From the acclaimed Emmanuel Carrère, an act of generous imagination that unflinchingly records devastating loss and, equally vividly, the wealth of human solace that follows in its wake
In Sri Lanka, a tsunami sweeps a child out to sea, her grand-father helpless against the onrushing water. In France, a young woman succumbs to illness, leaving her husband and small children bereft. Present at both events, Emmanuel Carrère sets out to tell the story of two families—shattered and ultimately restored. What he accomplishes is nothing short of a literary miracle: a heartrending narrative of endless love, a meditation on courage and decency in the face of adversity, an intimate and reverent look at the extraordinary beauty and nobility of ordinary lives.
Precise, sober, and suspenseful, as full of twists and turns as any novel, Lives Other Than My Own confronts terrifying catastrophes to illuminate the astonishing richness of human connection: a grandfather who thought he had found paradise—too soon—and now devotes himself to helping his neighbors rebuild their village; a husband so in love with his ailing wife that he carries her in his arms like a knight does his princess; and finally, Carrère himself, longtime chronicler of the tormented self, who unexpectedly finds consolation and even joy as he immerses himself in the lives of others.
Emmanuel Carrère is a French author, screenwriter, and director. He is the son of Louis Carrère d'Encausse and French historian Hélène Carrère d'Encausse.
Carrère studied at the Institut d'Études Politiques de Paris (better known as Sciences Po). Much of his writing, both fiction and nonfiction, centers around the primary themes of the interrogation of identity, the development of illusion, and the direction of reality. Several of his books have been made into films; in 2005, he personally directed the film adaptation of his novel La Moustache. He was the president of the jury of the book Inter 2003.
Ci eravamo imbarcati in un progetto comune, questo progetto implicava che lui mi raccontasse la sua vita e lui non ha mai fatto mistero del piacere che ciò gli procurava. Étienne ama parlare di sé. È il mio modo, dice, di parlare degli altri e agli altri, e a notato con perspicacia che è anche il mio. Sapeva che, parlando di lui, avrei giocoforza parlato di me. E la cosa non lo disturbava, al contrario. Niente lo disturbava, credo, e di conseguenza niente disturbava me. È piuttosto insolito trovarsi a raccontare a qualcuno che conosciamo appena non solo quello che abbiamo vissuto, chi siamo, che cosa fa sì che siamo noi e nessun altro. Accade nei primi tempi di un incontro amoroso o di una terapia psicanalitica, e accadeva ora, con naturalezza sconcertante.
Lunga citazione che ben condensa il senso di questo libro, e, credo, di tutta la scrittura di Carrère: raccontare la vita di persone esistenti per raccontare se stesso. E così facendo parlare al lettore di sé, inteso in duplice senso: di sé scrittore, e di sé persona. È quello che rende l’evidente narcisismo di autori come Karl Ove Knausgård, e lo stesso Carrère, così universale. Anche se l’ombra del voyeurismo, e del gossip, non mi abbandona mai. Ma tant’è…
Il libro va in crescendo. La prima parte, che è quella più famosa, il racconto dello tsunami del dicembre 2004 (duecentotrentamila morti stimati), per quanto in cosiddetta “presa diretta”, considerato che Carrère e famiglia (lui, la futura moglie, il figlio di lui, il figlio di lei) fossero sulla costa dello Sri Lanka – per loro fortuna in un hotel in collina, al di sopra della micidiale onda – testimoni e partecipi, questa parte del libro non raggiunge le vette di quanto segue. Forse perché l’esperienza è troppo breve, forse perché manca il tempo e il modo per documentarsi e approfondire, forse perché l’evento è semplicemente ‘troppo’. O forse perché si tratta di vite lontane dalla cerchia della famiglia e delle amicizie.
M.C. Escher
La maggior parte del libro è dedicata alla malattia e morte di Juliette, sorella minore di Hélène, la compagna di Carrère: e quindi Juliette ed Emmanuel sono per così dire cognati. Qui Carrère da il meglio di sé, e il meglio di questo suo libro. Consapevole che l’opinione comune è che lui sia autore di libri ‘neri e crudeli’, è come se a questo giro volesse redimersi e profondere empatia compassione partecipazione, affetto tenerezza e bontà. Secondo me riesce nel suo intento, se davvero era questo: Vite che non sono la mia gronda umana pietas. E però non manca di essere un altro “autoritratto obliquo”, caratteristica comune all’opera di Carrère. E non manca di andare a sfruculiare i miei demoni, o fantasmi, e se anche ho capito presto che dovevo preparare il fazzoletto, mi sono più volte fatto cogliere impreparato.
A sin Hélène Devynck, futura moglie e ormai ex moglie di Carrère.
P.S. Préparez vos mouchoirs – Preparate i fazzoletti è un film francese del 1978 diretto da Bertrand Blier interpretato da Gérard Depardieu, Carole Laure, Patrick Dewaere, Michel Serrault.
Me gusta mucho la manera en que Carrère nos involucra en la historia y nos permite sentir a través de la vida del otro. Un libro triste sobre la pérdida, la enfermedad, el amor. Siento que le sobran algunas páginas pero en general un buen libro.
