Ci sono cose che non si raccontano perché le parole sono scogli nel mare. Ci sono cose che non si raccontano per vergogna, rabbia, troppo dolore, e perché se non le racconti, in fondo puoi sempre credere che non siano successe. Antonella e Andrea vogliono un figlio: adesso lo vogliono proprio, lo vogliono assolutamente. Ma è come se non ci fosse niente di semplice, nel desiderio piú naturale del mondo: tutto ciò che può andare storto andrà storto, anche l'inimmaginabile.
Antonella Lattanzi ha trovato parole esatte per questa storia, che è sua e di tutte le donne - ambiziose, indecise, testarde, libere di scegliere. Un libro emozionante, che non si riesce a smettere di leggere, straordinariamente contemporaneo.
«Questo libro mi ha toccato nel profondo. La letteratura è un'arte magica, e Antonella Lattanzi ha scritto un romanzo che è una benedizione, una maledizione, una catarsi». Nicola Lagioia
Non è mai il momento giusto per fare un figlio. Prima vogliamo vivere, viaggiare, lavorare. Antonella vuole diventare una scrittrice: la sua è un'ambizione assoluta, senza scampo. Per questo a vent'anni, per due volte, interrompe volontariamente la gravidanza. Quando anni dopo si sente invece pronta, con un compagno a fianco, è il suo fisico a non esserlo. E cosí inizia l'iter brutale dell'ostinazione, dell'ossessione, della medicalizzazione. Certi supplizi, le aspirazioni inconfessate, la felicità effimera e spavalda, la sofferenza e la collera. Si direbbe una storia già scritta, ma qui non c'è nulla di consueto: è come raccontare da dentro una valanga, con la capacità incredibile, rotolando, di guardarsi e non crederci, e sfidarsi, condannarsi, sorridersi per farsi coraggio. In un crescendo di indicibile potenza narrativa, Antonella Lattanzi descrive (sulla sua pelle) la forza inesorabile di un desiderio che non si ferma davanti a niente, ma anche i sensi di colpa, l'insensibilità di alcuni medici, l'amicizia che sa sostenere i silenzi e le confidenze piú atroci, il rapporto di coppia sempre sul punto di andare in frantumi, la rabbia ferocissima verso il mondo (e le donne incinte). Tenendo il lettore stretto accanto a sé, incollato alla pagina, con un uso magistrale del montaggio, capace di creare una suspense da thriller. La cosa strabiliante è che pur raccontando una storia eccezionale, e cruda, questo romanzo riesce in realtà a parlare in modo vero, e profondamente attuale, di tutte le donne - madri e non madri - che in un punto diverso della loro vita si sono chieste: desidero un figlio? qual è il momento giusto? dovrò rinunciare a me stessa, alle mie ambizioni? e perché tutte restano incinte e io no?
«Ho una diga nella testa dove stanno nascoste tutte le cose che fanno davvero troppo male. Quelle cose, io non voglio dirle a nessuno. Io non voglio pensarle, quelle cose. Io voglio che non siano mai esistite. E se non le dico non esistono».
Quando finisci un libro in un giorno c’è sempre una ragione. La mia è che Antonella Lattanzi scrive in maniera coinvolgente, spiazzante, atroce, sincera.
Gli invidiosi diranno “pornografia del dolore”.
Altri, invece, sapranno fermarsi a “dolore” e basta.
Pagina dopo pagina, pugno su una guancia e pure l’altra: è così questo romanzo autobiografico di Lattanzi. L’ho letto oggi, che ho 43 anni, in una vita in cui per un po’ ho voluto figli che non sono arrivati: questo libro mi ha messo di fronte a tutti i conti che come mancata madre ho fatto nella mia vita. Anche i più brutti, i più meschini. L’ambizione, l’età, la mancanza. Cosa ci tiene in vita, cosa ci fa ridere mentre dentro moriamo. Le amiche potenti, la sorellanza. Le donne, prima ancora che le madri. Quanto dolore per quello che l’autrice ha attraversato: “proverai rabbia”, mi avevano detto. Ma quando mai noi donne non la proviamo, quando mai possiamo farne a meno.
