Yawar Fiesta describes the social relations between Indians, mestizos, and whites in the Peruvian highland town of Puquio in the early twentieth century. Each group's reaction to the national government's attempt to suppress the traditional Indian-style bullfight reflects their attitude toward social change more generally. Included with the text of the novel is Arguedas' anthropological essay " A Culture in the Process of Change," written eighteen years after Yawar Fiesta. The article emphasizes the social changes in the village that resulted from the road construction described in the novel. Jos‚ Mar¡a Arguedas is one of the few Latin American authors who loved and described his natural surroundings, and he ranks among the greatest writers of any time and place. He saw the beauty of the Peruvian landscape, as well as the grimness of social conditions in the Andes, through the eyes of the Indians who are a part of it. While Arguedas' poetry was published in Quechua, he invented a language for his novels in which he used native syntax with Spanish vocabulary, making translation into other languages extremely difficult. Frances Horning Barraclough has met the challenge and produced an excellent work that remains faithful to the author's use of language to reflect the lived experience of Peruvian Indians.
José María Arguedas Altamirano fue un escritor, poeta, traductor, profesor, antropólogo y etnólogo peruano. Fue autor de novelas y cuentos que lo han llevado a ser considerado como uno de los grandes representantes de la literatura en el Perú.
An unusual novel from Peru, first published in 1941 and considered an example of indigenista literature, although the author himself rejects that appellation. Its themes are those of cultural, racial and class conflict within the town of Puquio, in the Andes. At the time the novel was written the population of the town was predominantly “Indian”. I will use this term as it is generally the one used in English (in relation to South America at least) although the book explains the Indians called themselves naturales. Other groups who feature are the mestizos and the mistis. The latter are the local aristocracy who dominate the political and economic life of the town.
I read this in English translation. In the original novel the Indians speak a form of Spanish heavily influenced by their native language Quechua. This clearly poses a problem for a translator. She has rendered it as a sort of broken English, and it was noticeable that when the Indians used dialogue they didn’t use either the definite or indefinite articles. I surmised that perhaps Quechua doesn’t incorporate those features and a check on the Internet seemed to confirm that. I thought the translator did a pretty good job.
At the beginning I wasn’t sure I would take to the novel. The author gives us a sort of local history from the Indian perspective. It felt a little like watching a TV documentary. Gradually it moves on to develop individual characters and I grew to like it more.
The plot concerns the titular Yawar Fiesta and something referred to as an “Indian bullfight”. This is the biggest event of the town year and seems a rambunctious affair. A wild or half-wild bull is taken from the high puna and between a hundred and two hundred Indian men engage in a bullfight using their ponchos as matador capes. The men are all drunk on cane liquor supplied by the mistis. Casualties, even deaths, are frequent. The event is a competition between two ayllus (communes or neighbourhoods) who look forward to it all year. It reminded me a little of the “folk football” events that still occur annually in some towns and villages in the UK, and which, to judge from video evidence, are often used by the town’s young blades as an excuse for an old-fashioned punch-up. In the novel, the central government issues an edict banning Indian bullfights and specifying that all bullfights must be organised with a professional matador. Central government is represented locally by the “subprefect” who is an outsider but who has charge of the local Civil Guard. The Edict puts him at odds with the local population.
There’s also a group of political activists who are originally from Puquio but who have moved to Lima. Mostly they are mestizo students although one is an Indian who works as a chauffeur. They support the ban as they regard the Indian bullfight as exploitative, since the mistis get the Indians drunk and then laugh uproariously when they see them being gored by the bulls. The opposite view is personified by a local aristocrat, Don Julian, who brutally beats his Indian workers for the slightest offence. However, in the matter of the bullfight, Don Julian is much more at one with the local Indians than the activists. Even though he is an aristocrat, he is “of the town” whereas the activists have adopted the ways of the outside world. There is one particular incident that demonstrates how the old order is being challenged. The author allows the reader to make their own mind up.
If you are a reader from the western world, this is a novel which will immerse you within an entirely different worldview.
Ho ancora in mente alcune parole in quechua: ayllu, pukllay, k'eñwales: probabilmente non le saprò mai pronunciare, e presto ne dimenticherò il significato. Ma la prima volta che provai a leggere questo libro furono un ostacolo sufficiente per impedirmi di andare oltre le prime trenta pagine: i numerosi corsivi e le indispensabili note a piè di pagina rallentano e limitano l'esperienza del lettore straniero. Adesso non posso che rimproverarmi la pigrizia di quel primo tentativo: avrei potuto scoprire prima un autore meraviglioso e unico. Con un po' di pazienza e perseveranza si riesce ad acquisire un vocabolario minimo (e si prova, in un modo necessariamente molto intimo, a pronunciare timidamente qualcosa), e la lettura può proseguire più spedita.
