Não são nunca as virtudes mas sempre os vícios que nos dizem a cada tanto o que é o ser humano. E então os olhamos de perto esses vícios começa Umberto Galimberti desfilando os vícios ira preguiça inveja soberba avareza gula luxúria. Identificamos por Aristóteles como hábitos do mal como oposição da vontade humana à vontade divina na Idade Média como expressão da tipologia humana no Iluminismo aparecem por fim como manifestação psicopatológica no séc. XX. E assim extrapolam o mundo moral para ingressar no mundo patológico. Não mais vícios mas doenças do espírito.À luz dessa sequência histórica Galimberti ambienta os vícios no panorama contemporâneo conflitualmente compreendidos entre a funcionalidade (também do mal) própria da idade da técnica e a urgência da ética. Segue um amplo reconhecimento daquelas tendências ou modalidades comportamentais para as quais soa eficaz (e imprópria) a definição de novos ví a sociopatia o despudor o consumismo o conformismo a sexomania a denegação o culto do vazio. A volúpia do shopping a dependência da mercadoria a mecanicidade do sexo relacionam-se com a dissolução da personalidade. São de fato a negação do modelo vicioso. Enquadrá-los como vícios nos permite falar deles ter ao menos consciência deles e não assumirmos como valores da modernidade aqueles que ao contrário são apenas seus desastrosos inconvenientes.Afável e penetrante Umberto Galimberti exibe aqui aquela sabedoria e aquela familiaridade com o mundo que o tornaram um ponto de referência para um amplíssimo público de leitores na Itália.
Nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia dellaStoria. Dal 1999 è professore ordinario all’università Ca Foscari diVenezia, titolare della cattedra di Filosofia della Storia. Dal 1985 è membroordinario dell’international Association for Analytical Psychology. Dopo aver compiuto studi di filosofia, di antropologia culturale e dipsicologia, ha tradotto e curato di Jaspers, di cui è stato allievo durante isuoi soggiorni in Germania: Sulla verità (raccolta antologica), La Scuola, Brescia, 1970. La fede filosofica, Marietti, Casale Monferrato, 1973. Filosofia, Mursia, Milano, 1972-1978, e Utet, Torino, 1978. di Heidegger ha tradotto e curato: Sull’essenza della verità, La Scuola, Brescia, 1973.
In questo libro Galimberti sfrutta una sua interessante intuizione non per portare avanti in modo consistente la sua riflessione sulla modernità, ma penso soprattutto per invitare i lettori comuni, disabituati ormai al pensare impegnato, ad una importante riflessione.. Non è difficile avere la percezione che i grandi peccati capitali come ci sono stati consegnati dalla tradizione suonino ormai di vecchio: fanno riferimento ad un mondo che non esiste più, al punto da dubitare che la maggioranza delle persone che si professano cristiane sappiano con precisione cosa siano la lussuria o l'accidia. E quandanche la natura del peccato sia chiara, spesso il modo in cui la morale dei tempi nostri percepisce la tendenza peccaminosa è molto diversa per quantità e qualità rispetto a ciò che accadeva nei tempi passati (si pensi all'ira, o alla gola). Galimberti parte da questa considerazione per chiedersi se sia possibile leggere i peccati capitali della tradizione in un modo nuovo per restituire loro attualità, o se invece non sia meglio, almeno a livello di provocazione, riscrivere da zero sette peccati nuovi che descrivano in modo del tutto nuovo il male che c'è in ciascuno di noi. Questo libro, in ciascuna delle sue parti, è il dichiarato tentativo di fare entrambe le cose, tentativo dall'esito forse non mediocre, ma sicuramente migliorabile. La presentazione dei grandi peccati capitali della tradizione cristiana (Superbia, invidia, ira, avarizia, accidia, gola e lussuria), frenata dalla necessità sentita in modo molto forte di non perdere la chiarezza divulgativa, è ababstanza limitata, poco originale e poco interessante per chi sia già addentro a questo tipo di tema. Per contro è sicuramente la possibilità per chi non è abituato a riflettere sulla morale di acquisire un bagaglio di nozioni base. La parte di sicuro valore è quella dove, in modo riflettuto ed originale, Galimberti tenta di presentare il male della modernità con uno schema parallelo