Emozionante, intenso, distruttivo. Un romanzo destabilizzante, che spiazza e lascia senza fiato il lettore. E' un racconto intimo, privato e autobiografico dell'autrice che, con sofferenza e forza, rende il lettore partecipe del suo dolore. Lei, Antonella, e Lui, Andrea, vogliono un figlio e questo desiderio li spinge, dopo vari tentativi, a ricorrere alla Pma. Tuttavia, la sfortuna, il caso o che altro, si accaniscono contro di loro, contro Antonella, facendole avere una gravidanza fin da subito problematica che, purtroppo, si concluderà con un raschiamento e con conseguenze fisiche e psicologiche piuttosto importanti. In queste pagine emerge il dolore dell'autrice e la sua forza, il suo desiderio di dare voce a un male tanto grande privo di parole adatte a raccontarlo. E' un insieme di pensieri e di ricordi dolorosi, di sofferenza e di sogni; di speranze e di disillusioni, di voglia di 'normalità' e di continui scontri con la realtà. E' una storia tremenda che, oltre ad avere tutti i caratteri del dramma e della disperazione, si colloca in un contesto storico altrettanto allucinante, con una pandemia che stravolge le esistenze, che ostacola il difficile viaggio dell'autrice e che ne rende più complicata la sopportazione. E' un libro in cui il desiderio di diventare madre e di essere, al contempo, una donna in carriera, amante del proprio lavoro e dei propri sogni di scrittrice, rendono queste pagine davvero preziose ed emozionanti. Date un premio a questa donna, non tanto per lo splendido stile narrativo e per la commovente trama del libro in questione, ma per il suo essere donna in quanto tale. Per la tenacia e per la resilienza che ha dimostrato scrivendo queste pagine. Per la sua forza interiore, che non dipende da nessuno, ma che le permette di resistere agli urti infimi che la vita le ha riservato.
Disclaimer: prosegue la lettura random #CacciaalleStreghe, ovvero di titoli che ispirano presi dalla 82ina (sic) dei candidati alla longlist del Premio Strega, lodevole iniziativa di Krodì*, senza la quale non avrei motivo, se non il ricatto, di leggere dei potenziali ombelical-italici. Ogni tanto va male (vedi Rossari e Giartosio) o malissimo (Lattanzi), ogni tanto va bene (vedi Ricci, Di Paolo, Mira), purtroppo solo raramente va moltissimo benissimo (Bravi). *quest’anno K può essere veramente fiero della sua iniziativa, ne ho letti ben 7, mi manca ancora Trellini e forse tenterò anche la vincitrice in pectore ma solo se esce in audiolibro 😊
Quello che non si può dire di questo libro è che è penoso, non per l’argomento trattato* ma per la totale globale assoluta mancanza di senso letterario. Scambia il flusso di coscienza con il flusso continuo e inconsulto di fluidi corporei di varia natura, scagliati reiteratamente contro il lettore (che potrebbe difendersi chiudendo il libro e spegnendo l’audiobook** nel mio caso) e contro tutti quelli che la circondano. A cui non risparmia critiche di ogni tipo, assolvendo sé stessa da una miriade di comportamenti illogici insensati egoistici grazie a due assunti: sono una scrittrice*** ma**** voglio anche essere una madre. Quindi, se lo prendo come un memoir autobiografico necessario a farti tornare le mestruazioni (lo dice lei due volte) ed elaborare il lutto, concedendo quindi una quota di benevolenza perché “non è un libro”, beh, fanciulla, cresci e smetti di pensare che per essere “quella originale” basti disattendere tutti le indicazioni covid, bere e fumare in gravidanza, e rimetti il manoscritto nel cassetto (spoiler: presumo che tua madre ormai lo abbia saputo che le hai tenuto nascosto le gravidanze). Se invece lo prendo come autofiction, …. no, non lo prendo, lo butto.