Nelle prime pagine l'esclamazione Paese indio! conclude numerosi paragrafi, come un ritornello antico - l'eco di chi sapeva ripetere, interpretare, non scrivere. Sembra di udire queste due parole sofferte, quasi cantate: Paese indio!, annuncia il narratore; e alle descrizioni delle montagne e delle vallate, dei villaggi, della via dei ricchi padroni e delle misere abitazioni degli indios aggiunge nuovi misteriosi vocaboli in quechua - come se potesse illustrarne il significato con i gesti delle mani: nomi di luoghi, di piante o di uccelli, nomignoli, feste e tradizioni - e ci si affida ancora, timorosi, alle provvidenziali note. È affascinante imparare a percepire, a comprendere quei luoghi e lo spirito di chi li abita: le Ande, l'altopiano di Puquio, il suo cielo altissimo, le passioni antiche degli indios, la melodia triste dei suonatori di wakawak'ras che annunciano il giorno della corrida. Al lirismo delle descrizioni paesaggistiche non corrisponde, nella vicenda narrata, alcuna concessione a slanci sentimentali, a momenti di contemplazione o di nostalgia: il paese è impegnato nei preparativi per la Yawar fiesta, la festa di sangue, la lotta con i tori nella piazza del paese.
Gli indios, fedeli al loro animismo, si appellano a montagne, fiumi e animali chiamandoli taita (padre), auki (spirito) o werak'ocha (dio). I signori del paese li tengono in pugno con l'acquavite e le foglie di coca; loro spargono l'acquavite per terra, in offerta ai loro protettori, gli spiriti delle valli e delle vette: ma devono sottomettersi all'autorità dei signori, che li sfruttano e li umiliano, e al prete, che cospira con i rappresentanti del governo di Lima per imporre il rispetto delle nuove leggi. L'ultima circolare vieta agli indios la loro sanguinaria corrida, che prevede sbudellamenti di sconsiderati toreri dilettanti ed esplosioni di candelotti di dinamite, e ordina di rimpiazzarla con la più sicura variante spagnola: si cerca di sopprimere le loro abitudini violente, di farli divertire con uno spettacolo che non metta a inutilmente a rischio le loro vite e si concluda con la sicura sconfitta del toro. Ma per gli indios il toro è auki, e le pretese di sicurezza dei burocrati di Lima mortificano il loro modo di interpretare la realtà e di riferirsi all'animale che perderà la vita.
La soluzione non è semplice; Arguedas invita con molta intelligenza e sensibilità a riflettere sul concetto di "civiltà", per abbandonare definitivamente le idee ottocentesche e colonialiste che considerano gli indios "primitivi" e stabiliscono un'arbitraria (e redditizia) graduatoria evolutiva tra culture e società umane; ma contemporaneamente si oppone all'ignoranza del primitivismo, della cieca fiducia nel riscatto della tradizione. Arguedas non indica, non accusa, non premia; non sostiene una ragione: la società del suo Perù è complessa, e con questo romanzo l'autore vuole insegnare ad amare e tutelare la diversità. La sua passione per gli studi di antropologia giustifica i richiami alla lingua quechua, e la scelta di un tema - la corrida - tutt'altro che facile da apprezzare per lettori come me. Immagino che per molti anni Arguedas sia stato elogiato soprattutto per la sua rievocazione delle tradizioni indigene del Perù: ma, almeno per quanto riguarda questo libro, una simile lettura sarebbe ingiustamente limitata (e fin troppo legata a ideali piuttosto ipocriti): il narratore di Festa di sangue non ha la pretesa di risolvere la complessità culturale della sua terra; non presenta in termini positivi un (evidentemente impossibile) ritorno al passato. Cerca invece di evidenziare le differenti e ugualmente rispettabili forme di civiltà. Nella sua prosa così coraggiosamente esotica si riconosce una personalità sensibile, fragile e gentile. Fin troppo fragile, purtroppo: Arguedas morì suicida nel 1969.
Meno nota è la vicenda della sua vedova, Sybila Arredondo, anch'essa antropologa, che per aver condiviso la passione e il mestiere del marito e aver contribuito a diffonderne le opere, che portavano all'attenzione universale la questione degli indios e dei loro diritti, è stata a lungo costretta a subire violenze e abusi, anni di prigione, accuse e censure. (Se ne ebbe notizia anche in Italia: http://archiviostorico.corriere.it/19...).
L'opera di Arguedas mi interessa moltissimo, per il suo punto di vista moderno, originale e anticonformista; per la sua sensibilità non comune e per la sua stessa vicenda umana. Spero di poter leggere presto altre sue opere. Molte delle traduzioni italiane, purtroppo, sono fuori catalogo da diversi anni.
El primer libro que leí de José María Arguedas, lo leí aproximadamente a los 11 años. Lo recuerdo con cariño ya que muchos de los lugares mencionados en el libro y también otros del autor los conozco personalmente, de hecho mi casa está a dos cuadras de la Plaza PICHCCACHURI de Puquio, mi abuela era del ayllu de Ccollana y mi tió vive en el jirón Bolivar.
