In Germania, a Colonia, nel 1945, all'interno della canonica di una chiesa bombardata Peter Bergin, un giovane ufficiale americano, trova alcuni documenti che lo mettono sulle tracce d'un vangelo inedito, e dopo mille esitazioni scommette la propria vita nella ricerca di esso. Un romanzo durante il quale il lettore non cesserà di domandarsi se il quinto evangelio esista veramente o sia piuttosto un mito, una leggenda, la proiezione delle mille tensioni che suscita il contatto con i Vangeli.
Mario Pomilio, nato in Abruzzo nel 1921 e scomparso a Napoli il 3 aprile 1990, è stato il narratore più intellettualmente problematico della generazione uscita dal neorealismo, con libri come L’uccello nella cupola del ’54, Il testimone del ’56, Il nuovo corso del ’59, nonché Il cimitero cinese uscito però in volume solo nel ’69, e di quella parte significativa della nostra cultura che s’è riconosciuta nella sinistra cattolica. Insieme a Michele Prisco, Domenico Rea, Luigi Compagnone e Luigi Incoronato fondò nel 1960 la rivista-laboratorio «Le ragioni narrative», entro la quale cominciò ad approfondire la vena saggistica in parte confluita nel 1967 in Contestazioni e, nel ’79, in Scritti cristiani. Sono di questi anni un romanzo “difficile” come La compromissione, del ’65 (premio Campiello), nonché i racconti de Il cane sull’Etna. Frammenti di un’enciclopedia del dissesto (che verranno raccolti in volume nel 1978). Ma il capolavoro in cui confluiscono e si annodano le molte sue inquietudini è Il quinto evangelio, pubblicato all’inizio del 1975 (premio Napoli, Prix Raymond Queneau per il miglior libro straniero). Segue Il Natale del 1833 (1983, premio Strega) e, appena postumo, Una lapide in via del Babuino (1991). Il figlio Tommaso ha curato nel 2000, per Cronopio, le poesie di Emblemi.
Un altro romanzo dimenticato. Eppure fu accolto come un capolavoro. Pomilio fu definito addirittura come “il romanziere cattolico più importante dopo Manzoni”. Un soggetto, come spunto per un romanzo, che per un non credente è quanto di più improbabile si possa immaginare. E invece ho trovato nella lettura un insospettabile coinvolgimento e anche un inaspettato conforto. In ogni caso, è davvero un gran romanzo. E per almeno tre motivi. Il primo è il fascino e il respiro con cui il soggetto del racconto viene affrontato. Libro che racconta di un libro: il Quinto Vangelo, quello definitivo. Quello che forse contiene la Verità, che svela ogni Mistero. Andato perduto oppure semplicemente mai esistito. O che invece forse c'è, (scritto da Pietro, da Giovanni o dallo stesso Gesù), ma che forse non dice niente di nuovo. Il secondo è la sapienza stilistica e l’architettura audace del romanzo: incastro di storie inventate e scritte dall’autore, con una abilità ed un'eleganza nella produzione di apocrifi incredibile. La qualità letteraria non va mai a scapito della tensione narrativa, della godibilità della pagina. Al contrario. Il terzo motivo è la chiave di lettura. C’è la chiave cristiana ovviamente. Anomala, anche se tornata di moda, ultimamente. Un cristianesimo dei poveri, della carità, della “salvezza per tutti”, della Grazia, della redimibilità di ogni uomo da ogni male. Pomilio è abruzzese e si capisce. I suoi cercatori della Parola che entrano in contatto con il Libro sono personaggi siloniani (non so se più cafoni o più poveri cristiani) spesso ruvidi, essenziali, insofferenti verso i rituali e diffidenti dell’ipocrisia sia della legge che delle buone maniere. E’ soprattutto gente che cerca qualcosa. E lo fa con sentimenti autentici e con una coscienza inquieta, transumante, in perenne cammino. Poi