*i tentativi reiterati e fallimentari della protagonista di avere un figlio, ponendosi lei-contro-tutti e – a me sembra – anche contro la propria volontà. **l’ho ascoltato in audiobook, e la voce querula e lagnosa della lettrice era perfetta per rappresentare la scrittura insulsa e lamentosa dell’autrice. Peccato che l’abbinata fosse superiore alle mie forze, fino a quando non ho scoperto che potevo velocizzare a 1,4 migliorando l’ascolto e risparmiando un buon 20% di tempo. ***ho scoperto che ha scritto un mucchio di libri, che non intendo assolutamente leggere forte del potere del pregiudizio “se tanto mi dà tanto”. **°mi risuona ancora nelle orecchie il suo “ma io sono una scrittrice” tipo gesso sulla lavagna ****la Lattanzi oppone in continuazione le due cose, peraltro in modo insensato. Cioè, non è una operaia/commessa/altro costretta a 8 ore di lavoro in ambienti più o meno salubri con più o meno tutele. Fa un lavoro che si può espletare comodamente in smart working, gestendosi i tempi. E invece ogni tre pagine c’è una lagna infinita “oddiocomefaròafarelepresentazioni”, “maiosonounascrittrice**° di cui non si capisce la ragione. Certo, l’Italia non è un posto per madri-lavoratrici, la società non è strutturata per farti vivere la maternità in modo “normale”, i posti di lavoro non hanno come priorità la propagazione della specie, gli orari di qualsiasi cosa non giocano a favore delle genitrici, e se non hai una combo nonne-babysitter-soldiinabbondanza (+partner cooperante), puoi serenamente mettere in conto che i primi anni saranno a) complicati, b) punitivi per la carriera/lavoro in generale. Qualsiasi cosa le supermamme possano dire (stile quelle che “io lo allattavo alla scrivania” sai che gioia per il pargolo), evitando di citare di avere usufruito della sopradetta combo. Però, visto che la specie continua a riprodursi, evidentemente le madri hanno messo in atto correttivi di varia natura per farcela.
Nota: comprendo perfettamente il tema della ricerca della maternità (mi verrebbe da aggiungere “a ogni costo”, ma so che suona come un giudizio di valore anche se è una descrizione oggettiva), e il dolore emotivo, sociale e culturale che può arrivare a sconquassare le persone e le coppie, annullando qualsiasi razionalità e, a volte, anche qualsiasi umanità. Pertanto il mio commento è relativo esclusivamente a “quello che c’è scritto” e che la Lattanzi ha deciso di pubblicare, esponendolo così al giudizio dei lettori.
Aspetto che qualcuno mi dica cosa ne devo pensare, perché io non lo so. Mi è piaciuto? No. E ti credo, sfido chiunque a dire che abbia letto questo libro volentieri. Ho letto tutto della Lattanzi e ho preso questo a scatola chiusa, nemmeno sapevo di cosa parlasse. Purtroppo l'ho capito al volo.Avevo già parlato dell'esposizione al dolore nel libro di Matteo B. Bianchi, qui diciamo che centomila volte tanto. Il concetto dell'autofiction portato fino all'esposizione dell'ultimo grumo di sangue.
Io non so davvero cosa dirne e non ho nemmeno tanta voglia di parlarne, però aspetto voi.
E' senza senso tutto questo dolore, un libro fatto di solo e puro dolore, non sei una mia amica mia sorella che sta male, stai pubblicando un libro, destinato anche a me sconosciuta non amica non sorella e allora perché mi devi raccontare questa cosa in questo modo con tutto questo dolore spiattellato così, senza un'elaborazione senza trovargli un senso, senza niente, dolore in purezza e basta.
Un giorno questo dolore ti sarà completamente inutile (dal punto di vista narrativo, almeno)
(2 stelle, e non 1 sola, perché queste cose che non si raccontano sono comunque raccontate bene)
Non metto stelline alle storie vere, piene di dolore, per rispetto. Riuscire a scrivere quello che si prova o che si è provato, usare le parole anche per raccontare le cose che non si raccontano è un grande dono.
