fine, i film sono soltanto una versione più sofisticata di uno spettacolo da fiera, ma è proprio in questo che sta la loro peculiarità, il loro trascendere, in qualche caso, nell’empireo dell’arte.
Non esiste un film di del Toro che non sia personale, anche quando si mette al servizio del blockbuster come in Pacific Rim, ha sempre un controllo assoluto su ogni fase della lavorazione e su ogni reparto coinvolto.
Impossibile quindi pretendere che l’adattamento di Frankenstein non diventasse una cosa sua.
Che del Toro sia nato per portare questa storia sullo schermo è ovvio e scontato, ma come tutto ciò che è ovvio e scontato, è anche vero. Prima di tutto il resto, del Toro è un regista di mostri e creature; difficile quindi che la creatura per antonomasia non gli appartenga. E non solo: quasi tutti i film di del Toro sono, in parte o del tutto, film gotici. Facile riferirsi a Crimson Peak, di cui questo Frankenstein è quasi un’estensione, però anche quando si aggira in territori all’apparenza insospettabili, tipo i cinecomics, l’essenza gotica del suo cinema viene sempre fuori. Sì, anche in Pacific Rim.
Insomma, del Toro e Mary Shelley, prima o poi, dovevano incontrarsi, e dovevano anche tradirsi, perché oltre al fatto di trovarci nel 2025 e di avere quindi esigenze diverse rispetto a quelle del 1818, un autore prende da un’opera ciò che gli serve, la plasma, la adatta alla sua poetica, anche quando la ama. Direi soprattutto quando la ama.
Del Toro avrà letto il Frankenstein decine e decine di volte nel corso della sua vita. Solo per scrivere e mettere in scena questo film, sarà ritornato sulle pagine del romanzo all’infinito. Credo che lo sappia a memoria e, cosa più importante di tutte, lo ha capito, lo ha assorbito, lo ha reso parte di sé e, infine, ne ha estratto gli elementi essenziali, lasciandone la struttura quasi inalterata, ma intervenendo pesantemente su parecchi passaggi e snodi narrativi.
Questa versione di Frankenstein racconta, a un primo livello, la storia di un ciclo di violenza e abuso che si perpetua di generazione in generazione. Se nel romanzo, la reazione di Victor davanti alla propria creazione era di rifiuto e fuga, qui si risolve all’inizio in un tentativo di educare il mostro, ripetendo gli stessi schemi di abuso e sopraffazione che il giovane Victor aveva subito dal padre. La creatura, interpretata da uno straordinario , che io non so se si sia ripreso dall’esperienza e che vorrei abbracciare e dirgli quanto è stato bravo, non possiede gli strumenti per comprendere le intenzioni del suo creatore, e più si mostra indifeso e fragile, più Victor gli si accanisce contro. Dapprima è irritazione, poi odio puro. Personaggio molto sgradevole, proprio come nel libro (è inutile che fare finta di no) Victor () è prima inebriato dalla sua arroganza e dalla sua ossessione di sconfiggere la morte, poi avvelenato da una rabbia feroce contro il simbolo del suo fallimento, rinnegandone la paternità.
Come vedete, è tutto molto simile al romanzo, eppure allo stesso tempo differente, filtrato attraverso una sensibilità che mette, dal momento della nascita, in primo piano la creatura, anche quando la voce narrante è quella di Victor. Rispetta con devozione il meccanismo della divisione del racconto in due sezioni distinte, ma dal momento in cui il mostro entra in scena, lo fa diventare il protagonista della sua storia. Soprattutto, stabilisce tra Victor e l’essere che ha messo al mondo una relazione antecedente al loro successivo incontro, che nel romanzo non esiste, perché i due si separano subito, per poi ritrovarsi molto tempo dopo e in circostanze decisamente cambiate.
In questa relazione sta il cuore del film, perché la creatura appena nata diventa portatrice di innocenza e purezza assolute, e lo vediamo con i nostri occhi, non attraverso il racconto di un personaggio che, nel frattempo, è cresciuto ed è stato, in un certo senso, contaminato. Noi, il mostro di Frankenstein, qui lo conosciamo bambino.
E non solo noi: un altro punto in cui del Toro si smarca dalla storia di Shelley è nella rappresentazione di Elizabeth, una che finalmente assurge al rango di divinità, grazie Guillermo. Elizabeth è forse il personaggio che è stato oggetto di maggiore stravolgimento dalla pagina allo schermo, pur mantenendo abbastanza intatto il ruolo di bussola morale di Victor, che tuttavia qui si esprime in maniera più conflittuale, anche perché Elizabeth conosce il mostro subito dopo la sua nascita, accogliendolo senza neanche pensarci un istante.
Riecheggia, in questa nuova Elizabeth quel “We belong dead” di James Whale, ma non come una condanna, bensì come una rivendicazione di irriducibile diversità, di reciproco riconoscimento, la sensazione di appartenere alla stessa categoria di reietti. Tutte la tenerezza e la compassione di del Toro sono rivolte a Elizabeth e alla creatura, e non è nulla di sbalorditivo: basta aver visto La Forma dell’Acqua per sapere che il regista regala ai mostri Universal che ha amato la loro seconda occasione.
Perché non bisogna dimenticare che Frankenstein non instaura un dialogo solo con la sua controparte letteraria: ci sono decenni di storia del cinema che gli presentano il conto, in particolare quello degli anni ’30, ma anche la solita Hammer e il solito gotico italiano da cui del Toro ha spesso ripreso colori e illuminazione. È importante sottolineare che Frankenstein arriva a noi attraverso una quantità innumerevole di rielaborazioni, e attraverso decine di opere che a esso si sono ispirate e, nel corso dei secoli, hanno anche modificato la percezione che abbiamo di questa storia. Frankenstein non è soltanto il romanzo di Shelley, è Boris Karloff inseguito dai villici col forcone, è James Whale che brinda a un nuovo mondo di demoni e dei, è persino Brendan Fraser che imita le movenze della creatura mentre va a buttare l’immondizia in Gods and Monsters; soprattutto è il punto di origine di tutta la narrativa dell’orrore, classica e contemporanea, caratteristica che condivide con un altro pugno di opere: sta alle fondamenta di un immaginario e, per questo, possiede la caratteristica dell’eternità e del perenne mutamento. Un nucleo concettuale che resta invariato (giocare a fare Dio, creare un essere a nostra immagine in maniera innaturale e poi fuggire inorriditi, questo semplificando al massimo) e che si adatta a ogni epoca e a ogni tipo di mentalità. In sintesi estrema: l’inusitata potenza dell’archetipo.
Del Toro affronta questo ginepraio culturale come soltanto lui sa fare, ovvero realizzando un’opera che racchiude tutte le altre al suo interno ed è allo stesso tempo nuova e attualissima. Il film è di una bellezza oltre l’umana comprensione, e parlo di bellezza estetica; è un Crimson Peak all’ennesima potenza, con i tipici toni blu e ambra di del Toro e quei punti di rosso acceso che spiccano quasi con violenza sullo schermo, nei vestiti di Mia Goth e nel sangue dei cadaveri; con le scenografie sontuose, i meccanismi pratici, presenti sul set e appena aiutati da interventi miratissimi di VFX in post produzione; con le tutte le ossessioni del regista che fanno capolino da ogni fotogramma, dagli insetti ai marchingegni, ai dettagli dell’anatomia umana; con le occasionali esplosioni di repentina ferocia. Poesia in immagini in movimento.
E non fatevi fregare: Frankenstein è un horror e non è possibile equivocare in alcun modo. È un horror gotico, ma pur sempre un horror. Capisco che del Toro abbia voluto mandare un certo tipo di messaggio al pubblico, ma noi siamo abbastanza scafati da capire dove risiede la verità.
Se è dalla parte del mostro? Certo che sì: ogni Frankenstein degno di chiamarsi tale lo è. Non è una tendenza del cinema contemporaneo, quella di capire e provare empatia nei confronti di creature non umane o non considerate umane: è alla radice dell’horror, è il senso di un intero genere, anche quando il mostro è “cattivo”.