When you read a vividly colorful novel like this, you can't help but be impressed, even if the language is difficult, owing to the fact that the author has peppered every page with Quechua words and the translator has rendered the Indianized Spanish into a kind of pidgin English. Although the buildup is long and many characters introduced, the ending is brief and leaves so much untold. Yes, I suppose in terms of world literature, this is a minnow, but in terms of Peruvian society, in terms of bringing new figures onto the world stage, and saying, "Yes, we are here and we are no less than the rest of humanity.", this is an important novel. It also has beautiful lyrical passages and you get the feeling of the Andes highlands as nowhere else. At least, that's why I've given it four stars.
Puquio, an actual town in the highlands of Peru, about 10,000 feet up, is revealed most accurately in YAWAR FIESTA, but of course, as it was at the time it was written--in the 1930s. The divisions based on race, language, class, and education are described, with characters from each sector of society represented in the story, which concerns an upcoming fiesta in which the Quechua-speaking Indians, eternally under the boot of the white or mixed race upper classes and Spanish-speaking townsmen, plan to capture a wild bull and then "fight" it with bravery and dynamite in the plaza. A large landowner, owner of the wildest, fiercest bull goes to the altiplano (puna) with some of his underlings to capture "Misitu", the bull. He fails. A party of Indians succeeds. An arrogant government official from the coast determines to put an end to the promised "crude, primitive contest". The Indians have to be put in their place. The mestizo middle class and middle ranchers agree with him. Meanwhile, in Lima, a number of men from Puquio, who have become more worldly, more savvy in the big city, think they should go back to their hometown to bring light to their less-developed brethren. They hire a professional bullfighter from Spain. The stage is set. If you wish to know what happened, read the book. It has its exciting moments, and will stay a long time in your memory even if it has certain drawbacks as well.
¿Qué no se ha dicho de “Yawar fiesta” y de José María Arguedas? Este era un título que tenía pendiente desde hace mucho y, si bien lo disfruté, no puedo dejar de pensar en lo espeluznante que es constatar que el racismo siempre ha sido la piedra angular de nuestra sociedad. ¿Algún día podremos hablar de lo peruano sin que esto sea sinónimo de discriminación?
Yawar Fiesta es realmente un proyecto bastante ambicioso, digno de todo el respeto que despiertan los trabajos de J.M. Arguedas.
En un prólogo publicado en 1950 —casi diez años después de la aparición de la novela— Arguedas nos cuenta cuáles eran sus intenciones al escribir Yawar Fiesta, cómo fue la recepción del libro en el Perú y en latinoamérica, y, sobre todo, da cuenta del calvario que le suponía escribir en español una historia esencialmente quechua.
Normalmente no leo ningún prólogo hasta terminados los libros. Pero en este caso, leí el prólogo a mitad de la novela. No dejaba de preguntarme por qué Arguedas optaba por ciertas decisiones narrativas sobre sus personajes (hacer que un personaje vaya a la cárcel, hacer que otro pierda los estribos, etc.), y sospechaba que lo hacía para abarcar la compleja situación del campesino de los Andes en la primera mitad del siglo XX, obligado a trabajar para la hacienda en un mundo que no le da otra posibilidad, sin por eso tener que ser el campesino que algunas narrativas nos han ofrecido dentro del pack “campesino jornalero con conciencia de clase luchando contra su explotación”. Algo similar pasa con los hacendados. La narrativa sobre estos, tanto en novelas como en documentales y en películas, es casi siempre la que acerca al hacendado al demonio, al violador y al castigador. Y en gran parte porque eso han sido; testimonios sobran. Pero Arguedas quiere sacarlos de la esfera demoniaca en la que la narrativa los tiene y mostrarlos en su diversidad. Más adelante volveré sobre esto. El caso es que las decisiones de Arguedas, ya a mitad de la novela, me parecían decisiones bastante específicas dentro del abanico de posibilidades que un autor tiene para con sus personajes. Y en el prólogo (bellísimo, dicho sea de paso) está el por qué.
J.M. Arguedas, muy adelantado a su tiempo, tiene 3 ambiciones muy claras acerca de la novela que quiere escribir (más allá del mismo Yawar Fiesta): 1. Contar una historia quechua para un público que habla español, pero sin reproducir el español de la costa, y usando además el quechua. 2. Mostrar la complejidad del problema de la tierra sin caer en una estereotipación del campesino y del hacendado. 3. Hacer que sus protagonistas (esto me maravilla; me fascina) no sean individuos, sino colectivos; en este caso, los protagonistas son los ayllus.