Non mi è piaciuto molto. Il tema mi è caro, perché capisco il desiderio di maternità unito alla paura che il tempo scada, e mi ritengo anche una persona molto testarda, però quando vedo un tale accanimento (quello dell'autrice sfocia addirittura nell'odio verso altre donne incinte e bambini vivi), comincio a provare antipatia. Soprattutto se all'accanimento si accosta la totale mancanza di rispetto verso le regole, sia quelle dei dottori, del tipo "non fumare/bere/mangiare certi cibi in gravidanza", sia quelle imposte dal governo in pandemia. Lattanzi racconta con sprezzo di aver incontrato amici quando era proibito farlo, di aver fumato una sigaretta dietro l'altra, e okay, sicuramente non ha perso le bambine per questo, ma mi viene spontaneo chiedermi: se la gravidanza fosse andata a buon fine, che tipo di educazione avrebbe impartito una donna così alle sue figlie? So che non è questo il tema del libro, ma io guardo con preoccupazione il crescente degrado morale che vedo in giro, e mi chiedo sempre a cosa sia dovuta tanta maleducazione... perciò ovviamente sono dispiaciuta per Lattanzi, per tutto quello che ha dovuto affrontare (e che, dopo il suo racconto, mi rifiuterei di affrontare se anche io non dovessi a restare incinta naturalmente), però credo fermamente che non sia lecito contravvenire alle regole e aspettarsi di essere compresi, perdonati o tollerati soltanto perché stiamo affrontando una brutta situazione. Probabilmente, essendo un'autrice affermata, ha l'ego leggermente smisurato; basta pensare a come, a sua detta, ha mandato a quel paese il cameriere (o era un infermiere? ora non ricordo...) che chiacchierava con suo marito, solo perché lei non aveva voglia di sentire discorsi. Che è una "diva" lo si nota anche dalla sua meraviglia sull'incompetenza del personale in ospedale... una realtà che qualunque persona comune purtroppo conosce molto bene (nondimeno lei ha fatto benissimo a parlarne, perché non se ne parla mai abbastanza di questo fatto increscioso). Mi hanno molto colpita le sue reiterate affermazioni sul lavoro, sul non voler dire al suo editore di essere incinta e di stare male, sui suoi ricorrenti incubi... il tema della tensione della madre in carriera emerge fortissimo in questo libro, ed è una buona cosa. Però mi perplime come il suo senso materno oscilli davanti alla paura di rovinarsi la carriera avendo dei figli. Moltissime donne che fanno lavori su turni sono ben liete di chiedere il part time per poter passare più tempo coi propri, lei che invece ha un lavoro che può benissimo svolgere da casa od ovunque e in qualsiasi momento voglia... di che cosa ha paura di preciso? Non l'ho capito proprio, non è una provocazione. I libri li puoi scrivere da casa... semmai sono gli eventi e le presentazioni a creare un problema, ma io al suo posto vedrei appunto gli eventi come un problema, non i figli... Boh, sarò sincera, non mi è sembrata una vera necessità istintiva di voler diventare mamma, ma più un (prendete la parola le pinze) capriccio perché poi sarà troppo tardi. Ovviamente ognuno fa le sue scelte e non deve giustificarne i motivi, però intestardirsi così secondo me non porta mai a nulla di buono, in primo luogo per lei stessa: afferma (di nuovo con sprezzo) di non voler andare da uno psicologo, nonostante tutti glielo consiglino (e come sarebbe anche lecito, avendo subito un'esperienza così terrificante), eppure la sua nevrosi emerge da ogni pagina. È una donna oggettivamente stremata, la cui testardaggine non farà per sempre da leva per tenerla in piedi... io glielo auguro, ma secondo me qualsiasi essere umano crollerebbe al suo posto, non ci sarebbe alcuna vergogna. Il suo senso di onnipotenza mi ha davvero messa a disagio, mentre leggevo. Questo libro, più che una terapia, mi pare un inconscio grido di aiuto. Anche il continuo ripetere "non ho detto nulla a mia madre e mio padre/ mio marito non scoprirà mai questa cosa/ etc."... ma lo sa che questo libro è stato pubblicato e che chiunque può leggerlo? No, non mi è piaciuto. Sapevo che sarebbe stato doloroso e fastidioso per il tema delicato che affronta, ma non sono riuscita a empatizzare con lei, malgrado io stessa voglia dei figli. Spero che le vada tutto bene per la sua serenità e la sua salute mentale, e che impari ad accettare le sconfitte, nel caso non riuscisse nei suoi tentativi artificiali... io prima di arrivare a tanto strazio, considererei l'adozione, ma capisco che non sia per tutti. Mi è piaciuta molto la sua scrittura, credo che leggerò i suoi romanzi.
Ci sono cose che non si raccontano, perché troppo intime, troppo dolorose, troppo legate ai nostri desideri più profondi.
Ci sono cose che non si raccontano agli estranei perché non sappiamo cosa possano farci con quel magma a cui a fatica noi riusciamo a metterci mano. Un po’ come quando si va al mare e all’improvviso con uno dei due piedi si incappa in uno scoglio e ci si taglia e sgorga il sangue. E a nulla vale lo stare in mare, perché fa solo male, fa maledettamente male.
Ci sono cose che non si raccontano perché prima erano vive e poi sono diventate morte, come quelle piante verdi (come il colore della speranza) che piano piano avvizziscono e insecchiscono e diventano nere (come il colore del lutto).