Se poi si parla di del Toro, che sull’amore per ogni essere sgraziato, deforme, strano e abietto ci ha costruito una carriera sopra, aumentate il fattore in maniera esponenziale e avrete il suo Frankenstein, un film dove noi non proviamo pietà per la creatura, ma siamo la creatura, siamo il suo dolore, siamo il suo abbandono, siamo il suo disperato tendere verso una qualsiasi forma di affetto e di amicizia, siamo anche la sua furia vendicativa, e infine la sua capacità di perdonare, di pronunciare la prima parola di ogni bambino, quella che indica chi lo ha messo al mondo.
Potrei davvero continuare a scrivere di questo film per altre sei ore e comunque non basterebbero. Poi, non voglio rovinarvelo, perché è appena sbarcato su Netflix e non è necessario darvi altre informazioni.
È il Frankenstein di del Toro, è il punto di arrivo di un’intera carriera, è la summa di tutto il suo cinema. È un capolavoro.
November 2, 2025
The Long Walk
Regia – Francis Lawrence (2025)
Io ve lo giuro, questo film volevo vederlo in sala. Ho passato l’estate a controllare tutti i santi giorni l’esistenza di una data di distribuzione nel nostro paese. Non l’ho mai trovata. Oggi, facendo l’ennesimo tentativo, ho visto che dovrebbe essere prevista per la metà del mese di febbraio 2026. Tendenzialmente, sarei una persona per bene, nel senso che, se ci fanno la cortesia di portare un film al cinema da noi, lo aspetto: ho fatto così per Maxxxine, ho fatto così per Bring Her Back e per molti altri che non sto qui a elencare perché lo sapete.
Però poi mi fanno incazzare: non è possibile che un film di questa portata ci metta la bellezza di cinque mesi per essere distribuito in Italia, non negli anni ’20 del XXI secolo, quando si sa che la finestra tra la sala e il digitale è sempre più breve. Se tornerò al cinema e pagherò il mio biglietto per vedere il film? Certo che sì: il piccolo schermo, soprattutto per un’opera così, è mortificante, quindi a febbraio sarò in prima fila, sempre che la data sia reale. Ma mi si perdoni se proprio non potevo aspettare.
The Long Walk è l’adattamento, dopo una gestazione durata una quantità spropositata di anni, dell’omonimo romanzo di Stephen King, ma scritto sotto lo pseudonimo di Richard Bachmann, uscito nel 1979 e scritto parecchio tempo prima. Si tratta di un libro giovanile, arrabbiato come tutti quelli firmati Bachmann, e con una qualità molto peculiare, che mi viene da definire feroce lirismo. Se capita di leggerlo a una certa età, credo sia uno di quei libri che ti resta dentro per sempre, e al quale si tende a ritornare spesso, in diverse fasi della propria vita. Almeno, questo è ciò che è successo a me: ho letto La Lunga Marcia prima di IT e poco dopo Pet Sematary. Ora non ricordo con precisione, ma potrebbe essere il mio secondo libro di King. Dovevo avere circa quattordici anni, quindi, giusto un paio in meno dei protagonisti del romanzo: cento ragazzi che camminano attraverso tutto lo stato del Maine in una crudelissima gara a eliminazione diretta. E per eliminazione, si intende eliminazione fisica.
Per la vostra, si tratta di un libro importante, uno dei più importanti nella sua formazione culturale. Aspetto questo adattamento da più di trent’anni, eppure il progetto di portare sullo schermo il romanzo è ancora più antico. Il primo tentativo risale infatti al 1988, e a dirigerlo doveva esserci nientemeno che Romero, ma sono innumerevoli i registi che si sono avvicinati a La Lunga Marcia. È quasi un miracolo che qualcuno sia finalmente riuscito a realizzarlo, e credo c’entri molto con il clima culturale che stiamo vivendo.
Se mi fidavo ciecamente di alla sceneggiatura, avevo qualche perplessità su Lawrence, che non è poi questo manico, anche se rimango sempre molto legata al suo Constantine. Invece, sono proprio la messa in scena e le scelte di regia compiute da Lawrence a fare di The Long Walk in grande film che è. Moliner è bravo, per carità, fa un lavoro pulitissimo, rimanendo fedele al libro e cambiando giusto quelle tre o quattro cose che servono a rendere il tutto più snello (non più cento, ma cinquanta partecipanti alla Marcia, le motivazioni di Garraty, la storia della cicatrice di Pete) e aggiornato ai tempi attuali. Attua solo un enorme, macroscopico cambiamento nel finale, ma ci sta, è giusto e coerente col tono del film. Per il resto, sale sulle spalle del gigante King e le usa per guardare più lontano possibile.
Lawrence, dal canto suo, non so cosa si sia bevuto o fumato, ma è un poeta.
Il problema principale di un adattamento cinematografico de La Lunga Marcia è che il romanzo si svolge tutto all’interno del paesaggio interiore del protagonista Garraty, il numero 47, il beniamino del Maine. Per quanto ci siano tanti altri personaggi, non è una storia corale, è la sua storia, e tutto ciò che accade è filtrato dal suo sguardo.
Lawrence, al contrario, fa del suo film una vicenda collettiva, togliendo Garraty dal piedistallo di protagonista assoluto, dando quindi più spazio agli altri e, soprattutto, a Pete McVries, il numero 23, il ragazzo con la cicatrice, qui interpretato divinamente da .
La rabbia, l’aggressività, la sgradevolezza del romanzo vengono stemperate da Lawrence in un canto a più voci di ragazzi condannati a morte che non ci stanno a perdere la propria umanità, anche quando un soldato sta per far saltare loro la testa.
Non è affatto una visione leggera, e alla prima carabina che tuona, comincerete a sentire uno strazio interiore che non vi abbandonerà fino a molte ore dopo che la parola fine sarà apparsa sullo schermo; è anche un film violento e truce, che non risparmia i dettagli più rivoltanti di una situazione simile e mette in evidenza con crudezza cosa succede a un corpo quando lo spingi oltre i limiti, o semplicemente quando è costretto a espletare delle funzioni obbligatorie in un contesto in cui anche fare la pipì può costarti la vita. E tuttavia, The Long Walk è un film di straordinaria dolcezza, il che, se ci pensate, è anche più doloroso.
In questo, Lawrence azzecca in pieno quel registro di feroce lirismo del romanzo di cui parlavo in apertura, e addirittura lo amplifica, trasformando un romanzo grezzo e ancora acerbo in una matura dissertazione su quanto è precario il nostro passaggio sulla terra, quanto la sua durata, comunque breve, è frutto di circostanze minime, sulla palese truffa della sopravvivenza del più forte o adatto.
Lawrence ha voluto girare il film in ordine cronologico, facendo camminare gli attori per diversi chilometri in differenti condizioni atmosferiche e di luce. Questo ha dato al risultato finale un’energia ruvida e un senso di urgenza quasi palpabile: The Long Walk sembra un film della New Hollywood anni ’70, e lo si distingue dal cinema di quella stagione giusto per una pulizia visiva maggiore e per qualche effetto speciale aggiunto in post produzione. A parte questi dettagli, si capisce che l’intenzione di Lawrence era quella di ricreare la “pasta” di quelle pellicole. Più Non Si Uccidono così anche i Cavalli che Hunger Games, per essere il più chiari possibili.
La natura politica di un film di questo tipo è evidente in ogni fotogramma, e non solo per ciò che accade ai marciatori, ma per tutto quello che vive e respira ai margini dell’inquadratura, lungo i campi, nelle città disabitate che i ragazzi attraversano, nei volti dei pochi spettatori sul ciglio della strada: un’America sprofondata nel terrore e nell’incertezza, che manda a morte i suoi giovani nella promessa di ricchezze inimmaginabili e di desideri da realizzare. Si tratta, ed è evidente nel momento in cui si mette il primo piede sull’asfalto, di una falsa promessa, di un gioco truccato, una partita che non puoi vincere, anche se rimani l’ultimo uomo in piedi.
Il romanzo, scritto a metà degli anni ’60 era una metafora, molto evidente, della guerra in Vietnam. Il film, su questo, fa un ottimo lavoro di ambientazione, perché, pur non dando precise indicazioni cronologiche, situa la vicenda in una versione alternativa e distopica degli anni ’70: è cambiato tutto e non è cambiato niente, e c’è qualcosa di sbagliato e di corrotto nell’identità stessa di un paese. Letto oggi, La Lunga Marcia era in anticipo sui tempi, non forniva spiegazioni, non dava dettagli sulla dittatura che dominava gli Stati Uniti, non raccontava nulla sul Maggiore e su come si era instaurato il suo potere: ogni cosa era data per scontata e inserita in un discorso più ampio sulla natura autoritaria del sistema americano.