No había leído a Carrere, y veo que me estaba perdiendo de un escritor maravilloso. Es un libro triste, pero vale la pena, la fuerza que tiene Carrere al escribir me hace pensar que me gustarán sus otros libros, que tratan de temas completamente distintos. Lo bonito y trágico, es que se trata de vida real. Debe haber algún debate entre la realidad y la ficción, en cómo se maneja y cómo cambia el trato de un libro, o la manera en como lo leemos, cuando sabemos que todo lo que se cuenta es verdad. Supongo que esta se puede llamar una novela, pero no es ficción. El narrador, o sea el autor, es tan parte de la historia, como las vidas que está contando. Ese debate igual queda para otro momento, porque tal y como escribe, no se si en el resultado, en el libro en sí, es un punto a tomar en cuenta o no. Lo que sí se, es que un libro que te emociona, y te hace reflexionar sobre la vida, los imprevistos, el amor, la justicia, y la muerte, es un libro que vale la pena leer, sea lo que sea que cuenta, porque esos sentimientos son parte de la realidad y de la vida, y el hecho de que hayan sucedido o no quedan en otro lugar. Para los que vivieron lo que cuenta seguro que queda. Igual es una reflexión que seguiré haciendo, porque da para mucho pensar, con lo que sí me quedo ahora, es que me pareció un libro maravilloso, un poco caótico en cuanto a que la historia va por varios lados, y termina por contar la vida de la cuñada del escritor, cuando empieza con otra cosa, pero es emotivo y emocionante, y yo lo recomiendo mucho.
Devotees may have noticed that I’ve been reading Carerre this summer – there’s something hypnotic to his styling, a suspense in seeing how his life unfolds. This is a great distillation of his auto-biographical essay form, and the best of his “minor” books, far superior to MY LIFE AS A RUSSIAN NOVEL. As I consider his output since 1999, it seems that he spends years on books about his complex, enigmatic men with his memoir briefly shining through, and then suddenly explodes with a connective tissue book that tells his own story.
LIVES is not as nasty as the other ones, which says something given that it opens with Carrere contemplating divorce before the horrid tsunami destroys his vacation in Sri Lanka. We immediately veer, with the twists of a great novel, into life and death, as we explore morgues, the reek of corpses, the devastation on the island. A lesser memoirist would not have kept his focus on his own pettiness, his sexual needs. Far from seeming petulant, I found insight in the egoistic idea that he would become closer to his wife once a natural disaster tore the families around him asunder.
The other thirds of the work, though less potent than the masterful opening, are similarly canny, as Carrere tracks the life of his sister-of-law, who is dying of cancer, through the eyes of a man who loves her platonically. Both are lawyers, both are physically infirm from childhood illnesses. It is another “weird” coincidence, and one that we believe, and I was again impressed with how frankly he explored how the illness drew him closer to his own wife. I could have done without some intervals of legalese, but these mundanities were really about establishing contrast. One of these stories is a huge crisis, a global trauma; in the other, a sick woman passes on. Both make us think about our own lives, our own loves. I would not start here if you’re interested in Carrere, but it makes a lovely follow-up to THE ADVERSARY.
"Quando si è giù, si dovrebbero leggere libri tristi" - Reza
Sì. Credo che sia così. Forse perché se si è giù in maniera indeterminata, confrontarsi con quelle che sono tristezze reali, o meglio vere e proprie sciagure, confrontarsi con quelli che sono dolori solidi e tangibili, riporta coi piedi sulla terra. Ridimensiona le proprie angoscie. Le proprie ossessioni.
Così come i fatti della vita tragici che sfiorano la nostra vita in maniera tangente. Vite che per questa volta, per fortuna, non sono la nostra.
Ecco. Sarà brutale dirlo. Ma questo è. Carrere descrive Il dolore che lo sfiora, e, grazie a questo dolore vero e terribile che non accade a lui né alle persone della sua diretta cerchia famigliare, la sua vita prende una svolta imprevista e completamente positiva.
Per me il miglior Carrere letto finora. Bravissimo a raccontare senza sbavature e senza melassa la tragedia che in un istante può far parte della vita di tutti.
tanto per stare in tema sto piangendo come quando muore la madre di Bambi però 4 stelle perché signor Carrère santa madre del cielo e della terra fai meno il megalomane col complesso divino ti scongiuro 😭😭
la potevi tagliare qualche riga di processi inghippi roba giuridica random (mi scuso con chiunque faccia giurisprudenza, io vi venero e non so come facciate ma vi giuro una sprangata sulle gengive sarebbe più piacevole): vuoi dirmi che davvero erano necessari tutti questi pipponi pieni zeppi di termini ultraspecifici? Le pagine riguardanti Étienne mi dispiace ma davvero di una noia mortale, quando ha menzionato attorno a pag. 200 la Corte di Cassazione e ho letto “devo essere un po’ tecnico” ho balzato 5 pagine in tronco perché giuro I just couldn’t
La “prima parte” del libro e la seconda (non che siano segnalate, semplicemente c’è un taglio così netto fra l’una e l’altra che non fai in tempo a imparare i nomi dei poveri cristi con cui si apre il romanzo che poi devi aver a che fare con altri mille poveri cristi nell’altra) le ho trovate forzatamente connesse, il passaggio non mi è sembrato per nulla naturale però…….. perdono quasi tutto perché ho sottolineato delle frasi (e tante) così talmente profonde e piene di significato che non posso che dirmi soddisfatta di questa lettura, sebbene la ritenga veramente pesantissima sia a livello emotivo che di scrittura/narrazione ma ne è valsa la pena
bonus points illimitati per la concezione di amore come forza nobilitante di Carrère che condivido al 100% e per la riflessione sui “professori di allegria” che pensano che per battere la depressione basti il pensiero positivo ed essere felici, giustamente smerdati dallo scrittore
Autofiction devastante. Forse il mio Carrère preferito. In metro un paio di volte mi stavo mettendo a piangere. A memoria non mi era mai successo per via di un libro.
In mezzo qualche pagina troppo tecnica sul ruolo del giudice l'avrei tolta ma visto quanto mi è piaciuto il resto mi pare un dettaglio.