c’è un’altra chiave di lettura secondo me, che riguarda proprio il senso ed il modo di essere di un tipo particolare di uomini che cercano: i lettori, gli interpreti della parola (con e senza maiuscola). Lo cerchiamo tutti e sempre un nuovo libro che ci possa aiutare a trovare una qualche nuova verità (anche qui, maiuscola a piacere). Questo romanzo è anche il nostro racconto: il racconto della vita di ogni lettore appassionato. Magari quello che cerchiamo è un libro che non esiste o magari l’abbiamo già letto senza capire, come capita a tanti uomini di Chiesa, nel romanzo. “Il classico modo d’esser presi da un libro è di trovarvi cose cui non s’era mai pensato” e il nostro quinto evangelio può essere anche solo la nostra sempre nuova e sempre diversa (ri)lettura dello stesso libro. D'altronde, "Una sorgente rimane sempre la medesima, ma quella che ne sgorga è acqua sempre nuova" e forse "il quinto evangelio è già scritto negli altri quattro, e bisogna solo sapervelo leggere". “Perché la Parola è senza fine”. Vinse il Premio Campiello, il Premio Flaiano, il Premio Napoli e il premio per il miglior libro straniero a Parigi. Eppure è fuori catalogo. Sparito dalle librerie. Misteriosamente. (però se non si ha sottomano un'amica preziosa che te lo segnala e te lo passa al bar col caffè, nel tempo di internet, Il Quinto Evangelio lo si trova su Ebay)
Il quinto evangelio è un romanzo importante che mescola personaggi storici ed episodi di fantasia in una trama in cui si alternano materiali e registri narrativi diversi: novelle, lettere, leggende, testimonianze, frammenti di libri e addirittura un'opera teatrale che Pomilio ci propone restituendoci con grande eleganza la lingua e lo stile delle epoche a cui fa riferimento. Libro modernissimo quindi, nonostante sia stato scritto nel 1975 e ancora più moderno se consideriamo che si tratta anche di un elegante esercizio meta-letterario dato che il tema del romanzo è proprio un libro, il fantomatico quinto evangelio alla cui ricerca il protagonista finisce per dedicare la sua esistenza. Si parte dagli appunti di un prete anonimo, dal suo arrovellarsi tra dubbio e speranza e dalla sua ricerca di Dio, per arrivare ai Vangeli, l'opera con la quale il Padre ha parlato agli uomini attraverso il Figlio. Dai Vangeli al quinto evangelio del quale il protagonista scopre le tracce nelle carte del prete il passo è breve, un quinto evangelio che si rivela da subito qualcosa di più di una curiosità, di uno dei tanti apocrifi opera di discepoli e pseudo-discepoli di Cristo, perché pone al centro la carità, laddove gli altri mettevano la legge. Un ritorno alle radici, alla spiritualità, ad un Gesù "francescano" da opporre alla secolarizzazione della Chiesa (ed anche in questo il romanzo di Pomilio risulta non solo modernissimo ma quasi profetico). Al centro del libro c'è la Parola: le sue interpretazioni e il suo travisamento, che ci hanno allontanato dal suo significato originario portandoci in tutt'altra direzione. Il quinto evangelio rappresenta così il tentativo di sfrondare la Parola dalle sovrastrutture che l'hanno appesantita nel corso del tempo, dalle analisi capziose e spesso sterili che hanno finito per tradire il messaggio che essa voleva rappresentare quando fu pronunciata. Quinto evangelio non come un vangelo nuovo ma come modo nuovo di rileggere i Vangeli canonici per recuperare la potenza anche eversiva di una Parola che è senza fine perché si rinnova in continuazione, mantenendo però inalterato il messaggio che essa sottende, l'invito a passare dalla dottrina all'azione, ad operare per i poveri, per gli umili, per gli ultimi.
