Good Boy
Regia – Ben Leonberg (2025)
Nel 1992 esce il romanzo Thor, scritto da Wayne Smith, in cui il protagonista è un pastore tedesco, Thor appunto, che si accorge della presenza di un licantropo all’interno della sua famiglia umana. È l’unico a rendersi conto della cosa e, come moltissimi protagonisti della narrativa horror e gotica, non viene creduto fino a quando non è troppo tardi. Nel 1996, il libro (credo sia inedito in Italia) viene portato sullo schermo da Eric Red, con il titolo Bad Moon. Il film è abbastanza fedele alla sua controparte letteraria, ma non ne adotta la principale caratteristica, ovvero il punto di vista interamente non umano.
Non credo che, trent’anni fa, il pubblico avrebbe capito un’operazione cinematografica così sperimentale, soprattutto in un film non d’animazione e non per ragazzi. C’è anche da aggiungere che lavorare con gli animali ti complica sempre la vita.
Oggi siamo molto più abituati alle sperimentazioni in ambito horror, e anzi, le cerchiamo e le premiamo. Good Boy, opera d’esordio del tuttofare Leonberg (ha scritto, prodotto, diretto, montato e curato la fotografia del film), è il corrispettivo puccioso di In a Violent Nature: un’inversione radicale del punto di vista che mette in discussione il linguaggio di un altro filone classico dell’horror, quello della casa infestata.
Indy (interpretato da se stesso) è un adorabile canetto che trasloca, insieme al suo umano Todd, nella vecchia casa in campagna del defunto nonno di lui.
La leggenda di famiglia vuole che quella casa sia infestata: il nonno di Todd è morto in circostanze poco chiare, il suo cadavere è stato ritrovato nel bosco, mentre il suo cane, Bandit, è sparito da allora senza lasciare traccia. La sorella di Todd, Vera, è molto preoccupata, perché Todd non sta bene: ha una malattia cronica ai polmoni, e lei teme che l’isolamento e l’aria lugubre che si respira nella villetta, disabitata da anni, possano aggravare la sua condizione.
Chi si accorge, non appena posa zampa oltre la soglia, che in quella casa c’è qualcosa che non torna, è proprio Indy: vede una figura spettrale, ricoperta di una sostanza scura simile al fango, che si aggira per le stanze e i corridoi, gli appare Bandit che sembra voglia dirgli qualcosa, è tormentato dagli incubi e non è in grado, in nessun modo, di comunicare al suo umano quello che sta passando, non sa come proteggerlo o salvarlo. Nel frattempo, in parte a causa degli eventi soprannaturali di cui solo Indy è consapevole, in parte a causa del deteriorarsi progressivo delle condizioni di salute di Todd, il rapporto tra i due subisce un brusco cambiamento per il peggio.
Ho fatto prima un paragone con In a Violent Nature, perché con Good Boy condivide l’essenza da cinema sperimentale fatto con pochi soldi e tanta cazzimma, ed entrambi i film ci ricordano di come ogni storia, soprattutto se raccontata per immagini, sia sempre e soltanto una questione di punto di vista; in tutti e due i film siamo obbligati ad assistere alla vicenda attraverso lo sguardo di qualcuno di cui di solito non vestiamo i panni, ma che è spesso una presenza fondamentale nei rispettivi generi di appartenenza: l’assassino nello slasher e l’animale domestico nella ghost story.
Good Boy, a differenza di In a Violent Nature, colpisce gli spettatori dove fa più male, sul piano puramente emotivo, ma non lo dico per stabilire la superiorità di un film sull’altro: le storie di fantasmi e di case infestate hanno spesso a che vedere con i sentimenti dei protagonisti, con i loro affetti e con la loro sensibilità. Sia Chris Nash l’anno scorso che Leonberg oggi sanno benissimo quello che stanno facendo e con quali codici, sistema di regole e registri stanno giocando.
È abbastanza consueto che, all’interno di un nucleo familiare minacciato da un’entità malevola, ci sia una bestiola che avverte il pericolo prima degli umani. Accade da Poltergeist in giù, e proprio a Poltergeist dice di essersi ispirato Leonberg quando ha scritto Good Boy.