Empiezo por esto último. 3. Arguedas publica Yawar Fiesta en 1941, cuando Foucault y Deleuze tenían 15 años, para hacerse una idea. Los menciono porque siento que los problemas que estos últimos se plantean en torno a la colectividad y la individuación se los estaba planteando Arguedas con un lenguaje totalmente distinto, pero con un interés no muy alejado al de ellos. El hecho de que Arguedas elija usar protagonistas colectivos es algo excesivamente elocuente. No es que Arguedas esté pensando que todo tiempo pasado fue mejor, que la colectividad del ayllu desapareció, y que desde que la República del Perú fue pensada por y para una oligarquía, estamos miserablemente perdidos. No hay en Arguedas una nostalgia penosa, triste y acongojada. Arguedas se está preguntando cómo, en un mundo donde se nos explota e individualiza (ya seamos campesinos o no), podemos pensar el ayllu para pensarnos desde la colectividad, en favor de la colectividad, y romper con las prácticas subjetivantes que apuestan por el individuo del éxito, del progreso, y de la libertad, y que solo enriquecen vilmente a la oligarquía mencionada. Arguedas sabe que, aunque el discurso del individuo y de la oligarquía tenga muchas herramientas para disputar la batalla simbólica, y las instituciones estén plagadas de sus soldados, el ayllu y el deseo-colectivo aún tienen vigencia. De todo esto Arguedas no elige extrañar el pasado ni sentir lástima. Hubiera sido la opción más simple. Arguedas no dice: mira, antes había un ayllu, y poco a poco está desapareciendo. Arguedas se dirige al lector y lo invita a pensarse como parte de un conjunto. Por eso también llama “barrio” a los pueblos que participan en el toropukllay, y establece este parangón entre ayllu y barrio. El campesino de Yawar Fiesta no le llama barrio a su ayllu. Le llama ayllu. Quien usa la palabra barrio es el narrador. Es Arguedas. Porque él sabe que gran parte de sus lectores sí le dicen barrio a su colectivo. Y no es algo gratuito. Arguedas sabe que el barrio implica prácticas inherentemente colectivas. El defender a una persona a la que la policía quiere sacar de su casa. El comprar una pollada a la tía que necesita hacerse una operación aunque tú no tengas ni para comer. El que el vecino cuide al hijo porque el padre y la madre no tienen tiempo. El ponerse todos a limpiar las calles porque en tu barrio el camión de la basura no existe, son todas prácticas a priori colectivas, propias del barrio, son prácticas que no se eligen, sino que están ahí desde siempre, y que te interpelen a pensarte como colectivo desde que naces en un barrio. O mejor dicho: te dicen que eres un colectivo antes siquiera de que empieces a pensar. Pero Arguedas también tiene los pies en la tierra y sabe quién es su lector. Arguedas está pensando en el lector como alguien que, mientras realiza su vida consumido por el discurso del éxito individual, también vive en un barrio, pero ya ha dejado de pensarse desde él. He ahí lo más, creo yo, una de las cosas más ricas del libro: el ayllu como línea de fuga; el ayllu como posibilidad lejos de la construcción del individuo exitoso (intrínsecamente explotador, aunque no quiera verlo así).
Todo lo dicho, nos lleva a: 2. Mostrar la complejidad del campesinado en la época de las haciendas. Como decía al inicio, muchas veces se ha criticado la idea de que en la narrativa peruana se ha mostrado al campesino dentro del pack “campesino con conciencia de clase luchando contra su explotación”. Creo que Arguedas tiene una inquietud similar respecto a ello. Si bien podríamos decir que el problema de la tierra y la explotación del campesinado podía pensarse desde la pregunta de quién tiene la propiedad sobre la tierra, Arguedas sabe que dentro del mismo campesinado hay fuertes contradicciones (por ejemplo: el arrendatario es un campesino que explota a otro campesino: es un campesino que defiende su propia explotación y defiende a la hacienda que lo coloca en una situación “menos” esclavizante: léase: los profesionales titulados de la época), contradicciones que quiere retratar en el libro, y que le parecen que tal vez no se hayan explorado lo suficiente en la literatura. De hecho, Vincent C. Peloso, en un libro sobre las haciendas en Pisco, encuentra documentos donde se habla del bienestar que sienten ciertos arrendatarios aun cuando son explotados servilmente, solo por el hecho de que no son tan explotados como los jornaleros (sí, sí, igual que tu compa que defiende al capitalismo porque gana más que el sueldo mínimo). Esto lo lleva a plantear diversos personajes con intereses contrapuestos, y no solo contrapuestos contra un Otro, sino contrapuestos contra uno mismo…, y no solo contrapuesto contra uno mismo como individuo, sino contra uno mismo como ayllu. ¿La razón? Porque la realidad es mucho más contradictoria de lo que se muestra en las novelas. Uno detesta el capitalismo, pero sigue trabajando para el capitalismo porque uno tiene que comer. Y aquí un breve paréntesis: Arguedas, cuando publica Yawar Fiesta, ya ha publicado Agua. En Agua ha mostrado que es un escritor que no tiene nada que envidiar a nadie. Pero a sí mismo se ve como alguien que tiene que superar lo que ha hecho en Agua. Si en Agua ha mostrado