Le meraviglie del Nuovo Mondo Flessibile si svelano tutte d'un tratto e di solito in maniera traumatica: con una lettera di licenziamento. Può capitare allora di rimanere senza parole, e di non avere altro da fare che cercarle: per dare forma al trauma, per occupare un tempo improvvisamente vuoto, per ricostruire la strada attraverso cui si e arrivati fin qui. È il tentativo del protagonista di questa storia, costretto dal suo stesso smarrimento a orientarsi seguendo una traccia vaga come la trama di certi romanzi di fantascienza psichedelica letti durante l'adolescenza.
Noi portiamo germi di morte, corpi marci e parole marce a margine dei loro cortei, e abbiamo fretta, ansia di feste e di violenza, in mezzo al gioco dei vermi che ci muovono la carne, e nessun desiderio di entrare in quel loro mondo che pure ci ha cresciuti fin qui… Cercheremo altrove la bellezza, una bellezza chimica, perché quella meccanica è tramontata per sempre nelle nostre città. Ecco: quel paradiso flessibile, questo paradiso flessibile in cui ora vivi, una massa dei miei coetanei l’ha smascherato fin dal principio, anzi l’ha smascherato a priori, semplicemente annegando, ed è per questo che i morti di quella generazione sono i più dimenticati: sono morti di parto.
Niente color seppia in questa carrellata all’indietro, mascherata da lettera fiume, in questo lungo incrocio, a tratti impazzito, di flashback di quegli anni passati alla storia come “anni di piombo”, che però, insieme col decennio precedente, sono anche stati “i mirabili anni del cielo rovesciato”: più facile che i colori siano acidi. Ancor di più, che siano ‘mangiati’: come quelli della pellicola del film un attimo prima che prenda fuoco e rimanga solo il vuoto del buco. Un album fotografico dove le immagini hanno formati diversi, come prese da apparecchi fotografici diversi (quadrato, rettangolare, polaroid, con bordo, senza…). E qua e là Rastello indugia e da una foto, dall’immagine statica srotola un film di ricordi e racconto.
Un racconto non lineare, a suo modo caotico, avanti e indietro nel tempo: è quello del protagonista Pietro, che scrive. E Pietro, che ha la stessa età di Rastello - sono infatti entrambi nati nel 1961 - potrebbe avere vari aspetti autobiografici, i due percorsi potrebbero essere speculari: gli anni da bambino, e poi man mano, su, più avanti, ma anche di nuovo indietro, lungo focus su quelli del liceo, che corrispondono alla seconda metà degli anni Settanta, appunto, i famigerati anni-di-piombo.
Pietro, come altri di quel movimento, era di famiglia borghese (padre ufficiale, madre insegnante), ma troppo piccolo (sedici anni nel ’77), e troppo a suo modo delicato, gentile, quasi efebico (il gioco dei travestimenti femminili, del trucco, anche se poi era l’unico del gruppo a portare avanti una storia di “rapporto” in qualche modo aperto – lui, Marina e Giuliana – tre - ma quei tre per nulla allargati ad altre inclusioni), per partecipare alla lotta armata, agli scontri a fuoco, alle bombe, alla scelta di clandestinità. Ma tutto ha percorso, affiancato, vissuto, sperimentato. E infatti scrive spesso usando la prima persona plurale, noi: almeno ogni volta che ci scappa il morto, o il fattaccio, Pietro dice ‘noi’, condivide a suo modo la responsabilità.