Anche qui, il film ci prende in pieno, lasciando la periodizzazione sul vago e facendo così intendere che l’autoritarismo sia una qualità intrinseca della “più grande democrazia del mondo”.
Che da Hunger Games siano passati più di 10 anni è evidente: quella era la storia di una ribellione, mentre La Lunga Marcia è la storia di una mandria di mucche al macello, che proseguono a camminare al di là dei loro limiti di sopportazione in vista di un miraggio nebuloso.
Anche The Long Walk quindi rientra in questo smottamento recente del cinema dell’orrore che ha ripreso a guardarsi alle spalle e, con rassegnato disincanto, prende atto di un gigantesco fallimento e punta dritto alla struttura delle cose, immutabile, eterna, sbagliata nella sua essenza e troppo grossa per essere davvero modificata.
Non è una tendenza soltanto dell’horror: Eddington, House of Dynamite, Civil War e Warfare hanno tutti questa impostazione. Non so se siamo arrivati alla fine a un irrecuperabile cinismo o se sono le fondamenta di qualcosa di nuovo. Lo vedremo.
Per ora, godiamoci questi splendidi film e ringraziamo.
October 30, 2025
Nuovi Incubi Halloween Challenge Day 31: R.L. Stine’s Pumpkinhead
Regia – Jem Garrad (2025)
Mentre i colossi dello streaming si fanno la guerra e non riescono a trovare un cazzo di horror decente da far uscire per Halloween, Tubi è qui a salvare vite, in silenzio, ventre a terra nella trincea del basso budget, e tra un po’ darà del filo da torcere a tutti. Segnatevi le mie parole per il futuro, grazie.
Il Day 31 richiede, come da tradizione, di parlare di un film ambientato la notte di Halloween, altrimenti cosa abbiamo fatto tutto il mese, giocato con le bambole?
Mi sono resa conto di aver scelto quasi sempre film pesanti come macigni e, a parte qualche lodevole eccezione, comunque impegnativi. Per il 31 ho deciso di dedicarmi a qualcosa di completamente diverso, perché Halloween è una festa per ogni fascia di età e per ogni tipo di spettatore, non solo chi si guarda le peggiori carneficine senza scomporsi un minimo.
I cosiddetti horror di passaggio, molto comuni negli anni ’80 e ’90, sono anche una specie in via di estinzione, anche perché, quando ne fanno uno, lo prendete subito a pernacchie.
Lo sapete chi è il maestro indiscusso dell’horror per ragazzi? Esatto, R.L. Stine che, con i suoi libri, ha forgiato nel sangue generazioni di lettori e ha avuto una discreta fortuna anche in televisione: a parte Piccoli Brividi, andata in onda a partire dalla seconda metà degli anni ’90, esiste anche un’altra serie un po’ più più recente, The Haunting Hour, sempre basata sulle opere dell’autore. Uno degli episodi di questa serie era Pumpkinhead, tratto dal racconto omonimo contenuto nell’antologia L’Ora degli Incubi.
Il film di oggi è una nuova versione di quella storia e, se vivessimo in un paese civilizzato, sarebbe molto divertente sottoporlo a figli e nipoti per passare una sera di Halloween spooky ma non troppo, appunto, alla portata di chiunque abbia il desiderio di viversi questa giornata senza restare traumatizzato o traumatizzare altre persone.
Purtroppo Tubi qui da noi non arriva e Pumpknihead può essere reperibile solo se vi armate di VPN e non avete problemi con i sottotitoli in inglese. Agli altri resta la nobile alternativa di attaccarsi al tram.
Pumpkinhead (da non confondersi con il mostrazzo di Stan Winston) è la storia di una famigliola composta da mamma e due figli adolescenti, che si trasferisce, proprio a ridosso di Halloween, in una tranquilla comunità rurale. Arrivando da New York, si devono adattare al repentino cambio di atmosfera, ma se la madre e il fratello maggiore Finn sembrano accettare di buon grado la nuova città e i suoi abitanti, il minore Sam, di tredici anni, ha tutte le intenzioni di farla pagare a chiunque abbia avuto la pessima idea di dislocarlo a Bifolcolandia.
Sam infatti si comporta come la più insopportabile peste sulla faccia della terra, provoca i locali, rende impossibile la vita a sua madre e, come oltraggio definitivo, ruba una zucca da competizione al più ricco agricoltore della città. Quando il furto viene scoperto, Finn si offre al posto suo di andare a restituire il maltolto, ma non fa più ritorno. Ancora peggio: nessuno degli adulti sembra ricordarsi della sua esistenza. Persino l’amorevole mamma se lo è dimenticato.
Insieme a una sua coetanea, Becka, Sam dovrà risolvere il mistero e provare a salvare suo fratello, prima che la notte di Halloween finisca.
Se avete letto anche mezzo libro di Stine in vita vostra, la sinossi del film vi avrà già fatto capire che siamo nel pieno del suo territorio prediletto: ragazzini che devono unire le forze per affrontare una minaccia soprannaturale nell’indifferenza, e spesso aperta ostilità, degli adulti, con largo spazio dedicato a una parte investigativa, perché c’è sempre un mistero, c’è sempre un enigma che aspetta solo un paio di tredicenni abbastanza svegli da venirne a capo.
Non è solo la struttura classica di quasi ogni storia di Stine, è la mappa del 90% degli horror pensati per un pubblico molto giovane. Se fatto male, è una noia mortale, se fatto bene, ti porti a casa una manciata di minuti di intrattenimento, tenerezza e qualche sano spavento. Pumpkinhead è fatto molto bene.
Dietro la macchina da presa e anche a scrivere la sceneggiatura, troviamo la stessa persona che l’anno scorso ci ha regalato Slay. Magari Slay non finirà tra gli horror del secolo, come non ci finirà Pumpkinhead, ma entrambi sono realizzati con grande amore e grande consapevolezza dei limiti e delle possibilità dell’operazione.
In questo caso, Garrad sa che sta dirigendo un horror per ragazzi e presta la massima attenzione a rispettarne tutti gli appuntamenti, ma allo stesso tempo non dimentica che, sempre in maniera proporzionata alla fascia d’età, la sua missione è quella di raccontare una storia di paura. Di crescita, certo, di passaggio dall’infanzia all’adolescenza, con tutto ciò che questo comporta, ma soprattutto un horror soprannaturale con gente decapitata e un bellissimo mostro spaventapasseri che insegue i nostri protagonisti ed è seriamente intenzionato a far loro la palle.
Non guasta affatto che Pumpknihead, a grattare la superficie, sia un folk horror in piena regola, con tutto l’armamentario cultista, antiche divinità che arrivano dai recessi più profondi della terra, e la piccola comunità rurale che ha stipulato un patto con esse e a esse deve pagare un tributo di sangue annuale.
Il film è coloratissimo, quasi scintillante nelle scene diurne, ben illuminato in quelle notturne, e si permette persino una lunga sequenza al tramonto, che riesce a dare proprio la sensazione tangibile, epidermica dell’autunno.
I due ragazzini protagonisti sono molto graziosi, bravi, divertiti e divertenti da guardare, sia nelle parti comiche sia in quelle drammatiche sia quando devono mostrarsi terrorizzati. Il cast di adulti offre loro il giusto supporto, in particolare , che interpreta l’eremita un po’ svitato del villaggio.
Dura poco, ha un ritmo frenetico, ma non dimentica di dare spazio e respiro ai personaggi, gran parte degli effetti speciali sono artigianali e sono magnifici, in particolare il già menzionato mostrone e le zucche mutanti (chiamiamole così per non fare spoiler); ci sono pure un paio di inserti animati che ti risolvono il problema flashback con eleganza e disinvoltura. Potrei quasi farlo vedere a mio nipote.
O forse no, perché sotto a tutta questa carineria, batte un cuore nerissimo, che si percepisce quasi a livello subliminale per gran parte del film, e che ti aggredisce con un finale che mai mi sarei aspettata di vedere in un horror per bambini: triste, cupo, senza speranza, come del resto è quasi sempre quel salto nel buio che viene chiamato processo di crescita per fregarci meglio.