Due citazioni su tutte. La prima è l'incipit. Vi sfido a leggerlo e a non aver la voglia di andare avanti.
La notte prima dell’onda, ricordo che io ed Hélène abbiamo parlato di separarci. Non era complicato: non vivevamo sotto lo stesso tetto, non avevamo figli insieme, potevamo addirittura pensare di rimanere amici; eppure era triste. La memoria andava a un’altra notte, poco dopo il nostro incontro, interamente trascorsa a ripeterci che ci eravamo trovati, che avremmo vissuto insieme per il resto dei nostri giorni, che saremmo invecchiati insieme, e perfino che avremmo avuto una bambina. In seguito l’abbiamo avuta, nel momento in cui scrivo speriamo ancora di invecchiare insieme e ci piace pensare che fin dall’inizio avevamo capito tutto. Da quell’inizio però era trascorso un anno complicato, caotico, e quello che ci appariva certo nell’autunno del 2003, nell’incanto del colpo di fulmine, quello che ci appare certo, o comunque auspicabile, cinque anni piú tardi, non ci appariva piú per niente certo né auspicabile in quella notte di Natale del 2004, nel nostro bungalow dell’hotel Eva Lanka. Al contrario, eravamo sicuri che quelle sarebbero state le nostre ultime vacanze insieme, e che nonostante la nostra buona volontà fossero un errore.
Verso le sei era sdraiato sotto un albero, la testa sulle ginocchia di Aurélie che gli accarezzava i capelli. Ogni tanto alzava lo sguardo al viso di lei. Che gli sorrideva, gli diceva a voce bassissima: sono qui, Étienne. Sono qui. Lui richiudeva gli occhi, aveva un po’ bevuto, non molto, ascoltava il brusio delle conversazioni tutt’intorno, il ronzio di una vespa, portiere d’auto che sbattevano nella via. Stava bene, avrebbe voluto che quel momento durasse in eterno, o che la morte lo cogliesse cosí, senza che lui se ne rendesse conto. Poi suo padre è venuto a prenderlo e gli ha detto: Étienne, è ora di andare. Ancora oggi immagina che cosa abbia significato per suo padre dover dire: Étienne, è ora di andare. Sembra insormontabile, eppure lui l’ha fatto.
Poco adatto agli ipersensibili. Una pugnalata. [84/100]
Ormai mi sono abituato allo stile di questo autore, che in principio mi infastidiva alquanto (per le note ragioni relative all’eccessiva intrusione dell’io-Carrère all’interno delle sue opere) ma che per quanto mi riguarda non ha impedito un risultato più che lusinghiero: sei libri letti e mai una delusione.
Analogamente e per gli stessi motivi ho smesso di pormi troppi dubbi su come classificare ognuno di questi ibridi, biografia, fiction, saggio, autobiografia che siano, scoprendo (meglio tardi che mai…) che anche la difficoltà di incasellarli in categorie definite, finisce per costituire in qualche modo un valore aggiunto.
Ciò premesso, “Vite che non sono la mia”, in apparente contrasto col titolo è un libro che ha a che fare con la morte, col lutto e col dolore e forse se l’avessi saputo prima avrei scelto di evitarlo, perdendo in tal modo un’ottima occasione, perché l’ingombrante io di Carrère questa volta è un Virgilio che ci accompagna attraverso diverse stazioni di un percorso doloroso, senza ipocrisia né pudore ma con un coraggio e un’umanità che contraddicono l’immagine di puro egotismo che ci siamo costruiti sulla sua persona.
E l’assenza almeno apparente di una bussola, di uno schema preciso entro cui definire il racconto in modo univoco, è fonte di rinnovate sorprese, di stupore e in definitiva di intensa partecipazione emotiva perché forse è così che funzionano la vita e il destino, per accumulo successivo di eventi, talora tragici e allo stesso tempo capaci di spezzare o rinsaldare imprevedibilmente i legami più importanti. “Vite che non sono la mia” ci trascina in un folgorante e terribile racconto iniziale per poi smarrire alcuni protagonisti e virare su un’altra vicenda dall’altra parte del mondo (questa) e quindi si trasforma senza soluzione di continuità in una specie di saggio di diritto processuale (con profonde implicazioni etiche sui rapporti economici e sociali della gente comune) e nel finale ritorna ancor più intensamente sul senso della morte e della sopravvivenza.
Insomma, un libro felicemente sconclusionato e caparbiamente inafferrabile che, inutile negarlo, pur presentando tanti motivi di interesse, è destinato a rimanere nella memoria soprattutto per la presenza di pagine fra le più commoventi che siano state scritte, miracolosamente prive di retorica. Carrère resta nonostante tutto un individuo non troppo simpatico, accomunabile in questo senso ad un altro grande antipatico della narrativa contemporanea, il connazionale e coetaneo Houellebecq, ma è innegabile che disponga di un dannato talento che a volte (qui come in “L’avversario”) utilizza in modo un po’ crudele, per scuotere le corde più intime della nostra sensibilità.
Da sei mesi a questa parte, ogni giorno, di mia spontanea volontà, ho trascorso qualche ora davanti al computer a scrivere di ciò che mi fa piú paura al mondo…
Così Carrere quasi alla conclusione di questo reportage sul dolore altrui che lo spinge a sentirsi fortunato, felice di esser stato risparmiato. In merito al dolore io credo che non si possa scegliere, una quota (più o meno ingente) è destinata in sorte a ciascuno di noi. Non si può rinunciare al dolore, capita invece di rinunciare colpevolmente alla felicità. Il dolore arriva all’improvviso, spesso viaggia sul cavo del telefono ed è inevitabile. La felicità invece uno deve sceglierla, inseguirla e infine assecondarla. Per il dolore basta star fermi, per la felicità invece bisogna muoversi, tanto che uno finisce per considerarla stancante, procrastinabile per poi accorgersi che è irrimediabilmente sfumata. Sempre Carrere scrive:
Mi è capitato di sentir dire che la felicità si apprezza a posteriori. Che pensiamo: non me ne rendevo conto, ma a quel tempo ero felice. Per me non è cosí. Sono stato a lungo infelice, e molto cosciente di esserlo; oggi amo quello che è il mio destino..
