Frankenstein

Regia – Guillermo del Toro (2025)

Uno dei più grossi privilegi dell’abitare a Roma è dato dal fatto che i film escono tutti ed escono sempre, magari solo in un paio di sale all’altro capo della città, e tu devi fare i salti mortali per arrivarci, ma va bene lo stesso: almeno ci sono. Questo vale in particolare quando bisogna combattere con quei maramaldi di Netflix, perché a loro non interessa affatto che il film abbia una distribuzione capillare nei cinema; Netflix usa le sale come veicolo per prendersi le nomination agli Oscar, terreno su cui il colosso dello streaming si comporta da bambino capriccioso che vuole il premio più grande a tutti i costi. È per questo che finanzia progetti ambiziosi di autori di rilievo. Anche nel caso di Frankenstein, tuttavia, la vedo dura: se contribuisci attivamente all’assassinio del cinema come luogo privilegiato per vedere i film, è ovvio che l’industria ti guardi con un leggerissimo sospetto.
Tediosa introduzione per dire che io Frankenstein l’ho visto in una delle due sale romane in cui è uscito, e che è stato davvero un privilegio. Ho aspettato oggi per parlarne, perché oggi il film arriva su Netflix e ce lo possiamo guardare tutti quanti, anche se non sarà mai la stessa cosa: Frankenstein è un’opera pensata per il grande schermo.

Guillermo del Toro fa parte di quel gruppo di registi sui quali rivendico il mio essere smaccatamente di parte. C’è qualcosa, nel suo stile, nel modo in cui usa i colori, nei movimenti che fa fare alla sua macchina da presa, che parla dritto alla parte più profonda di me, ma a parte questo, è ancora uno dei pochi in circolazione a fare un cinema magniloquente e barocco, un cinema che espone la propria natura di finzione pura, attraverso l’uso di tutta una serie di dispositivi linguistici e di metodi artigianali. Del Toro è uno che i film li crea e li costruisce con le mani, che si tratti di robottoni contro mostri giganti, di creature anfibie che trovano l’amore o di storie gotiche senza tempo, lui resta sempre agganciato a una concezione di cinema molto vicina alla magia, al gioco di prestigio, all’illusionismo. E qui lo abbiamo detto tante volte che, alla fine, i film sono soltanto una versione più sofisticata di uno spettacolo da fiera, ma è proprio in questo che sta la loro peculiarità, il loro trascendere, in qualche caso, nell’empireo dell’arte.
Non esiste un film di del Toro che non sia personale, anche quando si mette al servizio del blockbuster come in Pacific Rim, ha sempre un controllo assoluto su ogni fase della lavorazione e su ogni reparto coinvolto.
Impossibile quindi pretendere che l’adattamento di Frankenstein non diventasse una cosa sua. 

Che del Toro sia nato per portare questa storia sullo schermo è ovvio e scontato, ma come tutto ciò che è ovvio e scontato, è anche vero. Prima di tutto il resto, del Toro è un regista di mostri e creature; difficile quindi che la creatura per antonomasia non gli appartenga. E non solo: quasi tutti i film di del Toro sono, in parte o del tutto, film gotici. Facile riferirsi a Crimson Peak, di cui questo Frankenstein è quasi un’estensione, però anche quando si aggira in territori all’apparenza insospettabili, tipo i cinecomics, l’essenza gotica del suo cinema viene sempre fuori. Sì, anche in Pacific Rim. 
Insomma, del Toro e Mary Shelley, prima o poi, dovevano incontrarsi, e dovevano anche tradirsi, perché oltre al fatto di trovarci nel 2025 e di avere quindi esigenze diverse rispetto a quelle del 1818, un autore prende da un’opera ciò che gli serve, la plasma, la adatta alla sua poetica, anche quando la ama. Direi soprattutto quando la ama. 
Del Toro avrà letto il Frankenstein decine e decine di volte nel corso della sua vita. Solo per scrivere e mettere in scena questo film, sarà ritornato sulle pagine del romanzo all’infinito. Credo che lo sappia a memoria e, cosa più importante di tutte, lo ha capito, lo ha assorbito, lo ha reso parte di sé e, infine, ne ha estratto gli elementi essenziali, lasciandone la struttura quasi inalterata, ma intervenendo pesantemente su parecchi passaggi e snodi narrativi. 

Questa versione di Frankenstein racconta, a un primo livello, la storia di un ciclo di violenza e abuso che si perpetua di generazione in generazione. Se nel romanzo, la reazione di Victor davanti alla propria creazione era di rifiuto e fuga, qui si risolve all’inizio in un tentativo di educare il mostro, ripetendo gli stessi schemi di abuso e sopraffazione che il giovane Victor aveva subito dal padre. La creatura, interpretata da uno straordinario , che io non so se si sia ripreso dall’esperienza e che vorrei abbracciare e dirgli quanto è stato bravo, non possiede gli strumenti per comprendere le intenzioni del suo creatore, e più si mostra indifeso e fragile, più Victor gli si accanisce contro. Dapprima è irritazione, poi odio puro. Personaggio molto sgradevole, proprio come nel libro (è inutile che fare finta di no) Victor () è prima inebriato dalla sua arroganza e dalla sua ossessione di sconfiggere la morte, poi avvelenato da una rabbia feroce contro il simbolo del suo fallimento, rinnegandone la paternità. 
Come vedete, è tutto molto simile al romanzo, eppure allo stesso tempo differente, filtrato attraverso una sensibilità che mette, dal momento della nascita, in primo piano la creatura, anche quando la voce narrante è quella di Victor. Rispetta con devozione il meccanismo della divisione del racconto in due sezioni distinte, ma dal momento in cui il mostro entra in scena, lo fa diventare il protagonista della sua storia. Soprattutto, stabilisce tra Victor e l’essere che ha messo al mondo una relazione antecedente al loro successivo incontro, che nel romanzo non esiste, perché i due si separano subito, per poi ritrovarsi molto tempo dopo e in circostanze decisamente cambiate. 