Ma non è soltanto il finale: ci sono diversi indizi messi lì a farti capire che sì, è tutto giocoso e pieno di luce, però ogni personaggio che incontriamo si porta appresso dei traumi di dimensioni ragguardevoli, ferite aperte, errori irreparabili e spesso commessi con noncuranza e inconsapevolezza o, peggio ancora, pensando di fare del bene.
C’è sempre una certa delicatezza, da parte di Garrad, nell’affrontare certi temi, ma senza nasconderli, edulcorarli o alleggerirli.
Insomma, alla fine questo Pumpkinhead di Tubi si è rivelato una sorpresa molto piacevole, un film perfetto per chiudere la nostra challenge e salutarvi tutti, augurandovi di passare una magnifica notte di Halloween e ringraziandovi di aver giocato con noi. È stato bello, per un mese, sentirsi parte di una grande famiglia di psicopatici.
Con una lacrimuccia e un pizzico di nostalgia, noi di Nuovi Incubi vi diamo appuntamento all’anno prossimo, ma ricordate che qui la spooky season dura per dodici mesi di fila e il flusso di film dell’orrore non si ferma mai.
Vi voglio bene!
October 29, 2025
Nuovi Incubi Halloween Challenge Day 30: Cigarette Burns
Regia – John Carpenter (2005)
Oggi bariamo, ma solo fino a un certo punto, perché il tema della giornata è “Serie tv horror”. Tecnicamente, Masters of Horror è una serie televisiva, ma, nella sostanza, Cigarette Burns è un film, anche se dura soltanto un’oretta scarsa. Facciamocela andare bene, anche perché (preparate torta e candeline), questo è un altro dei tanti complehorror che abbiamo celebrato nel corso della challenge: è andato in onda negli Stati Uniti il 16 dicembre del 2005, quindi vent’anni fa a breve.
Prima di addentrarci nel contributo di Carpenter, cerchiamo di capire cos’è stato Masters of Horror, perché vent’anni non sono pochi ed è possibile che ci sia chi non se la ricorda o non l’ha proprio vissuta.
Nel 2002, Mick Garris organizza una cena tra amici. Gli amici in questione sono Joe Dante, John Landis, Guillermo del Toro, Stuart Gordon, John Carpenter, Don Coscarelli, Tobe Hooper e altra gente che qualcosina con l’horror ha a che spartire. A questa prima cena ne seguono altre e la simpatica combriccola si amplia. Non so se perché a un certo punto erano tutti sbronzi, ma nasce qui l’idea di una serie televisiva antologica in cui ogni episodio fosse diretto da un maestro del genere.
Un progetto che, nel 2005 era davvero innovativo, perché tendeva a sfidare le convenzioni e i limiti del mezzo televisivo.
Garris, che ha sempre le mani in pasta ovunque, riesce a ottenere i finanziamenti dalla Lionsgate e a stipulare un contratto con la Showtime per la messa in onda. La prima stagione di Masters of Horror viene trasmessa dall’ottobre del 2005 al febbraio del 2006, ottenendo critiche lusinghiere e un ottimo riscontro di pubblico. Se ne fa una seconda, uscita l’anno dopo, che però non ha lo stesso successo. Showtime e Lionsgate staccano la spina e Garris va a occuparsi della sfortunata Fear Itself, serie gemella della NBC che dura neppure una stagione prima di essere cancellata.
In Italia, Masters of Horror arriva soltanto nel 2007 su Sky, ma gli appassionati l’avevano già vista per vie traverse. Impossibile resistere al richiamo di certi nomi e, soprattutto, al concetto di una serie pensata per mostrare quello che, su un piccolo schermo, non era mai arrivato.
Agli autori coinvolti non venivano infatti posti limiti creativi di alcun tipo: l’unica regola cui dovevano sottostare era la presenza massiccia di gore in almeno in un paio di scene per episodio. C’è chi ha preso il compito con dedizione eccessiva, come Takeshi Miike, il cui episodio, Imprint, non è mai andato in onda perché giudicato troppo esplicito dalla Showtime. A parte l’incresciosa vicenda di Imprint, è vero che in televisione certe cose non si erano ancora mai viste.
Io, della prima stagione, possiedo un cofanetto regalatomi da un vecchio amico che non c’è più, e lo conservo come un cimelio. È difficile spiegare oggi il legame affettivo con questa serie un po’ scalcinata e di certo non perfetta; rivisti nel 2025 alcuni episodi sono invecchiati molto male e risentono del formato della tv dell’epoca. È giusto ammetterlo, ma non ha molta importanza e non sminuisce affatto la portata dell’evento. Resta, a mio parere, il maggior contributo dato da Garris al genere e mai lo ringrazierò abbastanza per questo.
Gli episodi della prima stagione sono, in generale, tutti dignitosi. Spiccano quelli di Coscarelli, di Dante e di Lucky McKee. Poi ci sono due mediometraggi che giocano in un campionato a parte: il già citato Imprint e Cigarette Burns di John Carpenter.
Carpenter, a inizio secolo, non se la passa benissimo, come del resto molti dei suoi colleghi qui coinvolti. Sono quattro anni che non dirige un film e il magnifico e incompreso Fantasmi da Marte non è andato bene e non è piaciuto a nessuno, tranne a poche menti illuminate. Tipo me.
Con Cigarette Burns, il regista torna a occuparsi degli stessi temi di uno dei suoi più grandi capolavori, In The Mouth of Madness, con il cinema al posto della narrativa come motore della vicenda.
Il punto di partenza, abbastanza banale (la sceneggiatura non è del Maestro) è la ricerca del classico film maledetto, che in mano a Carpenter diventa un riflessione sul potere delle immagini, delle storie e sul patto che si stipula tra regista e spettatore quando si spengono le luci in sala.
Pieno di debiti, perseguitato dal padre della sua fidanzata morta suicida, Kirby () è il proprietario di un cinema d’essai sull’orlo del fallimento e, occasionalmente, è anche uno in grado di procurarti pellicole difficilissime da reperire. Riceve, da parte dell’eccentrico miliardario cinefilo Bellinger () l’incarico di trovare il film introvabile per eccellenza: La Fin Absolue du Monde, proiettato una sola volta al festival di Sitges nel 1971 e poi apparentemente distrutto, dopo che gli spettatori in sala avevano dato in escandescenze e avevano cominciato ad ammazzarsi l’uno con l’altro.
Pochissimi lo hanno visto e sono sopravvissuti per raccontarlo.
Kirby, a causa del disperato bisogno di soldi, si imbarca nell’impresa, senza sapere che La Fin Absolue du Monde non è un film maledetto in senso figurato o metaforico, ma la maledizione va intesa in senso molto letterale.
Tra allucinazioni, viaggi in giro per l’Europa, incontri con personaggi pittoreschi e spesso pericolosi, Kirby troverà quello che cercava, e anche quello che si merita.
Le bruciature di sigaretta del titolo si riferiscono a quei cerchi che appaiono sulla pellicola quando finisce un rullo, e che danno il tormento a Kirby dal primo istante in cui decide di accettare la missione.
Bisogna subito sottolineare un dettaglio che pare di scarsa rilevanza, ma secondo me è fondamentale: Cigarette Burns è l’unico film del lotto di Masters of Horror a portarsi il nome del regista nel titolo. Gli altri film si chiamano Sick Girl, Jenifer, Homecoming e via così; questo è John Carpenter’s Cigarette Burns, un po’ come Wes Craven’s New Nightmare. C’è quindi, proprio in partenza, una forte rivendicazione d’autore, che per esempio non ci sarà in Pro-Life, l’episodio della seconda stagione diretto da Carpenter.
È un’opera radicalmente teorica, Cigarette Burns, non tanto interessata alle indagini relative all’ubicazione e alla storia del film maledetto, ma all’oggetto filmico in quanto tale , alla magia che si crea quando un film si realizza e quando, alla fine della lavorazione, lo si condivide con il pubblico. Per questo la pellicola, l’esistenza concreta del film come elemento tangibile, è così tanto sottolineata, e per questo Cigarette Burns non avrebbe senso se La Fin Absolue du Monde fosse disponibile in formato digitale. Non è questione di rarità, è questione di un diverso tipo di relazione tra spettatore e opera, che qui è diretta, è intima, è personale.