Antonella Lattanzi mette a nudo il suo desiderio di diventare madre, il suo calvario tra un ospedale e un altro.
La scrittura aiuta ad avviare il processo di elaborazione del lutto. Ma non basta. Serve altro. Servono degli specialisti che aiutino a metterci mano in tutto quel dolore, perché faccia meno male. Altrimenti si resta avvitati in quel “non sarà mai”, senza fine.
“«Anche se sono morte, le tue tre bambine sono sempre con te». Non mi avrete mai. Non dirò mai e non penserò mai «loro cinque sono sempre con me». Perché non ci sono.”
Nota a margine: tra 3 e 4 stelle. Perché c’è stato qualcosa nella scelta del registro linguistico che mi ha disturbata.
Non ho mai trovato tanta verità in un libro. Non sono una che generalizza. Ma in questo caso le parole di Antonella Lattanzi, si. Parlano proprio a TUTTE le donne. Quelle che sono madri, che vogliono diventarlo, che non lo saranno per scelta o per caso. È un libro importante e necessario, che andava scritto e VA LETTO. Non oso immaginare il coraggio che c’è voluto per scriverlo. Questo libro aiuterà tante, tantissime persone. Grazie di averci raccontato queste cose che di solito non si raccontano mai.
21 luglio 2010. Perdo un bambino desiderato a lungo, inseguito, voluto, propiziato in ogni modo possibile. Già dire "perdo" e rimangiarmi subito la parola mi fa male, è odioso questo modo di dire, con cui si definisce comunemente l'aborto. Io non l'ho perso raggiodisole, è la natura che ha deciso per me. Io ho fatto ciò che potevo ma non è stato abbastanza. Taccio il trattamento che ho subito in ospedale, il ricovero nel reparto maternità, comportamenti al limite della violenza ostetrica, mi è stato detto che "aver forzato la natura" aveva provocato quello che è successso. Era colpa mia in pratica. E non era nemmeno un ospedale cattolico. In sala operatoria mi persero una pantofola. Quando lo dissi alle infermiere, che non sapevo come scendere dal letto e andare dal medico con una sola pantofola si misero a ridere "che vuoi che usciamo a comprartele?" E ridevano ridevano. Non me lo potrò mai dimenticare.
22 febbraio 2011 Ho trasferito due embrioni, allora si faceva. Pure congelati. Scopro qualche settimana dopo che io sono il caso raro. Uno dei due si sdoppia e divento la gravidanza che nessuno si sente di seguire, la paziente difficile. Mi propongono la riduzione ma rifiuto. Dopo due mesi i due ribelli, quelli identici, i figli dello sdoppiamento decidono di lasciare posto al fratello. E dopo il delirio nasce mio figlio.
Come vedi Antonella io e te abbiamo molto in comune, questo affanno, questa paura, questo dolore. Ho fatto la scelta (ma è la mia non un paradigma) di parlarne sempre e comunque, con gli amici e i familiari, creando un'associazione, ma la realtà è che quella degenza tra le mamme e i palloncini mentre io tornavo vuota, il risentimento, il senso di ingiustizia sono cose che scavano dentro e non si riesce a raccontarle per il semplice fatto che sono indescrivibili. Impossibili. Brutte e scomode di una scomodità in cui ti rotoli quasi masochista. Brutte e antipatiche ma umane e insopprimibili
Ho letto questo libro con le lenti che la mia storia mi ha messo sugli occhi, non poteva essere una lettura asettica e imparziale, questa storia mi è cara e dolorosa, non so dirlo diversamente. Ho sottolineato decine di passi sul mio kobo, ho chiuso per troppa emozione, ho riaperto per ritrovarti e ritrovarmi.
Volevo scriverti che spero che la tua ricerca arrivi prima o poi dove deve arrivare ma mi sembra tutto così scioccamente banale. Allora ti dico che spero che aver raccontato in fondo ti abbia dato quello che ti serviva. Scegli tu cosa. E che lo stia dando a chi ti legge.
“Quello che diventi, certamente, lo scegli tu. Quello che ti accade, spesso no”
Ci sono cose che non si raccontano, e altre che, per raccontarle, richiedono tutto il coraggio che una persona possa avere.
Antonella Lattanzi dipinge un quadro che è un grido di dolore, un dipinto che altro non è che tutte le possibili sfumature di rosso.
È il rosso del sangue, quello perso nelle innumerevoli maternità mancate, quello marcio della tristezza, delle false speranze, del dolore.