Io sono iscritto al partito A posteriori (AP), la felicità per me è essenzialmente ricordo di felicità. Il libro è assai pesante, le vite che non sono quella di Carrere sono così dolorose da procurare saturazione in chi legge. Sopra un certo livello, qualsiasi accidente non fa più presa, si aggiunge indistinto agli altri facendo crescere solo il numero delle pagine. Manca un elemento determinante rispetto agli altri libri dello scrittore francese: la tensione. Togliendola, i fatti, per quanto emotivamente significativi, sono diventati enumerazione. Se a questo aggiungiamo le ottanta pagine di diritto privato, le venticinque di diagnostica e le venti di geografia diamo un’idea abbastanza fedele dell’intelaiatura del libro. Le ottanta pagine di diritto cavilloso (condito con interpretazioni molto opinabili) da sole basterebbero per rovesciare il giudizio favorevole su qualsiasi romanzo. Questo però non è un romanzo, è il diario di un saggio, è il prodotto di uno scrittore che aveva l’obbligo editoriale di scrivere un libro entro una determinata scadenza. Nessuno contesta che Carrere sia bravo a scrivere, che sia bravo anche a leggere e a riportare nei propri libri frasi molto significative. “L’avversario” è un libro che gli è riuscito meglio di “Vite che non sono la mia” da cui ritaglio «la peggiore delle sofferenze, è quella che non possiamo condividere» Non è sua, è di quel genio folgorante di Celine.
Finalmente trovo coraggio di scrivere questa recensione, dopo 20 giorni dalla fine di questa lettura. Sapevo che questo libro mi avrebbe fatto molto male ma non mi aspettavo in questa misura. Sono storie senza pietà perché sono vite vere quelle di cui si parla. "Vite che non sono la mia" ma che potrebbero esserlo e che, tutti un po' pensiamo, menomale che non sono la mia. Ci sono due umanità diverse, questa è una della riflessioni che più mi è piaciuta di Carrère perché ha espresso su carta un pensiero che io ho spesso. Se non si hanno affrontato alcune perdite, non si può capire a pieno cosa si prova e che vita si debba vivere per sempre, quanto ogni visione dell'esistenza sia ormai diversa. Ho pianto tantissime volte perché parla in particolare di aspetti della morte che mi colpiscono moltissimo e sono troppo reali, anche aspetti "burocratici" legati al lutto. E' un libro anche cinico e, per questo, realistico. Carrère non ha paura di esprimere a parole e a muso duro quello che tutti noi, almeno una volta, abbiamo pensato. Lo ammiro e apprezzo per questo. A un certo punto dice che non ha conosciuto la morte fino a 47 anni circa, e io stessa lì ho pensato "beh ti è andata molto bene a me non è andata così" e penso che lui capirebbe a pieno la mia rabbia. Vite che non sono la mia ma che potrebbero esserlo.
"Ci siamo noi, puliti e in ordine, incolumi, e attorno a noi la cerchia dei lebbrosi, dei radioattivi, dei naufraghi tornati allo stato selvaggio. Solo il giorno prima erano come noi, noi eravamo come loro, ma a loro è capitato qualcosa che a noi non è capitato, e adesso apparteniamo a due umanità separate."
La notte prima dell’onda ricordo che io ed Hélène abbiamo parlato di separarci. Questo è l’incipit, e da quell’evento tragico vissuto in prima persona dello tsunami nel sud-est asiatico del 2004 parte una serie di riflessioni che porterà Carrère a riconsiderare la propria e l’altrui esistenza. A volgere il suo sguardo non solo verso di sé, come d’abitudine, ma anche alle vite che apparentemente possono essere insignificanti, di chi gli sta accanto, non solo i grandi o inquietanti personaggi che lo hanno sempre affascinato, ma piccole storie di provincia, vite di routine con il loro eroismo misconosciuto, i vizi e le virtù del quotidiano, con scelte di vita tanto lontane dal suo bisogno continuo d’affermazione. Io sono ambizioso, inquieto, ho bisogno di credere che quello che scrivo sia straordinario, che sarà ammirato, finché ci credo mi esalto e quando smetto di crederci crollo. E il fil-rouge di queste vite ruota attorno al dolore, alla malattia, alla morte, prima a Cylon, poi al ritorno, di sua cognata, giudice di Diritto Civile e madre di tre bambine, malata di cancro. Per poi spaziare nella seconda parte del libro, nelle tematiche sociali della povertà, e del diritto anche dei meno abbienti a una vita dignitosa in una società che tende a schiacciare chi ha meno per privilegiare chi è più ricco e può usare la Legge a proprio piacimento.
Il tutto a partire dal suo sguardo e dalle sue riflessioni, è ovvio, perché Carrère è questo, prendere o lasciare.