In questa relazione sta il cuore del film, perché la creatura appena nata diventa portatrice di innocenza e purezza assolute, e lo vediamo con i nostri occhi, non attraverso il racconto di un personaggio che, nel frattempo, è cresciuto ed è stato, in un certo senso, contaminato. Noi, il mostro di Frankenstein, qui lo conosciamo bambino. 
E non solo noi: un altro punto in cui del Toro si smarca dalla storia di Shelley è nella rappresentazione di Elizabeth, una che finalmente assurge al rango di divinità, grazie Guillermo. Elizabeth è forse il personaggio che è stato oggetto di maggiore stravolgimento dalla pagina allo schermo, pur mantenendo abbastanza intatto il ruolo di bussola morale di Victor, che tuttavia qui si esprime in maniera più conflittuale, anche perché Elizabeth conosce il mostro subito dopo la sua nascita, accogliendolo senza neanche pensarci un istante. 
Riecheggia, in questa nuova Elizabeth quel “We belong dead” di James Whale, ma non come una condanna, bensì come una rivendicazione di irriducibile diversità, di reciproco riconoscimento, la sensazione di appartenere alla stessa categoria di reietti. Tutte la tenerezza e la compassione di del Toro sono rivolte a Elizabeth e alla creatura, e non è nulla di sbalorditivo: basta aver visto La Forma dell’Acqua per sapere che il regista regala ai mostri Universal che ha amato la loro seconda occasione. 

Perché non bisogna dimenticare che Frankenstein non instaura un dialogo solo con la sua controparte letteraria: ci sono decenni di storia del cinema che gli presentano il conto, in particolare quello degli anni ’30, ma anche la solita Hammer e il solito gotico italiano da cui del Toro ha spesso ripreso colori e illuminazione. È importante sottolineare che Frankenstein arriva a noi attraverso una quantità innumerevole di rielaborazioni, e attraverso decine di opere che a esso si sono ispirate e, nel corso dei secoli, hanno anche modificato la percezione che abbiamo di questa storia. Frankenstein non è soltanto il romanzo di Shelley, è Boris Karloff inseguito dai villici col forcone, è James Whale che brinda a un nuovo mondo di demoni e dei, è persino Brendan Fraser che imita le movenze della creatura mentre va a buttare l’immondizia in Gods and Monsters; soprattutto è il punto di origine di tutta la narrativa dell’orrore, classica e contemporanea, caratteristica che condivide con un altro pugno di opere: sta alle fondamenta di un immaginario e, per questo, possiede la caratteristica dell’eternità e del perenne mutamento. Un nucleo concettuale che resta invariato (giocare a fare Dio, creare un essere a nostra immagine in maniera innaturale e poi fuggire inorriditi, questo semplificando al massimo) e che si adatta a ogni epoca e a ogni tipo di mentalità. In sintesi estrema: l’inusitata potenza dell’archetipo.

Del Toro affronta questo ginepraio culturale come soltanto lui sa fare, ovvero realizzando un’opera che racchiude tutte le altre al suo interno ed è allo stesso tempo nuova e attualissima. Il film è di una bellezza oltre l’umana comprensione, e parlo di bellezza estetica; è un Crimson Peak all’ennesima potenza, con i tipici toni blu e ambra di del Toro e quei punti di rosso acceso che spiccano quasi con violenza sullo schermo, nei vestiti di Mia Goth e nel sangue dei cadaveri; con le scenografie sontuose, i meccanismi pratici, presenti sul set e appena aiutati da interventi miratissimi di VFX in post produzione; con le tutte le ossessioni del regista che fanno capolino da ogni fotogramma, dagli insetti ai marchingegni, ai dettagli dell’anatomia umana; con le occasionali esplosioni di repentina ferocia. Poesia in immagini in movimento. 
E non fatevi fregare: Frankenstein è un horror e non è possibile equivocare in alcun modo. È un horror gotico, ma pur sempre un horror. Capisco che del Toro abbia voluto mandare un certo tipo di messaggio al pubblico, ma noi siamo abbastanza scafati da capire dove risiede la verità. 

Se è dalla parte del mostro? Certo che sì: ogni Frankenstein degno di chiamarsi tale lo è. Non è una tendenza del cinema contemporaneo, quella di capire e provare empatia nei confronti di creature non umane o non considerate umane: è alla radice dell’horror, è il senso di un intero genere, anche quando il mostro è “cattivo”.
Se poi si parla di del Toro, che sull’amore per ogni essere sgraziato, deforme, strano e abietto ci ha costruito una carriera sopra, aumentate il fattore in maniera esponenziale e avrete il suo Frankenstein, un film dove noi non proviamo pietà per la creatura, ma siamo la creatura, siamo il suo dolore, siamo il suo abbandono, siamo il suo disperato tendere verso una qualsiasi forma di affetto e di amicizia, siamo anche la sua furia vendicativa, e infine la sua capacità di perdonare, di pronunciare la prima parola di ogni bambino, quella che indica chi lo ha messo al mondo. 
Potrei davvero continuare a scrivere di questo film per altre sei ore e comunque non basterebbero. Poi, non voglio rovinarvelo, perché è appena sbarcato su Netflix e non è necessario darvi altre informazioni. 
È il Frankenstein di del Toro, è il punto di arrivo di un’intera carriera, è la summa di tutto il suo cinema. È un capolavoro. 

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Published on November 06, 2025 21:43
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