l quinto evangelio scritto da Mario Pompilio è stato un libro di grande successo negli anni ’70 quando uscì per la prima volta edito da Rusconi. Ha vinto numerosi premi ed è stato il capostipite di un fortunato filone di romanzi storici-religiosi, come Il nome della Rosa di Umberto Eco, uscito nel 1980. Piano piano è caduto nel “dimenticatoio” e la versione cartacea oggi è introvabile a meno di non comprarlo usato. Fortunatamente sta avendo nuova vita grazie all’edizione digitale. Si tratta di un romanzo innovativo per l’epoca, dall’impianto complesso e articolato che ruota intorno alla ricerca di un libro, il misterioso “Quinto vangelo”, che gli storici ritengono sia molto più antico di quelli canonici e potrebbe essere la fonte da cui tutti gli altri hanno attinto. I vangeli che conosciamo, infatti, non sono contemporanei a Gesù, ma rappresentano le trascrizioni fatte in epoca successiva dei racconti dei discepoli, in particolare di Pietro e Paolo e della conoscenza di questo quinto vangelo. Un'eccezione è rappresentata dal vangelo di Giovanni che si suppone sia l’unico scritto dall’apostolo stesso in età molto avanzata. Su questa base Pompilio crea la struttura del libro che è basata su una serie di carteggi che raccontano la ricerca attraverso il tempo di questo manoscritto disperso. Conosciamo così i personaggi che, in altri luoghi e in altri tempi, hanno dedicato a quella stessa ricerca la loro vita. Nel libro si suppone che questo vangelo possa essere un diario scritto dallo stesso Giovanni in età giovanile, che rivelerebbe fatti e discorsi non presenti dai vangeli (neanche nel suo scritto in tarda età, avendoli già scritti nel precedente). Durante la lettura, mi sono resa conto che una domanda basilare sottende a tutta la narrazione: vogliamo mantenere le cose come stanno e preservare la stabilità della fede che ci viene dai vangeli canonici o vogliamo scoprire altre verità, magari dirompenti, che potrebbero sovvertire l’ordine delle cose e magari far vacillare la fede? In questo senso, la storia di questa ricerca rappresenta l'avventura della coscienza, sempre in conflitto tra ciò che conosce e le proprie certezze e ciò che non conosce che attira, ma anche spaventa, tra la "verità rivelata e l'attesa di una verità che debba ancora manifestarsi". La cosa che mi ha lasciata più perplessa è il fatto che, su un'intelaiatura di base, costituita da fatti e circostanze reali, l’autore inserisce elementi di fantasia che piegano la realtà storica alle esigenze della finzione letteraria. E questo confonde un po’ perché leggi un libro storico che non è storico, basato su un'indagine che attinge a fonti reali che non sono reali, ma sono state modificate per fini narrativi. Insomma alla fine non capisci più se stai leggendo un romanzo di pura fantasia o c'è anche qualcosa di vero. A parte questo, si tratta comunque di un libro di grande pregio. Voglio fare solo una piccola nota storica “reale”: gli storici ritengono che un quinto vangelo esista davvero ed è stato trovato a Nag Hammadi. É scritto in copto ed è conosciuto come “Il vangelo di Tommaso”.
Pomilio distilla atmosfere spirituali di altre epoche: un solitario pensatore giansenista, un sacerdote integro nella corruzione della Chiesa del ‘700 (cessati i pur discutibili ardori della Controriforma e delle guerre di religione, lontani ancora i fermenti illuministi.. l’Italia tutta è in piena stagnazione).. paesaggi dell’anima e della storia poco frequentati ma profondamente nostri, dato che spesso ci formano più i lunghi periodi di ozio e inattività che gli slanci generosi e passeggeri. Ma soprattutto. È un viaggio nel tempo attraverso anime e paesaggi desolati, ma le anime sono variegate come paesaggi.
Un paio di settimane fa, vado in biblioteca a restituire un libro che alla fine non avevo nemmeno letto (mi son bastate 15 pagine per capire che non era il momento) e vedo nel carrello con i restituiti questo libro qui.