È anche normale osservare i nostri animali assumere comportamenti bizzarri: i gatti che fissano il vuoto, i cani che abbiano verso il nulla. Si tratta di una serie di situazioni altamente riconoscibili, perché vissute in prima persona o viste al cinema, dalle quali Good Boy pesca a piene mani, rivoluzionandone la prospettiva. Non siamo più noi a non capire a cosa sta ringhiando il nostro cane o cosa abbia improvvisamente attirato l’attenzione del nostro gatto; è l’animale che non possiede gli strumenti per comunicarci ciò che ha visto.
Good Boy è quindi una storia che parla, innanzitutto, di incomunicabilità tra specie di fronte al pericolo, che tuttavia è duplice e ancora più insidioso che se si trattasse di una semplice casa infestata: la malattia di Todd ha infatti un ruolo molto importante, tanto che si potrebbe arrivare a stabilire un’identità assoluta tra malattia e infestazione, dove Indy non può comprendere la prima, ma può invece sentire la seconda, che è la sua emanazione. Indy non è in grado di spiegare a Todd cosa vede, e Todd non è in grado di spiegare a Indy cosa sta succedendo al suo corpo; una relazione che fino a poco tempo prima, era perfettamente bilanciata, non appena si arriva nella vecchia casa del nonno, perde tutto il suo equilibrio.
E pure questo, lo abbiamo già visto succedere, da Amityville in giù: i rapporti deteriorati, le persone che si trasformano nella loro versione peggiore, quando arriva il soprannaturale a intaccarne le fondamenta. Non lo abbiamo mai visto, e scusate se mi ripeto, dalla prospettiva di una creatura che non solo si esprime in maniera diversa da noi, ma ha una differente percezione della realtà.
Good Boy, infatti, fa a meno dell’elemento umano: non mostra mai, se non per pochi istanti e in una scena specifica, il volto di Todd, tiene la macchina da presa ad altezza cane, ci mostra il mondo con uno sguardo che non è il nostro, e così, pur lasciando invariata la struttura narrativa della ghost story classica, ne risistema tutte le priorità.
A me pare miracoloso che Good Boy funzioni così bene mettendo in scena un azzardo così grande. Non fraintendetemi, qualunque individuo che non sia rivoltante e immondo non può resistere di fronte al musetto di Indy, ma questo serve ad attirare l’attenzione del pubblico, è una mossa scaltra, che tuttavia serve a poco se poi non ti presento un film che sia coerente con le premesse e solido da un punto di vista narrativo ed estetico.
Good Boy possiede entrambe le caratteristiche: è efficace come puro racconto del terrore in ogni sequenza in cui il povero Indy è alle prese con l’entità che dimora tra le mura domestiche, ha una messa in scena molto semplice, anche povera (il budget è quello che è), ma in grado di simulare alla perfezione il punto di vista del suo personaggio principale, che viene adottato dall’inizio alla fine senza mai uscirne, e la breve durata lo aiuta a non ripetere all’infinito lo stesso meccanismo.
Se avevate il dubbio, lecito, che Good Boy fosse soltanto una trovata simpatica senza un vero film intorno, non è assolutamente questo il caso.
Questo perché Leonberg ha molto chiaro quale sia il cuore della vicenda, quell’amore del tutto privo di condizioni che soltanto un animale è in grado di dare e che, tuttavia, parla una lingua che spesso non possiamo capire. Ci capita spesso di dare per scontata la silenziosa e affettuosa presenza dei nostri animali, di non prestarvi la sufficiente attenzione, di non darvi quasi peso, perché è semplicemente lì, sempre accanto a noi. Sottovalutiamo un dettaglio niente affatto trascurabile: per noi, loro sono una parte, anche se importante, della nostra vita; per loro, noi siamo il loro mondo, tutto intero.
Good Boy racconta, con una lucidità straziante, quello che accade quando il loro mondo crolla, quando li tradisce, li ferisce e li scaccia e loro non hanno gli strumenti per comprenderne il motivo, e nonostante tutto, non esiste tradimento o ferita così grande da spegnere quell’amore gratuito, assoluto e (per noi) incomprensibile, che alla fine ci salva, se non la vita, almeno l’anima.
Ora corro ad abbracciare i miei gatti prima di piangere da qui al 2030.