Molti critici, all’epoca, hanno scritto che Cigarette Burns è un ritorno alla forma per Carpenter; io non credo lui, la forma, l’abbia mai abbandonata in tutta la sua carriera. Forse l’ha un po’ messa da parte per frustrazione in un film come Fuga da Los Angeles, ma più a causa di una terribile esperienza sul set che per volontà propria.
La forma, nella filmografia di John Carpenter, è tutto, perché lui è l’unico tra i registi che, a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, hanno cambiato la faccia dell’horror, ad avere un legame profondo con il cinema classico. Tanto che, per quanto mi riguarda, è anche difficile associarlo alla corrente del New Horror.
Cigarette Burns mette a nudo questo legame in modo esplicito, e in particolare, ci mostra un lato del Carpenter cinefilo rimasto sempre abbastanza in ombra, ovvero il suo amore per il cinema europeo.
La Fin Absolue du Monde è un film sperimentale che arriva dritto dall’Europa, proiettato per prima e unica volta al festival spagnolo di Sitges; se questo non fosse sufficiente, il film programmato nel cinema del protagonista è Profondo Rosso.
I film europei, gli horror europei nello specifico, possiedono una qualità misteriosa, quasi esoterica, e quindi perfetta per fungere da veicoli di quel potere che Carpenter attribuisce alle immagini e alle storie narrate attraverso di esse.
Ricordo una vecchissima intervista a Carpenter e Argento, credo a Torino, quando venne loro fatta una domanda a proposito della presunta capacità del cinema di cambiare il mondo. Entrambi diedero una risposta categorica, ma opposta: per Argento non era possibile, per Carpenter sì.
In questo sta l’essenza di Cigarette Burns, vi risiede anche la sua comprensione da parte di chi lo guarda; se pensate che l’arte abbia il potere di agire sul reale, se la visione di un film, uno qualsiasi, ha modificato in parte la vostra vita, se ha alterato la vostra coscienza, la vostra percezione del mondo, anche in minima parte, allora Cigarette Burns vi colpirà e vi spaventerà anche un po’: avrete paura del giorno in cui andrete a sedervi fiduciosi in una sala e ne uscirete diversi, e non nel modo “giusto”, di quando il patto con i creatori dell’opera che avete di fronte verrà tradito.
Che Cigarette Burns sia stato realizzato proprio agli albori dell’epoca in cui il film, come oggetto tangibile, si avviava verso la sua scomparsa, non è una coincidenza, è una profezia: non scomparirà mai del tutto, chiederà sempre un tributo, imporrà sempre la propria presenza.
Oggi siamo abituati a parlare di prodotti o, ancora peggio, contenuti da consumare, perché entrambe le cose sono serenamente innocue. Le opere no, sono oggetti affascinanti e pericolosi, e pretendono la nostra attenzione.
Questo è Cigarette Burns. Ennesimo capolavoro del Maestro.
Ah, parlare di Masters of Horror mi ha fatto venire voglia di rivedermi tutti gli episodi. Vogliamo fare una rubrica qui apposita? Fatemi sapere se vi stuzzica l’idea.
October 28, 2025
Nuovi Incubi Halloween Challenge Day 29: Strange Harvest
Regia – Stuart Ortiz (2025)
Scusate, mi sono resa conto di aver dimenticato di elencare i film su cui non sono riuscita a scrivere un articolo (anche perché c’erano già). Faccio un rapido recap e poi passiamo all’horror di oggi: per il day 18, in cui si parlava di cimiteri, la mia scelta è caduta su Phantasm, per il day 21, ovvero un horror del mio anno di nascita, mi sono gettata a capofitto su Terrore dallo Spazio Profondo, per il day 23, quello dei metallari, ho rivisto l’adorato Hellbender, film più metal del secolo, per il 26, tutto dedicato a bambole, pupazzi e orsacchiotti, è toccata allo sfortunato Dead Silence e, infine, per il day 28, nato per omaggiare la divina Barbara Crampton, che ho già omaggiato al day 1 di questa challenge, non potevo che celebrare la perfezione di Jakob’s Wife.
Sbrigate le formalità, passiamo al tema di oggi: l’orrore cosmico. Un filone vastissimo, e anche molto generico, che quindi permette un’ampia varietà di scelte.
A una prima occhiata, un film come Strange Harvest, primo lungometraggio in solitaria di Ortiz dei Vicious Brothers (Grave Encounters), c’entra poco con l’orrore cosmico, perché si presenta al pubblico come una perfetta simulazione di un documentario true crime.
Ma è un gioco truccato, perché quello del true crime è soltanto un travestimento: quando getta la maschera, Strange Harvest è uno dei più agghiaccianti horror cosmici dell’anno.
Strange Harvest è ambientato nella regione di Inland Empire, nella California del Sud, ed è la cronaca delle gesta di un serial killer, noto a stampa e polizia come Mr. Shiny. L’assassino ha ucciso la prima volta all’inizio degli anni ’90, tre vittime che però le indagini non hanno messo in relazione tra di loro se non quando era troppo tardi; poi è scomparso nel nulla, per riapparire nel 2010 e compiere una serie di efferati omicidi rituali. Il film racconta le indagini attraverso le interviste ai due agenti di polizia che hanno seguito il caso nel corso degli anni, le testimonianze dei pochi sopravvissuti, e tutto il materiale video, audio e fotografico raccolto durante la lunga investigazione.
Nella struttura, è davvero un documentario true crime come quelli che Netflix fa uscire a mucchi: ne coglie pienamente ogni singola caratteristica, dai toni sensazionalistici al finto pietismo nei confronti delle vittime, passando per la ricerca ossessiva del dettaglio macabro e pruriginoso, fino ad arrivare ai dettagli estetici più minuziosi, come i droni in timelapse sulla città, la luce piatta e invadente delle interviste, l’uso della musica. Se lo si guardasse senza sapere in anticipo che si tratta di un’opera di finzione, lo si potrebbe tranquillamente scambiare per uno di quei prodotti spazzatura che vanno tanto di moda oggi.
Infatti Ortiz lo ha anche dichiarato: l’ispirazione per il film gli è venuta guardando un documentario su Netflix, al quale ha aggiunto un bel po’ di riferimenti cinematografici più nobili, da Il Silenzio degli Innocenti a Zodiac. Ma quella che salta subito all’occhio è la presenza massiccia di Lovecraft, anzi, del corpus lovecraftiano nato dalle creazioni dello scrittore. Lo stesso nome del serial killer, Mr Shiny, viene da At Your Door, una campagna del gioco di ruolo Call of Cthulhu uscita nel 1990, dove compare un personaggio, Mr Shiny appunto, che è una sorta di shoggoth in forma umana.
Il Mr Shiny del film è, apparentemente, umano: ha un nome un cognome, un passato, una storia personale che culmina dentro una grotta dalla quale pare sia uscito cambiato, dopo aver avuto delle visioni, o almeno, questo dicono le testimonianze di chi lo conosceva. Resta tutto, com’è ovvio, nel vago, e i protagonisti del mockumentary, ovvero i due agenti che sono stati dietro al serial killer per più di vent’anni, quando viene chiesto loro se è possibile che ci sia qualcosa di soprannaturale dietro le azioni dell’assassino, scrollano le spalle e negano con veemenza, perché è così che funziona nel genere imitato da Strange Harvest.
Eppure, noi sappiamo che è soltanto una copertura, lo sappiamo dall’inizio, dalle primissime immagini.
Il film è eccellente nel muoversi su questo doppio binario, nel rispettare tutti gli appuntamenti prestabiliti di una formula nota a gran parte del pubblico e, nel frattempo, suggerire sussurrando che siamo stati turlupinati. In questo, ricorda moltissimo anche True Detective.
Mr Shiny non è spaventoso in quanto banale serial killer come ne abbiamo visti tanti, è spaventoso per le implicazioni che si porta dietro il suo viaggio indisturbato in varie parti del mondo, per quello che stava cercando e per come è stato fermato pochi secondi prima che riuscisse a trovarlo. È spaventoso perché è destinato a tornare, gli eventi orribili qui narrati sono destinati a ripetersi, in un ciclo infinito di terrore, violenza e morte.