a quello tradizionale ma tutto suo, definendo sette nuovi vizi: Consumismo, conformismo, spudoratezza, sessuomania, sociopatia, diniego, vuoto. Sono presentati con la stessa leggerezza divulgativa dei peccati tradizionali, ma condensandosi in una risposta tutta nuova (che ovviamente parte dalla visione galimbertiana del suo tempo), danno molto su cui riflettere a chi lo volesse. Il pensiero che più mi ha colpito, al di là di eventuali parallelismi, come per esempio quello tra consumismo e la dantesca prodigalità, è che mentre i peccati capitali parlano di un male che pretende di essere forte nella sua concretezza, i nuovi vizi disegnano quello che già Galimberti in altri testi aveva presentato come il male vero per lui, vale a dire il Nulla. E' vizio il consumismo perchè nella ferocia del produrre per consumare il valore delle cose è ridotto a nulla; è vizio la sessuomania perchè riduce il sesso a strumento per vendere prodotti che poi saranno consumati e così gli altri; da ultimo quello che sarebbe dovuto essere il Nadir verso cui ogni malvagità tende e che tutte le sottende, il Vuoto. Vuoto è ciò che i nuovi vizi descrivono ed il vero nome da dare al male nel terzo millenio, secondo me. Un libro meno profondo di quanto ci si sarebbe potuti aspettare dal titolo e dall'autore, ma bello e utile per fare qualche riflessione. Magari anche una idea per un regalo, scegliendo bene il destinatario, magari per invitarlo ad un arricchente pensare, in tempi dove troppo spesso il diritto di pensare complesso è trascurato e diventa solo una opzione.
Il manifesto della società in cui viviamo, dove i "nuovi vizi" sono piú pericolosi di quelli capitali, a mio parere. É il manifesto dell'evoluzione della civiltà, dove il diniego e il vuoto fanno da padroni. É il manifesto di un mondo fragile, che cerca di conformarsi ad un modello, dimenticando l'individualità, ovvero ció che potrebbe rappresentare la soluzione a molti problemi: un'individualità lontana dalla superbia capitale e dalla nuova sociopatia.
è uscito vent'anni fa ma ancora attuale. è un'analisi per me molto valida di una parte della società contemporanea, descritta dal punto di vista dei vizi vecchie e nuovi che è riuscito a catalogare in modo aderente alla realtà di oggi. Galimberti non delude.
«[…] i vizi, da espressione di una “tipologia” umana, diventano manifestazione della sua “psicopatologia”. E così fuoriescono dal mondo morale per fare il loro ingresso in quello patologico. Non più vizi, ma malattie, malattie dello spirito» (U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi) Sembra che nulla sia cambiato dal 2003 – anno di pubblicazione del saggio – ad oggi. O per meglio dire, i pensieri di allora, profondamente radicati nell’individualità di ciascuno, che finiscono per coinvolgere la collettività intera, trovano una conferma tanto amara, disincantata e tetra, quanto più illuminata da un’osservazione pregna di razionalità, che non lascia spazio a paragoni, jeux de mots e ambivalenze.
In due parti – l’una intitolata Vizi capitali e l’altra Nuovi vizi – il filosofo costruisce un percorso, il cui traguardo si confonde e trasfonde nel punto di partenza, sotto il segno del concetto di “dissoluzione“. Se per Bernard de Mandeville – autore di un trattato da cui lo studio riflessivo di Umberto Galimberti prende le mosse – il male è all’uopo per la società, poiché senza di esso si avvierebbe ineluttabilmente verso il suo stesso dissolvimento, allo stesso modo, il filosofo evidenzia come e quanto il nichilismo, il vuoto esistenziale che domina tanto i singoli individui, quanto la communitas, si aggirano quasi indisturbati nel mondo contemporaneo.
Nella fattispecie, ciò che acquista una peculiare pregnanza, che – del resto – può essere identificata come la tesi di fondo del medesimo saggio, è l’antitesi tra l’etica della mortificazione, quale pilastro del cristianesimo, e l’elevato livello di benessere materiale che caratterizza la società occidentale. Onde ne deriva che la soddisfazione economica, il possesso di un bene puramente materiale, e perciò transitorio e fugace, impoverisce la moralità, la dimensione spirituale. Infatti, «non sono mai le virtù, ma sempre i vizi, a dirci chi è di volta in volta l’uomo».