Per quanto m'avesse incuriosito, l'avevo bollato come un trattato su qualche vangelo apocrifo. L'autore poi ha un nome che ha quel non so che di latino, per cui non ci ho dato troppo peso. Salgo a prendere Il manoscritto di Shakespeare, di Domenico Seminerio (simpatico), scendo e sono in coda per fare il prestito. Il tizio davanti a me, sulla cinquantina, ha preso due romanzi storici di quella con la grafica un po' alla Newton & Compton che danno un po' l'idea di esser delle cagatone. Parla con l'impiegata e spara, riferendosi al Quinto Evangelio di Pomilio lì a mezzo metro, "ah questo è un capolavoro, me lo sono pure preso qualche anno fa nella versione cartonata perchè veramente, libri come questo non ne ho mai letti". Io un po' a queste coincidenze ci credo e difatti me lo sono accaparrato.
Non me ne sono pentito. E' un romanzo molto particolare fatto di finte lettere, finti documenti, storie di eretici, frati, cavalieri e altri personaggi che riscoprono l'esistenza di un secondo Vangelo di Giovanni. A differenza però di un Dan Brown qualsiasi, non c'è minima traccia di facili teorie del complotto: il vangelo sembra autentico, parla di una religione del tutto conforme agli altri quattro che, se proprio, sono stati dimenticati dall'interpretazione comune della religione e dal potere temporale della Chiesa. La vicenda di cornice è quella dello studioso Peter Bergin, che trova le carte di un prete tedesco di cui occupa la casa durante la Seconda Guerra Mondiale e che ha per caso riscoperto frammenti di questo vangelo, credendoci tra mille dubbi. La ricerca della verità, la fede e di come portare avanti il messaggio dei vangeli "scrivendone un quinto" insomma, generazione in generazione per tenerlo vivo di generazione in generazione, nonostante il potere dello Stato (e della Chiesa, pure, quando questo si sovrappone) sono i temi fondamentali.
Tralascio le appendici, dopo averle sfogliate, perché vengo da una full immersion di cinque giorni e non ce la faccio più. Il romanzo è sorprendente, ma ripetitivo e a un certo punto toglie energie. Si rialza alla fine, nelle cinquanta pagine de Il quinto evangelista, dove tira in ballo anche fonti vere e si fa ancora più interessante. Che libro spiazzante!
• Questa è un'opera letteraria complessa e profondamente riflessiva, pubblicata nel 1975 si inserisce nel filone della narrativa postmoderna e religiosa. Il romanzo esplora temi legati alla fede, alla ricerca di verità spirituali e al rapporto tra uomo e divino, utilizzando una struttura narrativa che si distacca dalle convenzioni tradizionali, intrecciando storia, teologia, filosofia e finzione.
• È un mosaico di documenti, lettere, memorie e testi apocrifi che ruotano attorno a un misterioso quinto evangelio, un vangelo apocrifo perduto che promette di contenere la verità ultima su Cristo e sul cristianesimo. La struttura narrativa frammentaria e l’uso di differenti stili e registri linguistici riflettono la complessità e la difficoltà di accedere alla verità assoluta, tematica centrale del romanzo. Ogni documento è un tassello di un puzzle che il lettore deve comporre, ma la narrazione non fornisce una risoluzione univoca. Questa scelta di Pomilio richiama l’idea che la verità spirituale e religiosa sia ineffabile e frammentaria, sempre sfuggente e accessibile solo attraverso un processo di ricerca personale e collettiva.
• Una delle tematiche principali è la ricerca della verità, metafora della condizione umana. I personaggi del romanzo, studiosi, mistici e credenti, sono tutti alla ricerca di questo quinto vangelo, che simboleggia la loro ansia di trovare una verità che dia senso alla loro fede e alla loro esistenza. Ma una tale verità è forse irrimediabilmente persa o irraggiungibile, perciò il senso di incompiutezza e ambiguità è dominante.
• Pomilio pone interrogativi sulla possibilità di conciliare la ricerca individuale della verità con le istituzioni religiose, spesso dipinte come statiche e conservatrici. Questa tensione tra ricerca personale e dogma istituzionale è una delle forze motrici del romanzo.