Certo, gli omicidi, raccontati con dovizia di particolari, non sono solo feroci, hanno anche una qualità bizzarra che li rende particolarmente difficili da sopportare: Ortiz non può, per motivi legati al linguaggio scelto, metterli in scena tutti, ma non si fa scrupoli nel mostrarci le foto delle varie scene del crimine e di mostrarcene qualche sprazzo grazie all’uso di webcam o di telecamere di sicurezza; la maschera dell’assassino è efficacissima nella sua semplicità, perché evoca il tentativo di imitare la forma umana da parte di chi umano non è, uno shoggoth in incognito, insomma.
Non sto quindi dicendo che tutta la parte, per così dire, realistica del film non faccia paura, ma si tratta di immagini che siamo abituati a subire dalla mattina alla sera e in diverse forme spacciate per intrattenimento. Il true crime fa parte del tessuto della nostra vita quotidiana.
Strange Harvest si eleva al di sopra di questa spazzatura perché la tratta, appunto, come spazzatura, e perché la usa soltanto come mezzo per raccontare un orrore molto più ancestrale e profondo, un male che penetra nella realtà se noi gli diamo il permesso di farlo, che incombe dall’alto di distanze siderali e aspetta soltanto uno squarcio per arrivarci addosso.
Eliminando tutta la parte sentimentale legata alla storia della famiglia protagonista, Strange Harvest compie un’operazione molto simile a quella di Lake Mungo: usa il formato del falso documentario, rispettato alla lettera, per inserire tutta una serie di piccoli smottamenti che aumentano progressivamente il senso di disagio, fino a deflagrare nella sequenza finale, quella in cui il film si spoglia delle vestigia del realismo ed entra nella zona che qui preferiamo: quella dell’orrore insensato, gigantesco, paralizzante, quella delle cose che dormono nel buio dell’universo, indifferenti se siamo fortunati, ma capaci di annientarci con uno sguardo appena diventano ostili.
Non è un colpo di scena: erano sempre state lì, solo che eravamo troppo occupati a seguire le indagini per rendercene conto.
Dopotutto, ed è una cosa che fa benissimo anche un altro film che ha tante cose in comune con Strange Harvest, ovvero Horror in the High Desert, è nella natura stessa del mockumentary (e parzialmente anche del found footage) di confondere lo spettatore, di distrarlo con un linguaggio a lui molto familiare, costruendo una narrativa parallela per portarlo in territori molto più sinistri.
Più i confini tra fiction e realtà si sfumano, più il concetto di verità diventa malleabile e noi perdiamo i punti di riferimento. Il mockumentary raggiunge la sua massima forma espressiva quando compie questa operazione con la stessa tecnica di un gioco di prestigio, creando cioè l’illusione perfetta di assistere a qualcosa di vero.
È un dispositivo narrativo che, nel gotico e nell’horror esiste più o meno dai tempi dei romanzi epistolari, i veri antesignani del found footage.
Per lo spettatore contemporaneo, non c’è niente di più vero di un documentario true crime, anche se ormai è un tipo di realtà che si è trasformato in una forma di intrattenimento come le altre.
Arriva Strange Harvest e ribalta la prospettiva, mostrandoci il vero volto di queste orrende storie che consumiamo con avidità.
È un congegno molto sofisticato, un film praticamente perfetto. Tra i migliori dell’anno.
October 26, 2025
Nuovi Incubi Halloween Challenge Day 27: V/H/S Halloween
Registi Vari (2025)
Siamo quasi in dirittura d’arrivo e mancano davvero pochi film per completare con successo la nostra challenge. Il day 27 è dedicato alle saghe: qualsiasi capitolo va bene, basta che faccia parte di una serie con almeno tre film. V/H/S è arrivata, nel 2025, al suo ottavo found footage antologico ed è ormai una tradizione di questo blog parlarne ogni ottobre che Cthulhu ha messo in terra dal 2020 a oggi. Sì, amici del mio cuore, sono sei anni di fila che qui ci occupiamo di V/H/S, e lo rivendichiamo con orgoglio, anche perché fino a ora non hanno sbagliato un singolo film.
Certo, in ogni antologia ci sono dei segmenti più deboli e più riusciti, ma la qualità complessiva continua a essere molto alta, la creatività sfrenata, il gore abbondante e la follia in crescendo. Non c’è proprio nulla di cui lamentarsi.
V/H/S Halloween è un po’ un ritorno alle origini del franchise, a quando i ragazzi di BD raccattavano per strada dei giovani di belle speranze e commissionavano loro un cortometraggio found footage allungando giusto un paio di spicci, tipo paghetta settimanale della nonna. A parte una vistosa eccezione, quasi tutti i registi che hanno partecipato al V/H/S di quest’anno sono sconosciuti oppure sono noti in settori diversi dal cinema dell’orrore, alcuni nel videoclip, altri nei programmi televisivi. C’è quindi, di nuovo, quel piacere della scoperta, di individuare chi sarà il nome di punta del futuro, perché queste antologie sono e sempre saranno un termometro dello stato di salute del genere.
L’horror sta bene, vi saluta e vi ringrazia dell’interessamento, ma sta di nuovo cambiando pelle e si sta incattivendo, e non poco. Lo dicevamo proprio all’inizio della settimana, parlando di Traumatika. Non è solo per l’impiego di cineasti alle prime armi che V/H/S Halloween ha il sapore di un tuffo nel passato, sono la rabbia e la crudeltà di quasi tutti i corti in esso contenuti che mi hanno fatto chiedere se non mi fossi teletrasportata nel 2012.
V/H/S è il franchise delle cattive intenzioni, e su questo non c’è alcun dubbio; non si è mai ammorbidito e non ha mai rinunciato a mettere in scena nefandezze di varia caratura. Era solo diventato molto leggero e molto giocoso nel farlo. In Halloween, di episodio realmente buffonesco ce n’è soltanto uno, e pure quello lo è fino a un certo punto. La sensazione che ho provato guardandolo è stata di profondo disagio, a tratti addirittura terrore.
Persino negli episodi dalla vena comica più spiccata, è sempre chiaro il concetto che si scherza fino a un certo punto. Non troverete nulla di paragonabile, per esempio, a To Hell and Back di 99 o a Dream Girl di Beyond (che, a mio parere, resta il miglior V/H/S di sempre). Questo per dirvi di avvicinarvi all’antologia con le dovute cautele, perché nell’horror del 2025, nulla di ciò che è considerato sacro o intoccabile viene risparmiato, e V/H/S Halloween ne è la perfetta sintesi.
Partiamo, come è prassi consolidata, dalla cornice: Diet Phantasma, diretto da , si piazza molto in alto nella classifica degli episodi contenitore dei vari V/H/S, forse secondo solo a Total Copy di V/H/S 85. Vi si racconta di una serie di test, effettuati per il lancio di una nuova bibita senza zucchero, la Diet Phantasma del titolo. I soggetti volontari che assumono la bevanda fanno tutti una fine disgraziata e oscena, mentre gli scienziati a capo del progetto, danno in escandescenze perché hanno sul collo il fiato dell’azienda, decisa a immettere sul mercato la Diet Phantasma in tempo per Halloween. Tra grottesche mutazioni, corpi che si sciolgono e bambini che esplodono, Diet Phantasma ricorda molto le satire sul consumismo degli anni ’80 (periodo in cui il segmento è ambientato, 1982, per la precisione), come The Stuff o Street Trash.
Ferguson è un tipetto abbastanza fulminato, che in carriera ha già avuto diversi problemi di censura quando dirigeva videoclip, e che è finito a bordo di V/H/S perché ha firmato alcuni episodi della serie originale Screambox Bloody Bites. Classe 1987, è un ragazzo che promette molto bene per il futuro: Diet Phantasma è diabolico, divertentissimo e strutturato in maniera tale che, ogni volta ci si allontana dal laboratorio per guardare un episodio, un pochino dispiace. È anche un ottimo biglietto da visita per capire subito in cosa ci siamo cacciati.
Il primo episodio vero e proprio è Coochie Coochie Coo di , già regista dell’interessante Appendage un paio di anni fa.
Qui abbiamo due amiche intente a festeggiare l’ultima notte di Halloween da adolescenti, prima di andare al college e prendere ognuna la propria strada. Decidono quindi di riprendere le loro scorribande nel paesuncolo disperso nei meandri di Bifolcolandia dove entrambe vivono, e di rendersi insopportabili alla sua intera popolazione, adulta o infantile.