Eppure, ci sono vizi e vizi. I vizi capitali, aristotelicamente definiti “abiti del male”, in quanto figli di azioni iterate o, accettando la lectio medioevale, quale risultato della disobbedienza della volontà divina, sono ampiamente noti: ira, accidia, invidia, superbia, avarizia, gola, lussuria. Si potrebbe dire che la motivazione a essi connaturata, e che flagella gli animi, abbia il suo proprio fondamento nel possesso di ideali che, eccessivamente elevati, non si possono possedere, bensì solo sfiorare:
«Gli ideali molto elevati si possono toccare per un istante, ma non possedere per sempre. E la noia ha il sapore di chi ha la sensazione di aver perso qualcosa che ha solo toccato e mai posseduto».
E così, l’ira pone il singolo – avvertendo la frantumazione perniciosa del suo personale universo di valori – in conflitto con il mondo circostante. L’accidia (o melancholy, o spleen, o ennui) inaridisce l’anima, che naufraga nelle onde dell’incertezza, nella solitudine infinita e senza rimedio del deserto esistenziale. L’invidia che nasce dal confronto con gli altri, un confronto talora imposto dalla stessa società, talora ricercato autonomamente sulla base della convinzione – eretta su basi non tanto aleatorie, quanto piuttosto capziose – di valorizzare il proprio Io. E poi, ancora, la superbia, imparentata sì all’invidia, ma dalla quale si contraddistingue per la pretesa di sentirsi e giudicarsi superiori agli altri; dunque, una volta di più, ciò che è in gioco è il riconoscimento del valore di sé. L’avarizia, basata sulla lex del “sono ciò che ho”, laddove il denaro – sinonimo del possesso di potere – non è avvertito come mezzo, quanto piuttosto come il fine ultimo, che, di conseguenza, impedisce la realizzazione della vita. A tal proposito, Galimberti scrive:
«L’avarizia è allora una forma della volontà di potenza che, per mantenersi, non deve mai esercitarsi».
La gola è anch’essa un vizio, con il quale però si combatte contro qualcosa di più grande: l’angoscia dell’esistenza, il vuoto che ne mette in scena la sospensione in tutta la sua drammaticità. Per finire, la lussuria, che spazza via il senso della misura, dell’equilibrio, della vergogna (da vereor gognam, “temo la gogna, la mia esposizione pubblica”).
A questi vizi tradizionali si aggiungono, oggigiorno, nuovi vizi, che Galimberti etichetta come “tendenze collettive”, distruttrici degli antichi valori, di cui ormai non ne è rimasto che un appannaggio, un mero riflesso, forse troppo flebile per poter essere rinvigorito. Tali nuovi vizi sono così classificati: consumismo, conformismo, spudoratezza, sessomania, sociopatia, diniego e vuoto. Se da un lato mot d’ordre è la consapevolezza di ciò che è (o che non è) il mondo contemporaneo e della post-modernità, dall’altro bisogna considerare il nichilismo, come spettro palesemente visibile che domina questo oscuro palcoscenico.
È qui che l’essere nichilista coincide sia con la mancanza di originalità – da cui ne deriva l’omologazione come conditio sine qua non – sia con la crisi dell’identità personale, laddove l’inconsistenza delle cose materiali riduce a frammenti, per l’appunto, l’identità. Il risultato è la cessazione della contrapposizione tra essere e apparire, poiché ciò che resta è solamente l’apparenza, l’immagine del proprio essere, la rappresentazione di sé, il cui valore dipende dalla cosiddetta “incoscienza della coscienza omologata”. «Per esserci bisogna apparire». La vita non è più vita, bensì una mostra, pubblicizzazione del privato, «proprietà comune», come se ogni attimo vissuto, ogni istante trascorso assume significato solo in relazione ai like su Facebook o Instagram, pena l’esclusione sociale.