• Lo stile in questa opera è ricco, erudito e stratificato. La varietà stilistica è enorme: alterna passaggi di intensa liricità a parti più asciutte e documentaristiche. La lingua è densa e ricercata, a tratti oscura, spesso intrisa di termini teologici e filosofici. Questa complessità linguistica può risultare impegnativa per il lettore, ma è parte integrante dell'esperienza del romanzo che richiede un coinvolgimento attivo e una riflessione costante.
• "E camminando, sentiva che ogni passo non lo avvicinava alla meta, ma piuttosto lo sprofondava sempre più nel cuore stesso del mistero, in quell’insondabile groviglio di segni e significati che pareva avvilupparlo da ogni lato, facendogli dubitare non solo della via, ma di ogni parola, di ogni verità che fino a quel momento aveva considerato certa."
• Il romanzo è estremamente denso dal punto di vista filosofico e teologico e può risultare difficile per i lettori che non sono abituati a trattare con questi argomenti. I riferimenti eruditi, le citazioni bibliche e i testi apocrifi spesso rallentano la narrazione, rendendo il libro impegnativo. La narrazione non è lineare e si sviluppa attraverso una serie di documenti, lettere e riflessioni che possono disorientare o dare la sensazione di mancanza di tensione narrativa e arrivare in alcuni punti ad annoiare.
• La parte finale, la mia preferita, è una vera e propria sceneggiatura, è un potente climax che dona alla narrazione una nuova profondità. La scelta di Pomilio di rappresentare i personaggi dei Vangeli in una forma quasi teatrale è audace e suggestiva oltre che divertente. Attraverso questo espediente la storia si trasforma in un dialogo metafisico tra figure storiche e letterarie che incarnano il messaggio cristiano.
• I personaggi evangelici vengono sottratti alla loro dimensione sacra e resi umani, pur mantenendo la loro aura di trascendenza. La sceneggiatura invita il lettore a riflettere non solo sulla storicità dei Vangeli, ma anche sul loro impatto simbolico, universale e contemporaneo. Questa struttura conferisce un senso di immediatezza e teatralità che rende vivo il dibattito sulla verità, la fede e la ricerca del divino. È un finale geniale e ironico che ripaga degli sforzi fatti precedentemente.
E' il primo libro che leggo di quest'autore, Mario Pomilio, abruzzese di nascita e napoletano d'adozione, filologo e professore di Lettere (tra l'altro ha insegnato, una decina di anni prima, al Liceo Scientifico Vincenzo Cuoco, da me frequentato negli anni '60), e l'ho trovato di una cultura incredibile. Il romanzo segue la ricerca di un professore americano alla scoperta di un Quinto Vangelo, di cui scopre frammenti, citazioni e riferimenti in atti, lettere e leggende cha vanno dal 700 d.C. agli inizi del '900; ed ogni documento (sono quasi tutti inventati o molto modificati) è esposto in un linguaggio appropriato all'epoca in cui sarebbe stato scritto, dall'alto medioevale ai tempi più recenti. Il fulcro dell'opera è la dicotomia fra la regola scritta e sancita dalle leggi della chiesa e la ricerca di una via più vicina allo spirito evangelico scevra dai dogmi. Ai documenti sopra citati segue un opera teatrale, in cui un pubblico tedesco interpreta, negli anni '40, un dibattito sulla passione di Cristo, impersonandone gli attori, fra i quali anche i 4 evangelisti: è una drammatizzazione che da sola merita le 5 stelle, per la contemporaneità dell'argomento trattato, la sua leggibilità e la sua trama avvincente. Avrei voluto dare mezzo punto in meno delle 5 stelle, perché alcune parti sono un po' pesantucce. Vi consiglio di leggere anche l'ottimo commento del mio compianto e carissimo amico (nonché compagno di liceo e d'Università) Mauro (Gasp su Anobii), vedi:
“La verità non è mai così esatta da non consentire una certa dose d'immaginazione.”