Viene da chiedersi se la donna in copertina sia davvero immersa nell’acqua. Se non sia anch’esso sangue. Rabbrividisco al solo pensiero.
Ci sono cose che non si raccontano, dunque, e poi c'è il dolore. Il dolore di Antonella e di tutte quelle madri private della gioia di essere madri. Straziate nell'animo e nel corpo, eppure, incredibilmente, padroni di una dignità infinita.
Questo dolore, per chi ci riesce, va raccontato.
Se poi lo si racconta come lo racconta Lattanzi, diventa un insegnamento di vita, il racconto crudo e senza sconti di una condizione che colpisce, nel silenzio, migliaia di donne.
Ci sono cose che non si raccontano. E poi ci sono libri, come questo, a cui non si possono dare voti.
Però ti dico grazie, Antonella. Grazie di aver sciolto il tabù e di trovato il coraggio di raccontarci proprio queste cose che non si raccontano.
Questo è un libro doloroso. È un libro che nel dolore e nella sofferenza che quello che l’autrice, e il compagno, hanno provato, riuscirà a fare del bene a tante donne e anche a tanti uomini. È un racconto intimo, straziante, emozionante che l’autrice ha deciso di condividere con il mondo. Perché secondo me è vero che si scrive per gli altri, per essere letti, ma si scrive anche per sé stessi, perché ci sono storie, ci sono perdite, che sentiamo il bisogno di esternare, di buttare fuori, di condividere. Questo ci permette di sentirci un filo più leggeri. Forse. Si spera. E questo permette anche a chi legge, e che ha passato (o sta passando) lo stesso dolore, di sentirsi meno soli, di sentirsi capiti, di piangere dalla disperazione arrotolati su sé stessi, finché di lacrime non ne escono più. Antonella Lattanzi ha scritto cose che di solito non si raccontano perché si sta troppo male, perché si è troppo arrabbiati, perché si prova troppa vergogna, perché i sensi di colpa non fanno respirare e sembra di annegare e chissà quanti altri motivi ancora ci sono per cui si sceglie di tacere e non di raccontarle, queste cose qui, questo dolore. Ma lei le ha raccontate. Le ha raccontate.
Adoro il modo di scrivere di Antonella Lattanzi ed è per questo che ho preso il libro alla cieca, senza nemmeno leggere la sinossi. Ho fatto male. Lo confermo, scrive benissimo, ma non avrei voluto leggere del suo dolore, forse non avrei voluto leggere del dolore di nessuno che ha subito un dolore così devastante. Ho provato tenerezza, avrei voluto abbracciare quella scrittrice così forte, così grintosa e se penso che le ho pure scritto nel 2021 dopo aver letto Questo giorno che incombe, proprio mentre lei affrontava questo momento di totale sconforto, da sola. Quel suo taglio maturo, risoluto, autoironico ne fanno una persona straordinaria, una ballerina che sceglie sempre di rialzarsi sulle sue gambe ed io credo che sia questo il lieto fine che nessuno potrà mai strapparle via.
“Cose che non si raccontano” è un libro fastidioso sia nell’accezione negativa che quella positiva del termine. La storia personale di Lattanzi dà fastidio perché racconta davvero una parte di cose che non si raccontano di solito nei libri, sopratutto in Italia. Dall’altra parte, invece, è proprio Lattanzi personaggia a darmi fastidio: più volte afferma di aver non rispettato le direttive di distanziamento o le varie zone durante la pandemia. Queste affermazioni mi hanno dato fastidio perché magari anch’io avrei voluto vedere le persone a me care, ma ho rispettato tutte le regole, mentre Lattanzi, per fare aperitivi e festicciole in case di amici, se ne frega.
Ancora non sono convinto dello stile di Lattanzi, ma sicuramente è meglio rispetto alla sua opera precedente.
Recensione che non si racconta (per rispetto del dolore)
Con questo libro finisco la lettura dei dodici libri da cui uscirà la cinquina finalista al premio Strega. Lettura che ho compiuto in qualità di partecipante al gruppo di lettura di una delle Biblioteche di Roma che manderà il proprio giudizio sulla dozzina. Nel complesso i 12 libri formano un insieme modesto che mostra una Letteratura Italiana decisamente sotto tono. Alcuni di questi dodici libri sono francamente brutti. Non una sorpresa, naturalmente. Non so se ripeterò l'esperienza nel caso si ripresentasse l'occasione.
che mai potrei dire di questo libro… ne consiglio la lettura a tutte le donne, in particolare a quelle che sanno cos’è la sofferenza, perché non importa se non avete provato lo stesso tipo di sofferenza qui raccontata, il dolore è una lingua universale, una volta provato sulla propria pelle lo si può sempre comprendere indipendentemente dalla causa scatenante.