Ciò a conferma del vuoto dell’esistenza odierna, una folla di individui che si fanno largo in una società altrettanto anonima, dove si annulla il confine tra bene e male, dove non si è più in grado di scindere il pubblico dal privato, come poc’anzi si diceva, «dove il tempo è vuoto, l’identità non trova alcun riscontro, il senso di sé si smarrisce e l’autostima deperisce». Ed ecco la fusione, cui si accennava all’inizio: la dissoluzione della società passa attraverso lo smarrimento prima e la frammentazione poi della propria identità.
Il mio primo Galimberti, e già non son d'accordo con molti suoi pensieri, a parer mio boriosamente qualunquisti (vedesi anche l'inserimento continuo di citazioni di Marx) e comunicate in tono di valenza universale e incontestabile (es. «L'identità, ognuno lo sa: non è qualcosa che si elabora al proprio interno in condizioni di completo isolamento, ma è qualcosa che ciascuno negozia nel rapporto con gli altri, da cui attende il riconoscimento"; la dimensione sociale-interpersonale probabilmente no, ma a parer mio, il resto dell'identità è in grado di formarsi in solitudine, se nell'individuo “giusto”», per non parlare della bulimia che «Ha un ruolo funzionale, anzi terapeutico: ci si ammala un po' per non morire» riferendosi alla considerazione del cibo come cura al "vuoto esistenziale" e come attività che rimette in contatto mente e corpo. Non sono anoressico, tuttavia da umano, la totale incomprensione dell’autore, e in particolar modo la scarsa voglia di comprendere, nei confronti di questo disturbo (per giunta ristretto al popolo femminile, "le anoressiche [...]"), è agghiacciante. L'atteggiamento di chi si guarda bene a non far parte di quel gruppo, un gruppo di matti che si privano del cibo perché la transgenicità degli alimenti moderni mette ansia. Mi sa che Galimberti non aveva ben capito di cosa avrebbe dovuto trattare. A finale di questo splendido capitolo dedicato al vizio della gola, un vanaglorioso filosofeggiare riguardo l'abbandono moderno del cibo quale vero piacere primordiale e bla bla. Un capitolo che non va giù felicemente.
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Dal CH 7 sulla Lussuria: «[...] Dobbiamo allora pensare che la lussuria appartiene all'enigma e l'enigma alla follia? Follia è rottura di regole, vortice di segni che più non rinviano ad un significante in grado di consentirne la lettura e il senso. la natura si congeda come punto di riferimento e la cultura si rivela troppo debole e relativa per sostituire il referente naturale» per carità, ci starebbe, eppure il dramma arriva subito dopo: «I corpi delle rockstar, perfetti emblemi della confusione sessuale; il traffico notturno dei travestiti e dei transessuali che giocano con i segni sessuali... fan pensare che oggi le differenze sessuali abbiano perso chiarezza». Eeeh? Privo di amor proprio, trattare di transessualità e di disturbi alimentari senza averli vissuti sulla propria pelle, senza conoscerne un solo briciolo di dolore, e incrementando l'ignoranza del popolino… «[…] Un elenco delle perversioni… [...] La transessualità, che oggi riscuote un così ampio consenso, come dimostrano i marciapiedi notturni delle nostre strade, mette fine insieme la femminilità ideale e alla virilità ideale, due stereotipi più utili alla costruzione di un ordine che alla confusione dei codici» Eeeh? Escono poi parallelismi — secondo lui tali — a bisessualità, ci mette un pizzico di emancipazione femminile, e il Galimberti si perde in un flusso di autoindotta saggezza. Vomitevole. Ora, questo libercolo risale al 2009, per cui magari le sue opinioni saranno cambiate, ma non credo sia di mio interesse, per cui, cercando di evitare errori superficiali, un messaggio alla sua versione dell'epoca: signor Galimberti, lei è un gran ipocrita.
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1 stella (1.5) giacché si tratta di un testo mediocre e di quattordici anni fa, con analisi abbracciabili da pressoché chiunque (es. il capitolo sul conformismo sociale e la promozione dell'"educazione emotiva" che io considero per lo più dannosa quanto lo psicologo a scuola — quando non usato per il semplice conversare con qualcuno, in assenza di altri) e senza peculiare acume, invece elaborate con poca chiarezza e spesso con linguaggio pleonastico eppur melenso; al contrario, tanto qualunquismo e tanta superbia.