Pubblicato nel 1975, “Il quinto evangelio” di Mario Pomilio è una sorta di corpo estraneo, di entità aliena nel panorama letterario italiano del secondo Novecento, in quanto sfugge pervicacemente ad ogni tentativo di inquadramento, ad ogni sforzo di catalogazione. A metà tra romanzo epistolare e saggio filosofico-religioso, un po’ dramma teatrale e, se si vuole, perfino giallo sui generis, il libro è incentrato su una ipotesi quanto mai suggestiva, quella dell’esistenza di un vangelo inedito, diverso dai tanti comuni apocrifi, a cui il protagonista, un professore universitario americano, per giunta ateo, entrato per caso in contatto, quando era ufficiale di stanza in Germania durante la fine della Seconda Guerra Mondiale, con le enigmatiche carte appartenute a un prete che prima di lui aveva abitato la canonica assegnatagli come alloggiamento, finisce per dedicare tutta la vita nell’utopistico tentativo di rintracciarlo, con l’aiuto di una fedele squadra di giovani allievi. Per mezzo di pazienti e scrupolosissime ricerche presso antiche biblioteche e polverosi archivi, inseguendo labili indizi e impalpabili tracce, Peter Bergin, tale è il nome dello studioso, riesce a mettere insieme una nutrita serie di carte, lettere e manoscritti, di varia provenienza geografica e di diversa datazione storica, che citano più o meno esplicitamente il quinto vangelo, il quale finisce così per risultare, apparentemente accessibile e a portata di mano eppure alla fine sempre sfuggente, come quei fiumi carsici che affiorano a volte in superficie per poi tornare a sprofondarsi sotto terra e sparire per un lunghissimo tratto. Grazie a questo meccanismo narrativo, Pomilio mette in atto una complessa operazione di finta filologia, elencando carteggi epistolari, codici religiosi, annali storici e leggende, che altro non sono se non dei documenti inventati eppure perfettamente plausibili, intercalandoli con testi realmente esistenti (come la storia di fra’ Michele Minorita) ma utilizzati fuori dal loro abituale contesto. Viene spontaneo alla mente il riferimento a Jorge Luis Borges e ad alcuni suoi racconti (ad esempio “Tlon, Uqbar, Orbis Tertius” o “L’accostamento ad Almosatim”) contenuti nella memorabile raccolta “Finzioni” e zeppi di riferimenti a opere fittizie ma del tutto verosimili. Questo viaggio indietro nel tempo all’inseguimento di un vangelo che è una specie di meta che si sposta in continuazione, come un illusorio miraggio, dà la possibilità a Pomilio di esibire uno stile camaleontico, ora riproducendo la dotta scrittura ecclesiastica, piena di colte citazioni delle Scritture, ora i toni della narrazione popolare, ricca di ingenue e colorite esagerazioni agiografiche, ora un volgare erudito del primo millennio oppure ancora un linguaggio aristocratico del ‘600. E’ una quest non facile per il lettore, che deve destreggiarsi tra una mole non indifferente di materiale eterogeneo, unita dall’unico, labile filo conduttore di uno pseudo-documento religioso, eppure possiede innegabilmente un enigmatico fascino, che ha probabilmente influenzato altri scrittori più o meno coevi al Pomilio, primo fra tutti l’Umberto Eco de “Il nome della rosa” (purtroppo ci sono stati anche degli epigoni ben più mediocri, come il Dan Brown de “Il codice Da Vinci, su cui preferisco soprassedere). Quella che in apparenza potrebbe sembrare un’operazione erudita ed elitaria, alla resa dei conti si rivela un libro per nulla calligrafico o estetizzante. Si prova sempre un gusto molto particolare (e quanto mai raro, ad essere sinceri, nei romanzi di oggi) quando ci si trova di fronte a frasi cesellate con cura meticolosa, ancorché vagamente arcaiche e démodé, frasi in cui ogni parola è messa al posto giusto, con l’esattezza (quell’esattezza esaltata da Calvino nelle sue “Lezioni americane”) di toni e sfumature, che non hanno mai una funzione esornativa, eleganti