al campesinado luchando contra el hacendado y la opresión, y al hacendado como un maldito sanguinario (repito: porque eso han sido), en Yawar Fiesta va a querer mostrar a la sociedad que subjetiviza y disciplina a los campesinos sin recurrir a las balas. ¡Maldición, Arguedas! ¡¿Por qué!? ¡¿POR QUÉ!? ¿Acaso no era más fácil lo otro? En función a la gran ambición que tiene Arguedas, plantea una diversidad muy interesante de personajes con intereses contrapuestos (porque así es el mundo): campesinos que están contentos con los hacendados, hacendados que “tratan bien” a sus trabajadores, campesinos que odian a los hacendados, hacendados que a la vez que regalan toros a sus trabajadores, los explotan doce horas al día, funcionarios corruptos, funcionarios “honrados”, funcionarios corruptos que a la vez toman una copita con el campesino que maltratan. En fin. Una diversidad de situaciones que realmente sí se dan en el día a día, repito: porque así es el mundo. El problema que yo encuentro con esto, es que la ficción, por más “realista” que sea, no funciona como funciona el mundo. Y acá es donde siento que Arguedas se queda corto. Normalmente, yo nunca siento que a las novelas le faltan páginas. Normalmente, siento que se les puede quitar un tercio y no pasa nada. A veces la mitad. A veces tienen exactamente lo que debían tener, y a veces una novela podría haber sido un cuento. Pero en Yawar Fiesta sentí que faltaban páginas. Hay mucha pluralidad de posiciones porque Arguedas trata de mostrar la complejidad andina que hasta el momento siente que no ha sido explorada. Siento que hay muchas situaciones y personajes que se anuncian con bastante importancia, pero luego no son exploradas como tal, como la del estudiante de Puquio que va a Lima a estudiar y que vuelve a su tierra a buscar justicia. De ello mi razón de leer el prólogo a mitad de libro. Porque ya a mitad del libro se me hacía que había muchísimos dilemas por resolver, y que ningún humano sería capaz de solucionar tanto dinamismo en tan pocas páginas. Es un punto que sinceramente no he podido pasar por alto.
Si uno mezcla 3. y 2., nos enfrentamos al siguiente problema: 3. y 2. Si en las novelas que estamos acostumbrados a leer, los protagonistas-individuo funcionan como conductores de la trama… Si los protagonistas-individuos funcionan como condensadores de determinados deseos (p.e.: el héroe que libera, la santa que cura al enfermo, el victimario que se venga, el campesino que lucha por la tierra)... Si los protagonistas-individuo de alguna manera sirven como vínculo entre la trama y el lector acostumbrado a entenderse a sí mismo como individuo… Y todas las cosas que el protagonista-individuo carga consigo al momento de hacerse ver por lector-individuo, lo hace a través de una conexión con el lector, a través de los AFECTOS de ambos… En Yawar fiesta, las cosas cambian un poco. Los afectos que se van a comprometer ya no son los del lector y del protagonista-individuo, sino que serán los del lector y los del protagonista-ayllu (o ayllus). Esto Arguedas lo sabe. Y me parece una propuesta genial. Arguedas hace que el lector sienta la injusticia que se comete contra el ayllu, aun sabiendo que el lector probablemente no haya experimentado una colectividad como tal (aunque sí la del barrio). El “problema” que yo veo es que, al complejizar el ayllu, al hacerlo internamente contradictorio y plural, en los ayllus habrá elementos que no sientan tanta indignación con la injusticia que se está cometiendo en su contra. Me explico mejor: como hay varios personajes del ayllu a los que les “parece bien” que se esté “engañando” al ayllu, el lector, que sabe que le están “haciendo un mal”, no se ve tan afectivamente comprometido con el ayllu, ya que ni los mismos personajes están indignados. Hay algo allí que no me termina de cerrar. Uno puede pensar en cualquier novela o película, y se dará cuenta de que si uno conecta con el protagonista y llega a gustar de la trama, es en principio porque hay un afecto en común entre el lector y el protagonista. Pensemos en la película “Gladiador”. El afecto es la indignación. Uno comparte la indignación de Máximo porque a Máximo le han hecho de todo, y él quiere vengarse. Si no quisiera vengarse y decidiera perdonar a quienes mataron a su familia, o si hubiera un personaje que le dice a Máximo que no se vengue, y este lo escucha, el lector probablemente se iría del cine. Volviendo a la idea del colectivo, Arguedas se enfrenta a este problema, y creo que no es que estuviera lejos de su solución, pero creo que no llega a cerrar del todo bien ese tema. Hay muchas posiciones dentro del ayllu como para que logre resolver los problemas en tan pocas páginas. El lector muchas veces quisiera que la decisión del ayllu fuese mucho más violenta, mucho más atroz, porque le están pintando la cara en sus narices, y da rabia. Algunos personajes del ayllu quieren responder con violencia, quieren hacer que la trama avance ferozmente, luchar los unos contra otros, en pro de la justicia, pero de pronto aparece un personaje para poner paños fríos a las cosas, ¿por qué?, porque Arguedas quiere salir del esquema mencionado más arriba. Y no estoy seguro de que el resultado sea el óptimo.