Libro con molti spunti di riflessione interessanti. Molti vizi sono stati repressi in funzione di necessità di ordine sociale, come nel caso della repressione sessuale dell'età vittoriana legata alle malattie veneree. Molto interessante anche la riflessione sull'ira che viene manifestata e giudicata diversamente nell'uomo e nella donna a causa di stereotipi generati dalla società patriarcale. Ad esempio l'ira da parte dell'uomo era giustificata rispetto a quella di una donna, che secondo gli stereotipi doveva essere sempre accondiscendente e gentile. Trai nuovi vizi possiamo annoverare il consumismo. "L'umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche sé stessa come un' umanità da buttar via"-G. Anders, sulla distribuzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale, 1980. Questa affermazione denota un tratto nichilista della nostra economia, che eleva le cose a non essere della sua esistenza, a non permanere nel tempo . Non si producono solo continuamente prodotti per soddisfare i bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione, tramite la pubblicità. 'Ogni pubblicità è un appello alla distribuzione'. Il principio della distruzione è immanente alla produzione. Si vive in un' ottica dove tutto è intercambiabile, dagli oggetti ai lavori e le relazioni. Il principio dell'usa e getta regola le relazioni matrimoniali e occasionali, dando l'illusione delle infinite possibilità di scelta, possibilità che si tramutano in assenza di libertà nel conformismo. Galimberti definisce il conformismo, altro nuovo vizio, come la miseria psicologica della massa. Il rifornimento di beni senza soste ed interruzioni crea un conforto che annulla la fantasia della creazioni di altri mondi e do fare esperienza delle cose diverse così da come le sperimentiamo quotidianamente, siamo dipendenti da un'infinità di catene che la tecnica moderna ha creato senza cui riusciremo a sopravvivere. Nela capitolo della sociopatia parla dell'importanza dell'educazione emotiva, perché spesso si tendono a formare i bambini solo intellettualmente o fisicamente. Nella nostra società in cui vi è un individualismo esasperato, in cui si sono ridotti gli spazi e i tempi della riflessione sono poche le occasioni per sviluppare l'educazione emotiva e il sentimento è stato inaridito. Diniego=mantenere segreta una verità che non abbiamo il coraggio di affrontare. Nel diniego implicito si visualizzano i fatti come estranei alla propria competenza, in modo da sentirsi esonerati da un intervento, come se ci dovesse pensare qualcun altro, come nel caso in cui assistiamo a fatti atroci o vediamo i senzatetto nelle nostre città e andiamo oltre. Non agire in risposta a quanto conosciamo. Il diniego dilaga dappertutto nella nostra vita e in superficie si tende a mantenere la parvenza di normalità. Come nel caso del membro della famiglia violento, alcolizzato o drogato. Il diniego lo si può contrastare solo grazie alla fraternità che ci rende responsabili di ciò che sappiamo. Il vuoto, un altro vizio, che allude al nichilismo giovanile come speranza delusa circa la possibilità di reperire un senso, indifferenza di fronte alla gerarchia dei valori, noia, spleen senza poesia, incomunicabilità come presa di posizione. Scenario comune al mondo adolescenziale che lo sottrae dai progetti costruttivi. Si tramuta in freddezza razionale pronta a declinare nella depressione o nella noia. Figli del benessere e della razionalità. Si tramuta in egoismo egocentrico. Si tramuta in inerzia conformista che è la categoria degli abbastanza. I giovai come satelliti della cultura popolare statunitense che li priva della loro identità
Tanti spunti di riflessioni, interessanti i capitoli su: consumismo, conformismo, spudoratezza e diniego.