Ma questa ricerca lo porterà a riconoscere che anche nella quotidianità si nasconde l’eroismo: (c’è in questo)… un desiderio di riconoscimento applicati a oggetti che devo ammettere mi appaiono un po’ irrisori, come se la vanità d’autore che mi attanaglia si applicasse a qualcosa di incomparabilmente più nobile. Tecnicamente (il libro) andava scritto come “L’avversario”, in prima persona, senza finzione, senza artifici, e di quel libro al tempo stesso era l’esatto contrario, il suo positivo, in qualche modo. Era ambientato nella stessa regione, i personaggi abitavano le stesse case, leggevano gli stessi libri, avevano gli stessi amici, ma da un lato c’era Jean Claude Romand che è l’incarnazione della menzogna e dell’infelicità, dall’altro Juliette ed Etienne che, tanto nell’esercizio del diritto quanto nella lotta alla malattia, non hanno mai smesso di perseguire la giustizia e la verità.
Un libro più intimo, più meditativo, che lascerà sedimentare tre anni, e chiederà alle persone coinvolte di leggere ed eventualmente correggere. Per arrivare poi a imprimere alla propria vita quella tranquillità fino ad allora mai riconosciuta come obiettivo desiderabile: …faremo l’amore in modo coniugale, tranquillo, un po’ routinario, che a entrambi ispira un desiderio continuamente rinnovato, e che spero inesauribile. Farò dell’altro caffè che berremo insieme in cucina”.
Ecco, alla fine di due libri di Carrère letti di seguito penso di averlo smascherato. Lo accusano tutti di narcisismo, ma credetemi, di questi soggetti sono esperta, lui non lo è, perché un narcisista è talmente ripiegato su sé stesso da non essere in grado di provare empatia alcuna per gli altri, mentre qui descrive il dolore di una madre che perde la propria bambina, o di bimbe che vedono morire giorno dopo giorno la propria madre, in modo mirabile, con uno sguardo tagliente e pietoso ma privo di sdolcinata melassa. E questo un narcisista non sarebbe in grado di farlo
Carrère è un egotico, con la tendenza a fare di sé l'oggetto privilegiato di ogni riflessione. E di questa vanità ha fatto la cifra distintiva del suo stile, una grandeure che simbolizza quello tipico della Francia intera da sempre e non solo da Macron. Un bel tipo, insomma, contenta di averlo conosciuto, ma per ora mi basta così.
L’apice dell’opera di non-fiction di Carrère è Vite che non sono la mia. Le vite di Carrère sono molteplici possibilità di esistenza, connesse tra loro grazie all’ambigua voce narrante dell’autore stesso. La storia cambia sempre, ma non cambia mai davvero. Si focalizza sui suoi protagonisti, viaggia da un continente all'altro; scopre nuovi aspetti nella tragicità della vita, e ne svela aspetti epici. Il filo conduttore è il punto di vista volutamente cinico di Carrère sulla morte e sul lutto, ma anche e soprattutto sugli orrori del vivere. E quindi, le storie più antiche del mondo; le paure che accomunano tutti gli esseri umani: la propria morte, quella dei propri cari. Ma anche il dolore della malattia e del debito. Eppure non è un libro disperato, anzi. Emoziona, sorprende, incalza; è materia viva e pulsante. Carrère è capace di mantenersi lontano dai sentimentalismi, senza essere crudele. Piuttosto, è iconoclasta: si propone di raccontare la morte della cognata, ma in realtà parla soprattutto di altri personaggi e di altre questioni (Ètienne, Patrice, se stesso; lo tsunami in Asia; le società finanziarie). Grande pregio di Carrère è quello di aver saputo creare un universo narrativo attorno a sé, il cui egocentrismo è visibilmente pretestuoso. L’autore stesso si confonde con la materia narrata. Diventa personaggio, smette di essere reale, ma cede la sua veridicità alle vicende che racconta. Fa da tramite tra una storia e l’altra, tra un romanzo e il successivo. Le sue opere rimangono per sempre interconnesse in un mondo dickiano privo di fantascienza. Vite che non sono la mia è la vetta più alta raggiunta dallo scrittore, perché dietro la maschera della non-fiction si cela un grande romanzo di respiro universale, che riesce a parlare davvero a tutti e di tutti.
True story about a couple who decides they are going to separate the night before a tsunami hits Sri Lanka. The next day their world turns upside down.
Ho appena terminato questo libro e sono assolutamente devastata. Non ho MAI e dico MAI e lo ripeto MAI pianto così tanto per un libro. Leggo moltissimo e non piango praticamente mai. Ora sono letteralmente in una valle di lacrime.
Non riesco a dire altro su questo libro, mi ha impattata troppo, è bellissimo, è necessario, è doloroso, è straziante, è stupendo.
La sofferenza peggiore è quella che non possiamo condividere.
Fatemi capire, c’è gente che riesce davvero a uscire intonsa da una lettura così? È umanamente possibile arrivare alla fine di Vite che non sono la mia con il cuore ancora intatto, l’anima tranquilla, lo stomaco che non dà il minimo segno di turbamento? Perché se ci fosse un modo per non farsi annientare da tanta bellezza e tanto orrore, se foste a conoscenza di un tale segreto, beh, io vi pregherei di tenerlo per voi.
Emmanuel Carrère, scrittore, sceneggiatore e infallibile cronachista francese che calca la scena letteraria contemporanea già da un po’, si è trovato a far da testimone a due terribili sciagure, a breve distanza l’una dall’altra: lo tsunami nello Sri Lanka, che ha ucciso, tra migliaia di altri, anche la figlia di 4 anni di una coppia di suoi conoscenti e compatrioti; e la morte della sorella della sua compagna, un grande giudice annientato in età tutt’altro che avanzata dal cancro, lasciando un marito e tre figlie piccole a compiangerla. I facili pietismi sono banditi da questo libro che rimane sempre diretto, lucidissimo e profondamente umano nel tratteggiare il dolore e la grande empatia che le situazioni estreme suscitano in noi. Carrère è uno che crede nel potere terapeutico della parola. Pur rimanendo sempre un po’ estraneo a quella sofferenza, non sentendosi mai del tutto partecipe, si fa comunque carico del compito di raccontarla e in questo modo raccontare anche se stesso, autoanalizzarsi e, perché no, tentare di esorcizzare i propri fantasmi lungo il percorso. Frugare nelle vite degli altri ci porta sempre a riflettere anche su noi stessi e a chiederci come sarebbe andata se non fosse toccato a noi essere i fortunati, i sopravvissuti, i risparmiati, come avremmo reagito, come e se fossimo riusciti a non affondare. La parte dedicata alla giurisprudenza francese mi ha fatta un po’ storcere il naso, ma questo libro tocca vette così alte che qualche piccola imperfezione gliela perdoni volentieri.