Para terminar, el punto 1. Aquí seré breve. 1. Arguedas parte de que la mayoría de su público habla el español como única lengua. Parte de ahí. Sabe también que su interés narrativo va acerca de la vida en los Andes. El problema es claro. La solución es que inventa un español-quechua que en el prólogo de 1950 dice que es pura ficción, que nadie en el Ande habla así, aunque todos sus lectores piensen lo contrario, yo entre ellos. Yo realmente sentía que escuchaba a las personas hablar. Me la creí por completo. Creía que se hablaba así en el mundo que Arguedas retrata. Aquí solo diré que me parece un riesgo realmente loable, el que toma Arguedas. Y esto responde a lo que él quería hacer: acercar el mundo andino, la explotación que había en los Andes, a la gente que no sabía nada de ellos, y que principalmente hablaban español. Es un tema del que seguro se ha hablado mucho, pero del que no me siento aún con las herramientas para debatir, sobre todo porque no sé quechua y no me siento capaz de dar una opinión sobre lo que hace Arguedas con el quechua. (McCarthy, por ejemplo, cuando sus personajes de habla inglesa se encuentran con dos mexicanos, en lugar de hacer hablar en español a los mexicanos, dice “Canelo y Juan hablaron en español”, y luego hace que hablen en el inglés que él ha escuchado. Son acercamientos distintos. Intereses totalmente distintos, también). En el prólogo se aborda esto con mucha claridad. Recomiendo que lo chequen.
Yawar Fiesta me parece un gran libro, sobre todo porque, desde su planteamiento, hay problemas que cualquier escritor preferiría eludir. De hecho, lo hacen. Arguedas es tan, tan inmensamente grande, que eligió una narrativa que ayudara a cambiar el país. Sabía que no existe la literatura fuera de una ética, fuera de una moral. Sabía que no existe una literatura no comprometida, ni un escritor apolítico. No se comió el cuento. Porque era brillante. Porque no podía cerrar los ojos. Por eso es el narrador más grande que ha tenido el Perú. Lectura recomendadísima para quienes aman la literatura hecha desde este pedacito del cosmos. Es obvio que Arguedas tenía muy en claro la complejidad del problema de la explotación del campesinado, y más aún, estaba muy comprometido con su tiempo. El prólogo del libro es brillante. Arguedas es brillante. Siempre ocupará un lugar especial en mi corazón.
PopSugar Reading Challenge 2023 (reto avanzado: 7- Un libro sobre una festividad que no sea navidad).
Yawar Fiesta o la fiesta de la sangre, es un espectáculo o celebración que se hace el día 28 de julio, Fiesta Nacional en Perú. Una de las informaciones he leído sobre esta ceremonia es que su origen se remonta a la llegada de los españoles (quienes introdujeron el toro), queriendo simbolizar el triunfo y la liberación de los indígenas y de sus tradiciones frente al sistema y abuso de poder llegado e impuesto por los españoles o del "hombre blanco".
En esta peculiar lidia, al toro se le ata en el lomo un cóndor, el cual acaba atacando al toro hasta que éste muere y al cóndor entonces se le libera. Por tanto, el toro representa a ese hombre blanco y el cóndor a los pueblos nativos.
En la novela, que se desarrolla en el pueblo de Puquio, el cóndor no aparece, sólo el toro, y la tradición consiste en sacar al animal al ruedo, que es capeado por los nativos que saltan a al plaza, provocando con ello la embestida y muerte de esas personas que se enfrentan al toro; por tanto, el gobierno central decide prohibir esta tradición sanguinaria, obligando a las autoridades del pueblo a contratar a un lidiador, para lo que contratan a un torero español que deberá enfrentarse a un temido toro bravo llamado Misitu. Sin embargo, las comunidades indígenas del pueblo y de la zona lucharán para que sus tradiciones y sus costumbres no se vean de nuevo diezmadas.
La narración es un poco complicada, ya que la obra está en ambos idiomas, castellano y quechua, por lo que, en ocasiones los diálogos o expresiones no resultan, a veces, del todo comprensibles y hay que releerlos. Recomiendo, además, tener a mano un diccionario qechua-español, ya que, aunque a lo largo de la historia muchas palabras están traducidas, es preferible tenerlo siempre cerca.
Es una historia un tanto curiosa que, seguro, una segunda lectura ofrecería mayor comprensión; pero, por el momento, y dado la dificultad de la misma, no le doy mayor puntuación, ya que no he podido disfrutarla como, probablemente, merece. Por último, decir también que existe un película basada en la novela.
Fascinating as a portrait of life in a Peruvian highland provincial capital circa 1920-1930. Depicts class and racial divisions between the upland natives, the Indians of the town, the mestizos, and the 'misti' (whites) burghers—though the federal subprefect, sent from Lima, sees even those in this last category as Indian in nature. The social and economic dynamics are evocatively portrayed. Added on top of this is the drama of modernization, as the national government seeks to outlaw the native style of bullfighting (a large free-for-all with dynamite!) and replace it with a 'civilized' bullfight conducted by a trained, Spanish-style matador. The subprefect finds allies in the Lucanas Center, an organization formed by largely mestizo students and workers who, having left the countryside for Lima, develop a new sense of political consciousness and seek to bring modernization and progress to the poor benighted natives of their home province.