Il diniego. Come reagiamo quando al mattino leggiamo nelle pagine degli esteri dei nostri giornali le atrocità perpetrate a Timor Est, In Uganda, in Ruanda o in Guatemala? Che atteggiamento assumiamo di fronte alle immagini televisive che ci fanno vedere i profughi in fuga dai loro paesi e per fame o per ragioni politiche, bambini africani che muoiono di fame o di AIDS, cadaveri nei fiumi, volti contorti nello strazio e nella disperazione ? Spesso decidiamo consciamente di evitare queste informazioni, qualche volta non sappiamo neppure quanto escludiamo e quanto accettiamo. Il più delle volte assorbiamo tutto restiamo passivi. Esse il diniego politico è cinico, calcolato e evidente, il nostro diniego, quello che si muove tra consapevolezza e inconsapevolezza, è disastroso, perché toglie ogni speranza a una possibile reazione e inversione del corso degli eventi [...] I senzatetto nelle nostre strade sono fatti riconosciuti, ma non percepiti come un elemento di disturbo psicologico o carichi di un imperativo morale ad agire. Il diniego implicito e qui scatta e lo stesso per cui di fronte a un incidente stradale, i testimoni si dileguano, perché “il fatto non ha niente a che fare con loro“ perché “ci penserà qualcun altro“. [...] qui scatta quella che potremmo definire la morale della vicinanza che è quanto più pernicioso ci sia per la coscienza privata, e a maggior ragione per quella pubblica. Infatti, la morale della vicinanza, che abbiamo ereditato dall’età premoderna, dove non c’erano i mezzi di informazione e dove la società era circoscritta a piccole comunità o a piccoli gruppi, teneva difendere il proprio gruppo (familiare, comunitario) e a ignorare tutto il resto. Oggi che i mezzi di informazione ci fanno conoscere quanto accade in tutto il mondo, il persistere della morale e della vicinanza non ci consente di vivere all’altezza del nostro tempo, se non a colpi di diniego, che può assumere o la forma dell’indifferenza per tutte le disgrazie che accadono lontano da noi, o la forma dell’insensibilità dovuta al fatto che fondamentalmente i miei bambini non muoiono e non moriranno di fame, e che io non sono stato né sarò cacciato da casa mia dopo aver visto mia moglie uccisa al colpo di machete.
Una volta i peccati erano mappe. Ti dicevano dove non andare, e tu ci andavi lo stesso, per il gusto di perderti. Oggi non ci sono più mappe, solo territori infiniti e senza nome. I vizi capitali e i nuovi vizi è il viaggio dentro questo smarrimento: Galimberti ti prende per mano e ti mostra come il vizio si sia fatto sistema, come la morale sia diventata un'eco lontana, come ci muoviamo senza peso dentro un'etica liquida, incerti, fluttuanti. E alla fine, quando chiudi il libro, non sai se hai trovato una risposta o solo una domanda più grande.
Analisi, secondo me perfetta della ricaduta sociale dei peccati ritenuti capitali. Come il peccato o meglio il vizio relaziona l'individuo verso se stesso e verso la sua collettività. Ancora più vera e tagliente l'analisi dei nuovi vizi ritenuti "sociali" perché coinvolgono non più l'individuo nella sua singolarità ma la società stessa. Libro assolutamente consigliato, soprattutto a genitori ed insegnanti. Ci si lascia sempre insegnare dal linguaggio forbito di questo immenso filofoso.
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Perchè il consumismo è un vizio? Perchè crea in noi una mentalità a tal punto nichilista da farci ritenere che solo adottando, in maniera metodica, e su ampia scala, il principio del consumo e della distruzione degli oggetti, possiamo garantirci identità, stato sociale, esercizio della libertà e benessere.
libro molto affascinante sui mali della nostra epoca; alcuni familiari altri piú velati. Ne esce un quadro tragico senza via d'uscita. "Perché parlarne? per essere almeno consapevoli e non scambiare come valori della modernità quelli che invece sono solo i suoi disastrosi inconvenienti".
Incredibile spirito critico e chiarezza di esposizione per passare in rassegna i vizi della nostra società. Molti spunti di riflessione e di approfondimento
Libro che arricchisce la mente e fa riflettere su noi stessi e sulla nostra società. Scritto in modo semplice fruibile a tutti e che tutti dovremmo leggere.
Contiene alcune riflessioni interessanti ma per altri versi rimane un po' qualunquista nel commentare fenomeni sociali non indagati a fondo e che mostra di non comprendere.