Chi vive sperando, muore cantando . Antonella, vorrei tanto abbracciarti forte dopo aver letto il tuo libro. Quanta sofferenza in queste pagine, quanta assurda speranza, quanta felicità e quanto risentimento. Pagine ricche di umanità pura, del timore di diventare madri ed esser per sempre riconosciute solo come tali. Non è possibile giudicare una storia così intima e tragica, ma è invece doveroso render merito al tentativo di Lattanzi di scrivere per guarire le ferite della sua anima.
«Ci hanno detto che erano tre bambine il giorno prima che morissero. Come sei esagerata, vita. Quanto male eclatante, enfatico, vuoi fare. Non mi piace la scrittura enfatica. E non mi piaci tu. Perché non hai fatto tutto quello che dovevi con frasi brevi, senza aggettivi, senza piagnistei, senza sentimentalismi? Perché, vita, non sei stata una brava scrittrice?».
4,5⭐️ È un libro che nessuno vorrebbe leggere, una storia davvero che non si vorrebbe mai raccontare. Mi dispiace per quello che ha dovuto passare Antonella. Il diritto di essere genitori lo devono avere tutti, ma non provando tutte queste sofferenze. Ho scritto una citazione, come faccio sempre, presa dal libro ma ora aggiungo anche questa che mi ha spiazzato:
«Ora il papà deve andar via, non può rimanere». Papà? E una vite spessa e arrugginita che ti trapassa il cer-vello. Papà, mamma. In questi luoghi continuano a darti del padre e della madre anche quando hai perso i tuoi figli, anche quando non lo sei piú. Gli infermieri, le ostetriche ti chiamano cosí di continuo. Ogni volta che ti chiamano cosí, tu invidi (odi) chiunque risponda di diritto a questo nome. E ti chiedi: ma com'è possibile che non vi rendiate conto di cosa state dicendo?
Sapevo la tematica delicata di questo libro e ne ho assorbito fino all’ultima pagina la disperazione della l’autrice. Premetto che ci sono cose che prima di poterle giudicare bisogna viverle in prima persona, tuttavia non ho apprezzato per niente il sentimento di odio o addirittura il desiderio - figurato ma comunque messo nero su bianco - di morte verso donne incinte/con neonati. Non solo, si augura segretamente anche che muoia non solo una ma bensì 2 su 3 delle tre gemelle che aspetta e che per altro è andata lei cercando con la fecondazione.
Questo mi ha creato un’immediata antipatia nei confronti della Lattanzi che si è confermata anche nel poco rispetto delle regole in tempo Covid e del menefreghismo delle più basilari regole della gravidanza: non bere/fumare, mangiare pesce crudo.
Ho trovato il suo desiderio di gravidanza quasi un capriccio che sfocia in accanimento. Il suo egocentrismo mi ha dato la nausea.
Ci sono tante strade per essere madre come, per esempio, l’adozione. Ma questo è un mio personalissimo giudizio.