Purtroppo, si vanno a infilare in una casa che pare disabitata, ma è in realtà la sede di una creatura mostruosa, nota come The Mommy, che rapisce giovani sprovveduti e un po’ sciocchi, e li trasforma in teneri neonati da allattare.
Un po’ Barbarian, un po’ The People Under the Stairs, Coochie Coochie Coo è il segmento più canonicamente spaventoso di V/H/S Halloween: una haunted house in piena regola, con passaggi segreti, mostri acquattati negli angoli, un essere soprannaturale disgustoso e due protagoniste per cui è difficile fare il tifo. A parte qualche jump scare molto efficace, un’atmosfera lugubre e l’ottima scenografia della fatiscente abitazione, però lascia poco, è una storia già vista e già sentita milioni di volte e non è neanche così folle e sopra le righe da procurare dei veri scossoni. Non è brutto, ma fila via anonimo.
Da un po’ di anni a questa parte, in mezzo a illustri sconosciuti, giovani alle prime armi e registi in rampa di lancio per diventare i grandi nomi del futuro, V/H/S ti piazza sempre il vecchio volpone, quello talmente bravo e famoso che dieci minuti nel delirio te li gira con la mano sinistra mentre con la destra si gratta il naso. Quest’anno ricopre il ruolo Paco Plaza che sale in cattedra e, con il suo Ut Supra sic Infra, realizza un episodio tanto breve ed essenziale quanto elegante nella messa in scena e molto sofisticato per come gioca con il linguaggio del found footage, mischiando media diversi, punti di vista multipli e la stessa natura ingannevole delle immagini.
Durante una festa di Halloween, un gruppo di ragazzi è andato a ficcare il naso in una casa abbandonata di Madrid, dove pare vivesse una medium potentissima. Soltanto uno di loro è sopravvissuto, e dice di essere stato lui a uccidere tutti gli altri, ma la polizia non gli crede, perché i corpi dei suoi amici sono stati ritrovati senza occhi e con tutte le ossa del corpo rotte. Non può essere stata una sola persona a combinare quel macello, quindi si decide di tornare sul luogo della strage e ricostruire l’intera vicenda. Mal ne incoglie a chiunque abbia avuto questa idea.
Ut Supra sic Infra è una scheggia di episodio che fila via in un lampo, facendo tutte le cose nel modo giusto. Non sembra affatto fuori posto in un’antologia caciarona come V/H/S, perché chiude con il tipico concerto di urla, strepiti e carnazza, ma funziona anche come puro meccanismo di terrore soprannaturale. Plaza capisce dove si trova, agisce di conseguenza, ma ci mette comunque la firma.
Maestro.
Veniamo ora al segmento più farsesco e cazzone di tutta l’antologia, ovvero Fun Size, diretto da quello scemo col botto di , noto autore televisivo comico con un gusto particolare per il gore e gli effettacci brutti. In Fun Size abbiamo un gruppetto di trick or treaters decisamente troppo cresciuti che finiscono risucchiati dentro a una ciotola di dolciumi, dopo aver infranto la regola di prenderne soltanto uno a persona. Precipitano dunque all’interno di una realtà parallela, con l’aspetto di un magazzino di una fabbrica di caramelle, e lì vengono perseguitati da Fun Size, appunto, un essere soprannaturale con l’aspetto di una mascotte di una marca a caso di dolcetti di Halloween, che li insegue, deciso a far loro la pelle e a trasformare i pezzi del loro corpo (parti intime incluse) in prelibatezze ricoperte di caramello e cioccolato.
Fun Size non avrebbe sfigurato all’interno di un 94 o 99, quando era tutto fun and games. Qui ha l’effetto di rilassare prima che arrivi la vera mazzata dell’antologia, e forse rischia pure di passare un po’ in sordina per la sua leggerezza, ma vi assicuro che è (perdonatemi) una delizia, e il signor Fun Size ha tutte le carte in regola per diventare il villain titolare di un eventuale franchise. Chissà che non accada davvero. Io ci spero.
Subito dopo Fun Size, i produttori di V/H/S hanno piazzato Kidprint. Mai salto fu più vertiginoso all’interno dello stesso film, perché Kidprint è il più controverso e difficile tra tutti i corti presenti nell’antologia. Se lo saltate, vi giuro che nessuno vi criticherà. Il problema è che si tratta pure di uno dei migliori, e se gli preferisco Plaza per affinità ai miei gusti personali, credo anche che Kidprint sarà ciò per cui questo film verrà ricordato, nel bene e nel male.
La cifra generale di tutto il film può essere sintetizzata in “bambini morti”, perché ne fanno fuori a mucchi in quasi ogni corto (Plaza escluso), ma la gravità del fatto si perde nella baraonda generale. Kidprint parla solo di questo.
Ma, prima di tutto, cosa significa Kidprint? Per capirlo, ho dovuto fare ricerche estenuanti, ma ho scoperto che, negli anni ’90, i genitori facevano registrare dei nastri vhs con i loro figli come soggetti, per poi darli alla polizia in caso di scomparsa. Pare fosse un’usanza molto in voga del periodo negli Stati Uniti, e serviva ad avere del materiale fotografico recente per le indagini.
Il corto si apre quindi con una carrellata di bambini ripresi da una telecamera, alla vigilia di un Halloween molto particolare: nella città in cui la nostra storia si svolge, stanno sparendo un sacco di ragazzini, di ogni età. Dopo pochi giorni, i loro cadaveri vengono ritrovati, orribilmente mutilati. Tutti gli abitanti sono, giustamente, nel panico, e il titolare del negozio che si occupa di realizzare le riprese scoprirà, con enorme sgomento, chi c’è dietro gli omicidi.
Vi avviso che il regista, , non ci è andato leggero e non ha lasciato fuori campo assolutamente niente, salvato in questo dalla bassa definizione dei nastri su cui sono immortalate le torture e le morti.
Se lo odierete, ne avrete tutte le ragioni del mondo, eppure è fatto così bene che ne sono quasi ammirata.
Sempre a vostro rischio e pericolo.
V/H/S Halloween chiude in tenerezza, si fa per dire, con Home Haunt, diretto dalla coppia e , entrambi molto attesi per il loro esordio in un lungometraggio, Cosmetic, prodotto da James Wan.
Home Haunt è ambientato nel solito piccolo paesino, dove una famiglia, ogni Halloween, mette in piedi una haunted house casalinga per il vicinato. Purtroppo, il giovane Zack è diventato adolescente ed è stufo di giocare con la cartapesta, e anche un po’ imbarazzato dall’entusiasmo paterno. Accetta, tuttavia, di prestarsi alla messa in scena un’ultima volta, solo che un disco rubato da un rigattiere, evocherà dei veri demoni nella finta casa infestata, e sarà una strage.
Si segnala la presenza di Rick Baker in persona che finisce spremuto a sangue e di tanto gore quanto basterebbe a riempirne sei film. Home Haunt è una chiusura vivacissima e, a suo modo, bonaria, che ti riconcilia con il lato meno feroce di questa saga. Certo, per riconciliarti fa fuori, anche qui una decina di bambini e ragazzini di ogni fascia d’età, oltre alle vittime adulte, e lo fa con una violenza allucinante, ma se non altro, dopo l’atmosfera mefitica di Kidprint, attua il massacro con una certa leggerezza e fa tornare unita una famiglia di adorabili squinternati.
Anche quest’anno, V/H/S non ha deluso. Credo si tratti di un film di passaggio, perché l’horror non sa bene neppure lui stesso dove si sta dirigendo e di che morte vuol farci morire. L’unica certezza è che, in un modo o nell’altro, ci farà morire, e che i V/H/S sono qui per restare.
Lunga vita a loro.
October 25, 2025
Nuovi Incubi Halloween Challenge Day 26: Black Phone 2
Regia – Scott Derrickson (2025)
Capita alla bisogna questa giornata nella challenge, perché è dedicata alle persone scomparse e mi ha preso in pieno l’uscita in sala del nuovo film di Derrickson, il sequel di Black Phone, che proprio sui bambini scomparsi perché portati via dal Grabber si basa.