In the English translation, though, the book works less well as a novel, as a work of art. There are a few passages where the clipped prose shines, describing the austere beauty of the mountains and the altiplano. Largely, the dialogue drags; the syuzhet falters. Arguedas wrote the book in a unique mixture of Quechua & Spanish, so some of the roughness of the translation may be an attempt to capture the earthiness of the original language. Still, I imagine it could have been done in a way that doesn't make the indigenous comuneros, the "komunkuna", sound quite so much like cavemen.
Es un buen libro. Cuenta una historia relevante y sincera. Que busca hacer visible hechos y formas de ver al otro que ignoran su experiencia y lo minimizan a caricaturas. Además, Arguedas escribía realmente impresionante. Sus descripciones, narraciones y uso del lenguaje quechua mezclado con el español, casi como un nuevo idioma, hacen de la lectura de esta novela bastante particular. Nunca había leído algo parecido a esto. Mi problema radica en las herramientas narrativas de Arguedas. No usa personajes individuales, sino comunitarios (Mistis en contraposición con los Indígenas) - claro, hay algunos personajes que representan las colectividades, pero al no ser protagonistas propiamente, Arguedas no profundiza en sus vidas-, hay una aparente infantilización del indígena, lo cual he leído, es la mayor crítica que se le ha hecho a buena parte de su narrativa, y, fuera de eso, la tercera persona parece concentrarse excesivamente en el conflicto político y no en la forma en que este afecta a los individuos. Parece, a ratos, muy didáctico. Al final, estas decisiones terminan por hacer que el lector no empatice con los personajes porque no los conoce. Le son indiferentes. Y así, el conflicto pierde fuerza. Igualmente, me parece un gran libro que vale la pena leer.
"En Yawar Fiesta, se relata la historia de varias hazañas de los cuatro barrios de Puquio; se intenta exhibir el alma de la comunidad, lo lúcido y lo oscuro de su ser, la forma como la marea de su actual destino los desconcierta incesantemente; cómo tal marea, bajo una aparente definición de límites, bajo la costra, los obliga a un constante esfuerzo de acomodación, de reajuste, a permanente drama [...].Este pueblo empecinado - el indio- que transforma todo lo ajeno antes de incorporarlo a su mundo, que no se deja ni destruir, ha demostrado que no cederá sino ante una solución total".
José María Arguedas en "La novela y el problema de la expresión literaria en el Perú"
I didn't enjoy this as much as "Broad and Alien is the World". However, it gives you insight into the culture, especially the essay at the end - Puquio: A Culture in the Process of Change.
¿Cómo trayendo contrata de extranguero para que capee por misti? ¡Nu, taita! ¡Ante juez con escribano habrá apoderadito, en plaza nu'hay! ¿Acaso K'ayau manda apoderado?
This must have been a challenging book for the translator to tackle and I'm not sure he entirely succeeds, but its' a really interesting novel regardless. Arguedas set out to essentially make a new Spanish that reflected the interaction between proper Spanish and the Quechua of the Peruvian highlands. That project must make the original Spanish complicated enough, but to effectively represent the feeling of that linguistic experiment in English Barraclough renders much of the novel, and not just the dialogue either, in a stilted, broken English that is certainly evocative but not necessarily an engaging read.
What is engaging about the novel is the really interesting political dynamics of this tale of enforced modernization of a small, mostly indigenous, town. The way the governmental dictate replacing the traditional indigenous bullfight with a more "civilized" Spanish-style bullfight sets up a conflict that divides the various classes of the town into somewhat surprising factions. Politics makes strange bedfellows after all.
One thing that I feel would likely have made this a more engaging book would be a bit more of a focus on characterization. Though there are several named characters, the majority of them don't have much to distinguish them from each other. With a few exceptions, most notably Don Julian and the unnamed Subprefect, the characterization is more limited to the factions rather than the individual members of those factions. I can tell you about the goals and personality of the Lucanas Center, of the K'ayau and Pichk'achuri Ayllus, or the misti aristocracy, etc. but I'm hard pressed to distinguish between the individual members of those groups. This is most certainly intentional and effectively sets the relatively small scale conflict over the bullfight as an epic struggle between broad societal forces, but it's a little disappointing that we don't get to know the people of the town better than we do.
It's an intriguing book that has a lot to say but I'm just not sure it's as engaging as it could be.
I first have to say that I read this book while vacationing in Arequipa, Peru and the surrounding area. Though I did not visit the small towns that were represented in the book, I was close enough that I got a good feel for the setting which really helped to immerse me into the story more. The story also had a final frontier kind of feel to it where the clashes between the comuneros, or original people of the valley, and the mistis, or colonialists who after many generations, pushes the comuneros to the fringes of the society. It was a great read that pushed to a strange and exciting finale that left me guessing until the very end while also giving me great insight into this part of the world I was visiting. Though its writing style did not always make it easy to read, and I struggled at time with keeping all of the names straight because some characters would disappear for a long period of time, while others had similar names. The time line was also not told in chronological order which confused me at times as well. Still, it was a great read, and even better if read in the location where the events take place.