ma non manierate, sempre attente a cogliere le intime vibrazioni dell’anima eppure costantemente collegate alla realtà, mai perse in una astrazione sterile e fumosa. Quello che più colpisce ne “Il quinto evangelio” è soprattutto il modo in cui si innerva nell’opera una fortissima tensione spirituale, un’ansia religiosa che per la sua intensità ricorda Pascal e che non scade mai nel dogmatico o nel confessionale. Pomilio parla di fede, certo, ma con uno spirito che, pur non respingendo affatto la tradizione, l’ortodossia, rifugge da quella sorta di “conformità dell’assenso” così diffusa nell’ambiente della Chiesa. “Il quinto evangelio” risente indubbiamente del clima degli anni ’70, un periodo in cui una diffusa insofferenza per le rigide posizioni ufficiali della gerarchia ecclesiastica e un anelito rinnovatore alimentato dalle istanze del recente Concilio Vaticano II aveva dato origine a numerose comunità di base (come quella dell’Isolotto di don Enzo Mazzi a Firenze, o quella, meno conosciuta ma alla cui nascita, nonostante fossi un semplice bambino, ho avuto modo di assistere, della Comunità di Oregina di don Agostino Zerbinati a Genova), ben presto soffocate – come è facile immaginare – da espulsioni e sospensioni a divinis. Pomilio non è certo un contestatore, eppure nel suo “Quinto evangelio”, per i pochi frammenti che ci è dato di leggere, “ci sono tante cose ardite, e perfino troppo ardite, accenti chiari e umani, e perfino troppo umani, verità… che a male interpretarle diverrebbero temerarie”, ed è per questo che l’autore ipotizza, nella finzione del romanzo, che la Chiesa possa averlo scientemente fatto sparire dalla circolazione a causa dei suoi accenni al sacerdozio universale dei credenti o alla carità destinata a prendere il posto della Legge, e, più in generale, di un’interpretazione più terrena e meno teologica delle Scritture, che lo renderebbe un testo addirittura sedizioso. Il mito del quinto vangelo, il quale si manifesterebbe ogni volta che l’umanità ne sente l’assillante bisogno, rappresenta quella tensione cristiana perpetuamente in bilico tra la certezza di una verità definitiva, “già tutta scritta, tutta offerta in pienezza, tutta quanta testimoniata” dalle Scritture canoniche e la tendenza a considerare la verità un qualcosa che ancora attende di compiersi, di inverarsi in un nuovo libro che ogni generazione, tramite una sorta di delega della Parola, è chiamata non solo a cercare, ma contribuire addirittura a farsene autrice. Con la lucida intelligenza del suo pensiero, la quale, nonostante la serietà dei temi trattati, non ha paura di trasformarsi di quando in quando perfino in sarcasmo (il cavalier Du Breuil il quale, proprio quando entra in conflitto con il giansenismo cui aveva aderito in gioventù, viene arrestato dall’Inquisizione per la diffusione di idee gianseniste, oppure Giosué Bergogno, il quale vive la sua vita come un doppio del Cristo e paradossalmente, pirandellianamente quasi, sperimenta la sua personale passione proprio interpretando il Cristo in una sacra rappresentazione popolare), Pomilio procede, alla stregua del suo protagonista, come “un uomo che cerca Dio, ma non in veste di credente”, “in perpetuo equilibrio tra il dovere del dubbio e la vigilanza sul dubbio”. Egli fa del suo cercatore di vangeli sconosciuti un sognatore, “capace di ricavarsi un universo da un frammento o di veder riflesso un cielo in una goccia d’acqua”, facendoci quasi credere, o perlomeno sperare, nell’esistenza di questo inedito testo sacro. Ma l’importante non sta nel fatto che il quinto vangelo esista o meno, non sta cioè nell’effettivo raggiungimento dell’obiettivo della sua ricerca (che forse è una mera ipotesi, una chimera), ma in quel “viaggio che ha per meta l’infinito”, in quell’avventura mistica, che merita comunque di essere perseguita, anche se il rischio è, dopo tanto girare, quello