Meglio essere chiari: non è facile da digerire. Guardare dritto dentro l’abisso potrebbe far emergere cose che non vi piaceranno. Ma sono convinta sia un’esperienza che dobbiamo a noi stessi, di tanto in tanto. Anche solo per ridimensionare le nostre angosce e dirci, senza sensi di colpa, “quello è il vero incubo, ma almeno per stavolta, non è toccato a me”.
Difficile, capire da dove iniziare. Inizierò dal titolo che, per la prima volta da lettrice, trovo non azzeccato, ma di più; come se si fosse scritto da solo, come se fosse il risultato di un qualche calcolo matematico, un qualcosa di inevitabile e che non poteva essere diverso. Perché credo che ciò che ha permesso a questa storia di arrivarmi sin dentro alle ossa in un modo del tutto nuovo è stato il fatto che l’autore racconta di vite “che non sono la sua” e ciò senza l’intento di mostrarci in che modo queste l’hanno cambiato, ma ponendosi a margine, lasciando qualche volta una sua opinione, ma senza mai arrivando ad oscurare il resto, o a cambiarne l'interpretazione, con una soggettività che, quando si tratta di raccontare del dolore in particolare, un po' "toglie alla realtà"; in pratica “ascoltando” e “lasciandoci ascoltare” e non “inquinando” - anche se è un termine bruttissimo - la storia e rischiando così di togliere il carattere della immediatezza. Leggendo, quindi, se non si hanno avuto esperienze combacianti perché son certa che, in tal caso, si abbia un’altra esperienza di lettura, si ha un po’ l’impressione di essere al posto dell’autore o accanto a lui, con un taccuino in mano, ad ascoltare: e così tu finisci per provare tantissime emozioni - sento un vuoto, adesso che scrivo, e ho appena finito il libro -, ma per quegli spigoli della vita che non hai provato in prima persona, puoi dire, come ad un amico, “so che non posso capire”, anche se questo non rende meno sincera la tua partecipazione al suo dolore. Ed ecco che c’è la magia della verità, come una luce che rischiara ogni cosa e che è ben diversa dal raccontare il dolore proprio, direi quasi “indugiando troppo in esso o non facendolo affatto”, anche dal punto di vista di esercizio di stile/ lessicale. Ed ecco che piangi, leggendo. Credo che questo si rispecchi anche nello stile dell’autore che a me è sembrato sia equilibrato che profondo, ma di una profondità che non è data da un esercizio di stile, appunto, che scava, scava fino a farti provare le cose - e tu annaspi, magari -, ma dalla limpida verità che raffigura, dal portare alla luce la vita come “è stata” - come la praticità davanti al lutto e, nello stesso tempo, la praticità davanti alla vita “dopo” - e dunque la vita come è, nella sua fragilità e, alcune volte, “assurdità” agli occhi degli altri. Non so se questo sia lo stile dell’autore, perché è il primo suo libro che leggo, ma l’ho amato. Ho iniziato il libro e mi è piaciuto sin da subito; ho avuto i brividi leggendo dello Sri Lanka, gli stessi che si hanno quando davanti al telegiornale si apprendono le notizie di eventi drammatici di larga scala, le stesse sensazioni. Poi è stato, avrei detto allora, come passare a un altro libro (il che ha fatto sì che mi prendessi una pausa), ma non per lo stile, per la storia trattata: si passa da una tragedia collettiva a una personale e a mano, a mano, si realizza un climax perché la patina del “non potrebbe accadermi” si assottiglia sempre di più, pur non esaurendosi mai per la tipica inconsapevolezza umana che alziamo come muro per proteggerci. Collegavo le due vicende solo attraverso il tema del “dolore”, ma in realtà il filo rosso che rende più che mai unito il libro è, proprio, quella patina che definirei non come il “dolore”, ma la partecipazione a un dolore che non ci investe direttamente. Trovo di sollievo chi è capace di dire “non posso capire”, chi è capace di ammetterlo e esternarlo, anche perché penso che una delle porte per la vera empatia sia proprio questa, sedersi e fidarsi di ciò che ci viene raccontato, senza avere la presunzione di pensare che “no, non è così” e così arrivare a comprenderlo, e non solo capirlo, meglio. E l’empatia è, secondo me, imprescindibile da un certo tipo di lettura, soprattutto per farla davvero tua. La storia di Juliette, in particolare, mi ha così travolta o forse sarebbe più corretto dire che mi ha travolta la sua vita attraverso le vite delle persone che ha avuto accanto e l’hanno avuta accanto - di un altro libro, di tutt'altro genere, è la frase che dice che le vite delle persone si misurano anche nelle vite di chi ha incontrato: nulla di più vero. Sicuramente, sulla mia lettura hanno influito alcune vicende personali e, da altri punti di vista, il fatto che studio giurisprudenza, ma sarebbe andata così anche diversamente perché è inevitabile: se ti interessa il punto di vista giuridico, sicuramente sei stimolato maggiormente in alcune parti e non puoi che essere affascinato e, per i temi trattati, puoi ritrovarti o meno, ma il punto principale è che questa cosa sbiadisce, va in secondo piano, tu “partecipi” senza essere quella persona e, nello stesso tempo, senza lasciarti sprofondare in te stessa e così arrivando a una comprensione più vicina di chi cerca di “mettere il suo” per capire meglio, anche quando non può. Non sono vite inventate, ma reali e mi viene molto difficile