Brilliant, I read the Spanish version and I have some issues with Arguedas repetitive use of some verbs and some words. I enjoy metaphors but he needed to apply more variety, he constantly spammed the construct "like x", like a lot, like he felt like Ice Spice in that regard. Other than that, it was like a photo of the life in the Andes. The constant struggle between the local white elite, the native people. The native people and their christian beliefs clashing with the Andean ones. The local white elite vs the brown but educated emigrants, the corrupt authorities. It was violent, it was racist, it was homophobic, it was sexist yet it was tender, warm, inspired awe, the ending unironically raise my heart rate. I was breathing fast lol. The accuracy in Arguedas' portrayal was just... chef's kiss.
Tuve la fortuna de conocer Puquio y sus pueblos alrededores en 2011 y este libro narra muy bien sus costumbres de esta zona sur de Ayacucho. Creo que para el que no conoce Puquio, puede ser complicado entender el contexto de la narración. Peor aún, para el que no conoce los pueblos de Los Andes peruanos, quizá el libro le parezca aburrido.
Me he conectado mucho con la sierra peruana y recordado los días que pasé en Puquio, en Cabana Sur, Pampa Galeras, y otros pueblos aledaños, tomando desayuno en el mercado, caminando por la plaza y viajando en las combis de madrugada para irme a trabajar.
José María Arguedas ha hecho un trabajo espectacular al dar a conocer la vida y costumbres andinas hacia las personas "occidentales" y eso lo ha hecho muy reconocido en Perú.
Primer acercamiendo a la obra del Tayta. A pesar de ser una novela, creo que este libro es muy didactico para comprender como se desarrollaron las jerarquías, opresiones, migración y demás eventos acontecidos en el pueblo andino. Aprendí cosas con una perspectiva que ni en el colegio o universidad había tenido. Es una buena forma de visitar el Perú profundo sin tener que salir de casa, creo que Arguedas por momentos nos describe los días en Puquio con un cariño peculiar que te hace apreciar a nuestros indigenas como también cuestionar ciertos valores, como la corrida de toros. Si bien el final no fue tan de mi agrado, toda la obra es una enriquecedora visita al Puquio de Arguedas que vale totalmente la pena leer para empatizar más con nuestros queridos andinos.
Muy buena forma de la cosmovicion andina, como un pueblo se relaciona en todo aspecto y el respeto a su cultura que no debería ser perdido como el yawar fiesta queriendo ser remplazado por culturas españolas, valoran tanto su identidad que lograron protegerla, se me hizo muy conmovedor “El toro bramó. El indio no se movió. La sangre que manaba de su costado brillaba con el sol. Y el pueblo entero enmudeció, como si en ese silencio se reconocieran a sí mismos juntos” para mi Don Jara es un gran lider aferrado a sus tradiciones y como ese momento de victoria silenciosa nos hizo reconocer que un pueblo podría hacer todo para no desaparecer y para mi es increible la representation andina
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El amor profundo que muestra Arguedas por ese mundo andino que lo crió a mí simplemente me emociona. Siento el pasto húmedo y el aire frío y limpio de la mañana y el polvoriento sol arrollador de las tardes del pueblo. Arguedas y los Andes antiguos siempre en mi corazón sureño del Wallmapu. Por eso inevitablemente vuelvo a Arguedas cada algunos años, siempre está en mí su mensaje hermoso y triste.
He vuelto a esta novela después de más de 20 años y sigo pensando que es muy retador leer y más aún entender a Arguedas. El ir y venir entre quechua y español hace que sea dificil leer y engancharse con el libro. Es conmovedor el amor e identificación que tiene Arguedas por el mundo andino y como los que vivimos fuera de ese mundo nos cuesta entender y sobretodo respetar sus tradiciones.
el conflicto que narra Arguedas en este libro nos muestra lo que se vivia y aun se vive en los Andes del Perú. Conflicto que nos llevo a la reforma agraria y la guerra interna que aun mantiene heridas abiertas.
Me gustó mucho la manera en que narra las costumbres de las personas oriundas de la sierra. Además, el final me parece muy inspirador en cuanto a la supresión de la cultura que suele haber en nuestro país (Perú).
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Arte novelístico donde los haya... Arguedas sabe perfectamente la novela que quiere escribir, y se inventó un lenguaje en el camino. A momentos alcanza alturas épicas sin abandonar el registro realista.
ay, qué final tan triste. un poco difícil entrar a la complejidad histórica y social del texto. una vez que se dejan de lado las imbricaciones lingüísticas y temporales se vuelve un intenso viaje de pesares e ira. moraleja: se necesitó dinamita para domesticar a los serranos.
Me parece muy peculiar que mezcle quechua y castellano. Es lo atractivo de esta obra. La historia muy entretenida que se hace entrar a la profundo Perú.