La letteratura italiana che racconta gli anni-di-piombo è ben poca cosa: per quanto ne so, Il tempo materiale di Giorgio Vasta e questo da un punto di vista letterario spiccano come esempi luminosi e, purtroppo, per ora pressoché unici. Ma anche se tra i meriti di Rastello annoterei che il suo bel romanzo (bello e complesso, difficile, e non sempre scorrevole, ma anche lirico, e denso, e a tratti m’è persino suonato pavesiano) riesce finalmente a rendere giustizia all’esperienza del ’77 e a tenere aperta la riflessione e il dialogo tra oggi e quel movimento, e quei movimenti, e quell’epoca, epoca e movimento che furono secondo me, purtroppo, gli ultimi ad aver tentato di rispondere a quel bisogno di sentirsi parte di qualcosa, a quel bisogno elementare di avere una destinazione, l’ultimo ad aver voluto cambiare la Storia, cambiando l’Uomo: anche se questo è uno dei suoi meriti, Piove all’insù è altro, è oltre. Non è appiattito sulla dimensione terroristica e sull’equazione tra contestazione, violenza, terrorismo. È romanzo di formazione. È romanzo di riflessione. Per esempio, sul rapporto genitori-figli. In particolare, padri-figli: con momento intensi e importanti sia per l’infanzia, che l’adolescenza, che l’età adulta. E regala pagine belle profonde e intense sulle età più lontane, e più brevi, l’infanzia e l’adolescenza.
Non ho capito il perché dei quattro capitoletti in stile Urania, per me del tutto prescindibili, e anche delle venti pagine finali, dove m’è parso che Rastello smettesse di fare letteratura per tornare a fare giornalismo.
È così che entriamo nell’età di Tersite, non perché stiamo scopando, ma perché dichiariamo con enfasi la nostra adesione assoluta alla vita com’è. Facciamo il nostro ingresso, piccoli e spettrali, nell’impero del kitsch.
Entrare nell’età di Tersite, l’anti-eroe per eccellenza, il rappresentante della massa, vuol appunto dire accettare la vita com’è, rinunciare alla Rivoluzione, all’Uomo Nuovo, all’Utopia, a una nuova morale, al sogno di un domani migliore.
Un padre e un figlio, due generazioni diverse, entrambi attori e pedine in quel pezzo di storia italiana tra gli anni '60 e '80, ma sempre osservatori attenti e partecipi. Le istituzioni, la ribellione e la lotta armata, il mito della classe operaia, nello sfondo di un'Italia dilaniata dalle bombe, dai rigurgiti fascisti mai sopiti, dagli apparati deviati; gli anni vissuti da un adolescente in crescita e maturazione personale e politica, e da un padre che matura, alla fine, la scelta di stare con la parte sana del paese. Per me è stato un tuffo nel periodo, nelle pratiche e nei luoghi della mia adolescenza. Un gran libro che ci parla di ciò che siamo ora, da affiancare a "Il tempo materiale" di Giorgio Vasta
"Sai, quella curiosità indulgente che hai per te stesso giovane: un tipo che non capisci più, che t’imbarazza, ma che ogni tanto sarebbe bello rincontrare per fare quattro chiacchiere." (p. 10)
"Tristezza di crescere, coscienza confusa di chi sta abbandonando il regno felice dell’indistinto, e nostalgia preventiva, paura di quello che c’è dopo, quando l’uomo sarà uomo e la donna donna e i giorni divisi in feriale e festivo, quando tutta la vita sarà a scacchi, bianco-nero bianco-nero." (p. 114)
Dopo le prime pagine ho pensato che avrei voluto avere un amico come l’autore, o essere un po’ come lui. Uno sguardo profondo sugli anni di passaggi o fra la giovinezza e l’età adulta, una riflessione politica sugli anni ‘70, esperienze personali piccole e grandi: un’autobiografia filtrata dalle emozioni, non solo dai puri bilanci di vita. A me ha lasciato un po’ di quella malinconia per qualcosa che in realtà non hai vissuto, ma quando ti viene mostrato vorresti averne avuto la possibilità.
Scritto benissimo, con la verità dei pensieri adolescenziali. Ma, in fondo, la parte di storia d’Italia che nel frattempo avveniva rimane un contorno, e ciò che leggiamo è il racconto dei desideri, realizzati nella finzione del romanzo, di un adolescente, maschio, degli anni 70. In fondo un ignavo che se l’è cavata navigando sulle prese di responsabilità altrui.