Ora, The Black Phone non è che lasciasse poi tutti questi portoni spalancati per un secondo capitolo: l’assassino interpretato da Ethan Hawke moriva ammazzato dal giovane Finn () e non era un personaggio con delle caratteristiche soprannaturali. Solo che quando incassi centosessanta milioni di dollari a fronte di un budget di diciotto, e ti chiami Jason Blum, difficilmente perdi l’occasione di ripetere il miracolo.
Niente di più facile: basta riservare al Grabber il trattamento Fred Krueger, anzi, tecnicamente è il trattamento Jason, che consiste nel tramutare un antagonista umano in un essere che di umano non ha niente. Da un punto di vista concettuale, invece, Black Phone 2 è un remake di Nightmare, e ce lo dobbiamo pure tenere stretto, perché non credo ne avremo mai un altro.
Prima di arrivare a Black Phone 2, tuttavia, tocca ricordare l’esistenza di Dreamkill, l’episodio diretto da Derrickson in V/H/S 85, in cui il protagonista Gunther possiede delle abilità molto simili a quelle di Gwen, la sorella minore di Finn in Black Phone. I tre personaggi hanno anche dei legami di parentela: sono cugini. Non sto a raccontarvi la trama di Dreamkill perché c’è un articolo dedicato al film, un episodio di Nuovi Incubi in cui ne parliamo in maniera molto approfondita e, se non vi va di perdere troppo tempo, c’è sempre Wikipedia. Mi limiterò a sottolineare l’importanza, all’interno del segmento, del sogno come forza motrice dell’intera vicenda, e a constatare che il linguaggio usato da Derrickson per mettere in scena il mondo onirico è lo stesso che potete ammirare oggi in Black Phone 2, migliorato e reso più intellegibile e meno confusionario, anche grazie al minutaggio ampio a disposizione: Black Phone 2 dura quasi due ore, Dreamkill non penso superasse la ventina di minuti.
Bisogna poi tornare alle origini della collaborazione tra Derrickson e la Blumhouse, perché tutto comincia con i super 8 di Sinister: è da lì che il regista ha cominciato a sperimentare con la pellicola invecchiata, e la sua bassa definizione, che diventa un veicolo per l’orrore e la violenza più abietti. Cosa che si ripete para para anche in Black Phone 2.
Tutto questo per dire che Derrickson è un regista coerente e sempre riconoscibile, con una sua grammatica specifica e in corso di sviluppo.
È tradizione consolidata, per ogni sequel dotato di continuity, e non per quelli tirati su un po’ a cazzo come Nightmare 2, di mostrarci i protagonisti del film precedente alle prese con l’elaborazione del trauma, o con la mancanza di essa. Persino Venerdì 13 Parte Seconda ci fa vedere, nella sequenza iniziale, Alice che vive da reclusa dopo i fattacci di Crystal Lake, prima di ammazzarcela senza tante cerimonie, ma questa è un’altra storia.
Black Phone 2 non fa eccezione: quattro anni dopo gli eventi del primo film, e quindi nel 1982, ritroviamo il sopravvissuto Finn e sua sorella Gwen () entrambi impegnati a venire a patti con gli strascichi del loro incontro con il Grabber. Se Gwen sembra passarsela un po’ meglio, Finn è un rottame; il suo stato psicologico è altamente comprensibile: dopotutto quello rapito e tenuto chiuso in una cantina è stato lui, e anche se vorrebbe fare finta di niente e vivere come se quelle cose non fossero mai accadute, non riesce a liberarsi dalla presenza ossessiva dell’assassino nella sua mente.
Tuttavia, è Gwen a ricevere in sogno i primi indizi relativi a una sopravvivenza del Grabber su un altro piano di realtà, indizi che la portano, insieme al fratello, in un campeggio cristiano in mezzo alle montagne innevate, dove negli anni ’50 sono scomparsi tre bambini, forse le prime vittime del Grabber.
Insomma, il mostro interpretato da Ethan Hawke non è poi così morto come sembra. La sua essenza si è andata ad annidare nel luogo in cui ha cominciato la carriera da assassino di bambini, ed è seriamente intenzionato a vendicarsi di ciò che gli ha fatto Finn facendolo soffrire il più possibile, quindi torturando e uccidendo la sua sorellina.
Finn, in questo seguito, ha sì un ruolo importante, soprattutto nella seconda parte, ma se ne sta comunque un po’ defilato, a leccarsi le ferite, mentre lo scettro di protagonista passa saldo nella mani di Gwen: è lei ad affrontare il Grabber, a portarne alla luce il passato, a investigare sui bambini scomparsi. Tutto ciò, tuttavia, non avviene quasi mai quando è sveglia; si svolge interamente sul piano onirico.
Non è affatto una rottura con il film del 2021, perché Gwen ha sempre scoperto le cose attraverso i sogni premonitori. La differenza sostanziale qui sta nel fatto che il Grabber è entrato nella sua Freddy Krueger era ed è in grado di fare del male a Gwen mentre dorme, di entrare nei suoi sogni, proprio come faceva la creatura inventata da Craven, e fare in modo che le azioni lì compiute abbiano degli effetti sulla realtà.
Black Phone 2 prende svariati spunti non soltanto da Nightmare on Elm Street 1984, ma anche da I Guerrieri del Sogno. Non si tratta di far uscire il mostro dai sogni e sconfiggerlo dove non possiede gli stessi poteri; bisogna, al contrario, combatterlo nel suo stesso reame, imparare quindi a prendere il controllo dei sogni per portarli nella direzione desiderata.
Il film, in un paio di occasioni, e in particolare in un finale molto confusionario, si rifiuta di rispettare quelle stesse regole che ha stabilito pochi minuti prima, ma funziona lo stesso per due fattori fondamentali: il primo è la forza della scrittura dei due giovani fratelli, della loro relazione, del modo in cui si parlano, si confrontano con i propri sentimenti e le proprie paure, di come riescono a sostenersi a vicenda. Si vuole molto bene a Gwen e Finn, anche a questa loro versione cresciuta e un po’ indurita. Meno ai comprimari che stanno lì giusto per fare numero e sono meramente strumentali all’avanzamento del racconto. Anche questo, è di scarsa importanza: ci interessa di Gwen e Finn, sono il cuore del film e ogni sequenza con loro riesce a essere tenera, dolorosa e divertente.
Il secondo fattore è rappresentato dalla transizione del Grabber da “semplice” assassino di bambini a uomo nero che vive nei sogni e ti aggredisce quando sei più indifeso e vulnerabile. Ethan Hawke ha una presenza scenica enorme e minacciosa, la sua maschera sarà sempre efficace, anche tra vent’anni, e sarà sempre in grado di mettere addosso il terrore di Dio agli spettatori.
Più di tutto, però, questa transizione diventa vincente per il linguaggio adottato da Derrickson: i sogni, raccontati come dei vecchi filmati in super 8, con le loro immagini sporche, le giunte che saltano, i colori più caldi, ma impastati e sbiaditi, ti trasportano subito in una dimensione diversa. Da un lato, servono per facilitare la fruizione: si capisce sempre quando Gwen sta dormendo e quando è sveglia; dall’altro, danno al film un tono fiabesco e antico. Non c’è dunque bisogno di inventarsi chissà cosa per definire un immaginario da incubo. Proprio come faceva Craven, il paesaggio del sogno è il nostro, con qualche distorsione, più intenso e, allo stesso tempo, più distante. Una soluzione magari didascalica, ma esteticamente molto appagante.
Il film sa anche essere molto spaventoso, quando vuole, e violentissimo, in particolare quando si tratta di infierire sui corpi delle giovani vittime del Grabber e mostrare a tutto campo ferite, lacerazioni, volti sfigurati, arti perduti. Non è una visione che consiglierei a chi è molto impressionabile. In confronto The Black Phone ci andava giù leggero.
È superiore al primo film? No, anzi, è nettamente inferiore, perché è troppo lungo, ha una parte centrale pesante come un macigno e il difetto, già enunciato, di non saper rispettare i parametri e i limiti che si è dato da solo. Vale comunque la pena di essere visto in sala, e io continuo a pensare che Derrickson sia uno dei più bravi in circolazione.
Sì, la citazione da Curtains l’ho riconosciuta e apprezzata. Grazie, Scott.