parlarne e dire, ad esempio, che vorrei conoscere Étienne, fargli tantissime domande, o chiedere a Patrice come stia. Mi sembra di non essere rispettosa. Dirò, però, che ho visto descritte magistralmente, o almeno così a me sono arrivate, due forme di amore bellissime e rare: quella con Patrice, di complementarietà, di chi si trova, di chi è destinato a trovarsi. E quella con Étienne, a mio parere ancora più rara, di affinità, di intesa intellettuale e di esperienza di vita, profonda e nello stesso tempo che non necessita di una quotidianità, che ti permette di essere te stesso in un modo libero che può essere diverso da quello che si scopre in un rapporto di amore come il primo. Si assiste a un racconto, anche perché si passa dalla dolcezza all’ilarità nel raccontare alcuni episodi di carattere giuridico proprio come se si stesse parlando con qualcuno e il suo registro cambiasse a seconda dell’argomento. Penso che traspaia anche il rispetto che l’autore prova verso la vita di chi racconta. Il libro è un cerchio che si chiude: chiudi tanti piccoli cerchi mentre lo leggi - che non sono altro che minuscole finestre nella vita delle persone - e poi ritorni alle “vite di partenza”, in particolare a quella dell'autore, proprio perché, direi, l’autore sa che le vite che ha raccontato non sono la sua e quindi sa che scorreranno, indipendentemente da lui. Si potrebbe parlare della riflessione sul tema della malattia e di altri argomenti, ma quello è un “più” molto soggettivo; ne esco arricchita da questo incontro, non so ancora in che modo, ma è così che sento; ne esco arricchita dalla conoscenza di queste persone, anche se limitata al mezzo di un libro, ma sappiamo tutti quanto questo insieme di carta e inchiostro possa essere potente.
Cosa ne sappiamo davvero del dolore degli altri? Riusciamo a comprenderlo fino in fondo? Tante vite, tante storie, tanta sofferenza attraversano questo romanzo e hanno attraversato me che l'ho letto. p.s. ma quanto cazzo scrive bene Carrère??
Je ne dois pas lire les bons livres d'Emmanuel Carrère, c'est évident. Il tient tellement à se faire passer pour un affreux jojo égotiste et dépourvu de tout réflexe solidaire qu'il doit bien y avoir une base à ça, mais comme écrivain sa hauteur de vue est redoutable. Blague à part, ici, dès le titre, la question de l'autobiographie et de l'écriture non-fictive est prise dans une intéressante dialectique. Renonçant à la fiction, Carrère ne semble alors justifier l'écriture que comme trace de l'ouverture progressive de l'ego sur la vie des autres. Ce sont "d'autres vies que la mienne", mais vues par "moi", et comment "je" les ai rencontrées, ce qui est au fond bien plus intéressant qu'un compte-rendu objectif. Carrère le remarque avec humour : aucun scénariste n'oserait empiler les péripéties tire-larmes dont il a été le témoin effaré au tournant de 2004 et de 2005, du tsunami de 2004 qui fut sa première approche concrète de la mort, à l'en croire, au bouleversement de la famille de sa compagne, quelques petits mois plus tard, à la mort de Juliette, jeune mère joyeuse et "grand juge" selon le témoignage de son collègue Étienne. D'abord très extérieur à cette émotion, se tenant dans une posture de simple décence, l'auteur-narrateur finit par s'emballer pour le combat d'Étienne et Juliette, juges d'instance accablés de dossier de recouvrement de dettes : faire coïncider le droit positif et la défense des plus faibles. Une grande force du récit de Carrère est son obsession revendiquée de la chronologie, avec ses paradoxes : il rapporte les événements dans l'ordre où il les découvre, qui est l'ordre de leur signification existentielle, tout en tâchant de faire coïncider au maximum cet ordre avec celui de leur déroulement : il tâche ainsi de rendre ses flashes-back chronologiques. De la sorte, il raconte à la fois la vie des personnages qu'il a élus, l'histoire de l'impact de ces vies autres sur la sienne, et l'histoire de son livre en train de s'écrire. Son style limpide, précis et mordant fait le reste, et c'est ainsi que "D'autres vies que la mienne", parfois bouleversant (mauvaise lecture pour salle d'examen, on ne peut pas se permettre de verser une larme devant les candidats) prend toute sa valeur spirituelle.
The first fifty pages about the 2004 Boxing Day tsunami hitting an idyllic Sri Lankan beach town were riveting, harrowing, incredible reading. So good, so devastating (I don't use that word to describe books that don't actually describe literal devastation like this and create a deeply empathetic/wrecked state in the reader, the sort where you have to put the book down because it's too much). But the rest of it, about two French judges, both with paralyzed legs, one who survived cancer, one who didn't, only had its moments. The parallel between the two stories was clear -- how we respond when the ineluctable forces of nature (waves/cancer) turn against us -- but after a while I wasn't engaged and skimmed to the end. I want to love Carrère but it looks like I won't get much further than admiration with him after trying three of his books (this one, The Mustache, Limonov). Will maybe try another before the year is over -- I like it generally but insufficiently?
Also odd that as I read this the news focused on a judge and a tsunami.