di ritrovarsi a due passi da casa. Se anche è un’illusione, il quinto vangelo è una credibile illusione, una scommessa col mistero, da vivere comunque perché è bella di per sé, il che poi è, se ci si pensa bene, la definizione stessa della fede. “Il quinto evangelio” è un romanzo necessario, che può leggere il credente più devoto ma anche il relativista più accanito, in quanto è sì profondamente cristiano, ma mai dogmatico o trascendente, bensì del tutto calato nella realtà storica del nostro tempo. Si pensi alla riflessione sulla libertà e sull’obbedienza alla legge, quando, in quello stupendo dramma sacro che conclude il libro e in cui si raggiungono vette altissime di speculazione etica e filosofica, viene affermato a chiare lettere quel sacro principio di disobbedienza civile ogni qual volta una legge dello Stato si dimostri ingiusta (non a caso la pièce è ambientata nella Germania del 1940) e tenti di asservire le coscienze per costringere gli uomini a comportarsi in maniera immorale. Pomilio rende quanto mai attuale il messaggio cristiano, sottolineandone la sostanziale iconoclastia, la irriducibile alterità alle leggi di questo mondo, e immaginando che un nuovo Gesù, magari nelle misteriose vesti di un quinto evangelista, possa subire la stessa sorte del suo predecessore di duemila anni fa. Visto in quest’ottica, il romanzo di Pomilio potrebbe apparire velleitario quanto si vuole, visionario quanto si vuole, ma, come il vangelo che lo sottende, risponde a un impellente bisogno, per nulla anacronistico ma radicato profondamente nelle nostre coscienze, quello di “rincorrere un’evidenza per incontrare una speranza”, di inseguire un messaggio per raggiungere la fede.
Questo libro racconta della ricerca di un altro libro; ed è curioso che, per leggere il libro che racconta della ricerca di un altro libro, io abbia dovuto a mia volta cercarlo: Il Quinto Evangelio di Mario Pomilio è stato ristampato tante volte, ha vinto tanti premi, ha suscitato un bel dibattito, tuttavia è fuori catalogo, e non ne esistono copie digitali (ancora per poco). Ma non si scappa al potere del web, il libro si trova usato su ebay o su Amazon.
Ed eccomi quindi a leggere di cercatori di manoscritti antichi, leggendo a mia volta un libro dalle pagine rigide e ingiallite, che emana un tanfo di muffa colla e polvere al quale non sono più abituato.
È un libro insolito. C'è uno studioso che cerca il leggendario Quinto Evangelio, ma trova solo i racconti di altri cercatori, o riguardanti altri cercatori; e il romanzo non è altro che la raccolta di questi racconti, redatti a partire dai primi secoli dopo Cristo fino ai giorni nostri. Si tratta di materiale spurio: diari, lettere, saggi, rapporti; ognuno di questi scritto nello stile dell'epoca. I vari cercatori trovano frasi, citazioni, brani del Quinto Evangelio che pur non contraddicendo gli altri quattro, li riconducono a una lettura più radicale: "Cristo non ci ha lasciato delle dottrine da seguire, ma una vita da imitare"; "chi è con me è vicino al fuoco, chi è senza di me non avrà il Regno"; "sarete fuori dalla legge ma sarete con me". Ognuno dei cercatori, imbattendosi in queste testimonianze, non può fare a meno di esserne contagiato; e intraprendendo la ricerca non può fare a meno di diventare egli stesso un portatore di Quinto Evangelio, vivendolo sulla propria pelle. La cosa è ribadita nell'ultimo capitolo, una sceneggiatura teatrale in cui delle persone comuni decidono di rappresentare ognuno un personaggio della Passione, e finiscono per riviverla.
Il romanzo mi ha appassionato e affascinato per come è costruito, per le storie raccontate, per lo stile che obbliga a una lettura riflessiva; e la cosa è tanto più curiosa quanto più si pensa al fatto che non sono d'accordo con le conclusioni. Tra Hegel e Gesù c'è una via laica, che preserva il rispetto per le istituzioni ma non le deifica.