Globalement décevant, malgré quelques passages lumineux et deux ou trois pépites d'information sur le fonctionnement des Instances. Contrairement à la majorité de réviseurs ici, je n'ai pas trouvé ces détails judiciaires ennuyants; au moins, j'ai appris des choses. Non, ce qui reste indigeste dans ce livre c'est que le fil conducteur entre des évènements aussi disparates qu'une catastrophe naturelle en Asie et les travaux de deux juges boiteux en Isère est... l'auteur! La mort d'un être cher est, dans les deux cas, le prétexte que Carrère utilise pour relier ces deux récits, mais tout est collé autour de ...lui. D'abord parce que le hasard a voulu qu'il soit vaguement témoin de ces évènements, mais surtout parce qu'il ne peut résister de tout voir et analyser par rapport à sa propre perception de lui-même. Ses commentaires sont parfois amusants ou un peu piquants, c'est vrai, mais à la longue, on s'en lasse. Puis, il y a d'autres bêtises, comme les références à Freud et la psychanalyse (allez, on est en 2009, oublions Freud, de grâce!) et aussi le fait que Carrère à réussi à y insérer des références à au moins trois de ses autres bouquins, si ce n'est pas toute sa production. Ca suffit.
Después de un comienzo potente que leí de un tirón, con la vista nublada de tanto llorar y desesperarme, una meseta de algo más bien burocrático y legal que, literalmente, me durmió varias veces. Después vuelve a repuntar, con toda la potencia del principio pero siempre con una luz esperanzadora: aunque parezca que no hay nada, siempre hay algo más. Algo que sintetiza todo: cuando lo terminé, tuve que escribir una carta de amor.
Non mi capitava di piangere così da tanto tempo, quindi se avete intenzione di leggere questo libro, per prima cosa assicuratevi di avere abbondanti scorte di fazzoletti in casa. “Vite che non sono la mia” non è un romanzo, ma un racconto di storie vere che hanno coinvolto l’autore e la sua famiglia. E’ un’opera sublime e commovente, che parla di perdita, di malattia e dolori profondi; dolori che non si possono spiegare, dolori che non si possono comprendere fino in fondo finché non li si vive sulla propria pelle, e che per questo motivo risultano difficili da spiegare a coloro che ci stanno accanto, siano essi famigliari o conoscenti. Il racconto è denso di momenti molto toccanti e struggenti, e su tutto risalta il grande omaggio che l’autore vuole rendere all’amore, all’amicizia e alla famiglia, che resistono come naufraghi su una piccola zattera in balìa delle onde di un burrascoso mare di dolore.
Avendo già letto diverse sue opere, posso affermare con certezza che Emmanuel Carrère non è soltanto uno dei miei preferiti, ma anche uno dei più bravi autori contemporanei. La sua scrittura è di una bellezza disarmante e di una profondità sconcertante: ti avvolge prima con delicatezza, e lentamente si avvinghia intorno a te; ti travolge con forti emozioni e non ti lascia più andare. In questo libro Carrère raggiunge vette altissime mentre ci narra di vite che non sono direttamente la sua, ma che potrebbero essere di chiunque ci sta intorno, se non addirittura la nostra. E’ un libro emotivamente molto forte che mi ha devastato il cuore e l’anima. Impossibile non apprezzarne la straordinarietà
"Nell' esperienza di ogni lettore c'è sempre l'incontro - spesso casuale, a volte unico - con un libro dall' apparenza innocua, inoffensiva, ma che poi si rivelerà essere una di quelle letture che cambiano la vita, o, quantomeno, ne sconvolgono le più sedimentate convinzioni".
Basterebbero queste righe a spiegare ciò che questo libro ha significato, mi ha dato. Leggere "Vite che non sono la mia" significa essere testimoni, come si definisce Carrère, di storie che sono pregne di dolore, di morte e di amore. Significa essere testimoni della vita nella sua bellezza e nella sua crudeltà, significa perdere le persone care: dei genitori che perdono la propria figlia, un uomo che perde la propria moglie e madre dei suoi figli. Carrère entra in punta di piedi in questo universo fatto di dolore, di vita, di morte e di amore, insomma di quel mosaico che è la vita. L'autore entra in questo mondo come un ritrattista che dipinge le persone o le situazioni dando ad ognuno.la giusta valenza e il giusto spazio, formando il suo quadro di amore, di bellezza, dolore e vita. Mentre scrivo, il mio cuore è ancora gonfio di commozione, ma anche di dolore e sentimento per ciò che ho vissuto e che questo scrittore è stato in grado di regalarmi.
Ho appena finito questo libro - un romanzo autobiografico - e sento il dovere di giustificare queste tre stelline, che niente hanno contro lo stile di Carrère, di mio gusto.
La storia si divide in due parti: la prima è ambientata in Sri Lanka, nel 2016, durante lo tsunami che investì le sue coste, e la seconda in Francia, dove la famiglia della compagna di Carrère subisce un lutto importante, quello di una delle sorelle. Il filo conduttore è, oltre al nome Juliette, che appartiene a due figure centrali della storia, la morte. E qui arriva il primo punto che mi ha fatto stonare la narrazione: il collegamento tra le due parti. E' stato così netto, il cambio di ambientazione e di protagonisti, che ho faticato molto a riaccomodarmi nella storia, a sentirmici comoda. Cribbio, avevo appena imparato i nomi dei personaggi! In aggiunta a questo, non me ne voglia chiunque studi giurisprudenza, ho trovato molto noiosa la storia di Etienne.
Quindi, insomma, le tre stelline sono a causa del mio gusto un po' picky. Anzi, se avete amato Yoga, sono sicura che questo libri non vi deluderà.