Per me è un no e non leggeró nient’altro di suo. Adieu
Un relato devastador, como mujer, madre, no quiero imaginarme el calvario padecido. No sé si a la autora al escribir sobre el pasado le llegó a sanar, pero sí creo que ayudará a otras muchas mujeres que estén viviendo lo mismo, para comprender que lo que sienten y piensan no es porque sean monstruos insensibles, como muchas veces se ve Daniella así misma al confesar sus pensamientos más íntimos, son miedos que se apoderan. ¿Qué se puede hacer cuando la realidad duele demasiado? Quiero poneros un poco en antecedentes, sin mucho entrar en detalles. Con diecisiete años se queda embarazada y aborta, con veinte años le sucede los mismo y aborta, no prejuzguéis, sí, hay métodos, hay, hay, hay… Cuando conoce a Andrea con treinta y muchos, desea formar una familia, pero no logra quedarse embarazada y empieza el discurso demoledor, «Me lo había merecido». Se machaca y maltrata, un constante mensaje negativo que me destroza como lectora, Antonella no es culpa tuya, le digo mientras avanzó en la lectura, es tan injusto decir que la decisión que tomó, ahora la vida te pasa factura, es injusto que tú cargues sola con esa voz. Todo discurso negativo que nos infringimos viene de nuestro pasado, de algo que nos hizo sufrir, no creo que tomar esas dos decisiones fuera nada sencillo, dolió, quizá nadie entendió tu decisión, nadie te apoyó, todos te cuestionaron, y aquí nace esa memoria que nos convierte en víctimas de este presente. La memoria del sufrimiento. «Me da miedo que, si le pido, aunque sea un mínimo esfuerzo…», habla de su pareja Andrea, ¿por qué le da miedo? Es una situación nueva, hasta ahora ha respondido, ¿por qué? ¿De dónde viene realmente ese miedo? Es un escribir mis impresiones sin saber, pero quizá aquellas dos veces pidió ayuda y se enfrentó a la realidad, la que estaba embarazada era ella, la de los cambios y sacrificios era ella, la que debía tomar la decisión era ella, sola. Miedo. Tengo decenas de frases apuntadas. No es fácil esta lectura. Lo único que no me ha gustado del todo, y nada tiene que ver con lo que se narra, sino con la estructura, me hubiera gustado más orden cronológico, sé que la memoria es caprichosa y los recuerdos no se almacenan por un orden estricto, ni nos asaltan respetando el tiempo.
La sofferenza (vera) raccontata in queste pagine mi ha davvero fatto stare male, costringendomi a volte a interrompere la lettura. Una maternità rifiutata, poi anelata, cercata, persa e ritrovata per vederla scivolare via ancora e ancora. Ma non aspettatevi una voce narrante accorata, che affoga nel suo dolore. Quella di Lattanzi è una penna durissima, chirurgica, quasi diaristica e forse proprio per questo è riuscita a penetrare nella mia pelle in questo modo. Spesso il racconto si fa scomodo, pruriginoso, fino a diventare cattivo e capisco chi lo ha definito "troppo". Non c'è mai della facile retorica, solo tanta verità e un nitido urlo di dolore.
Sarà che sono in un'età in cui questa tematica non mi è affatto indifferente, ma sono arrivata alla fine col cuore pesante e il fiato corto e con l'unico desiderio di augurare ad Antonella, Toni, come impareremo anche noi a chiamarla, di avere ciò che la farà stare bene.
Certe cose si fa fatica a raccontarle, forse non si raccontano affatto, ma quando si decide di farlo non si può restare indifferenti. Almeno io non ci sono riuscita.
"Non credevo di essere una persona che non racconta niente di sé. Non ho mai creduto di esserlo. Adesso so che lo sono. Che ho una diga nella testa dove stanno nascoste tutte le cose che fanno davvero troppo male. Quelle cose io non voglio dirle a nessuno. Io non voglio pensarle, quelle cose. Io voglio che non siano mai esistite. E se non le dico non esistono".
Credo, anzi sono piuttosto sicura, che questo sia uno dei libri più dolorosi che io abbia mai letto. Nonostante la tematica sia al momento molto distante da me, ho sentito la storia della donna protagonista sulla pelle, mi ha perforato: ho sofferto con lei, ho gioito con lei, ho provato speranza, rabbia, rassegnazione e poi di nuovo speranza e poi paura, dolore... sono davvero tante le emozioni che vengono affrontate e che questo libro fa provare sulla propria pelle. Penso che il bello dei libri sia la loro capacità di farti vivere mille vite diverse dalla tua, ma io in questa storia ho trovato così tanto dolore che sono rimasta con le spalle al muro, con le lacrime che colano - davvero, non solo in senso figurato - e mi chiedo come sia possibile sopportare tutto questo dolore per una sola persona, mi chiedo come faccia la vita a essere così ingiusta. Mi ha fatta arrabbiare soprattutto leggere come il pensiero costante della protagonista sia quello di conciliare lavoro e maternità: tiene tutto per sé per paura che il suo romanzo sia un fiasco, che le presentazioni saltino, e io avrei solo voluto rivolgermi a lei e dirle "Toni, respira, il tuo romanzo non scappa, ti aspetta, pensa a stare bene tu prima", senza esserne troppo convinta io per prima però, e questo fa davvero schifo.
Ho una diga nella testa dove stanno nascoste tutte le cose che fanno davvero troppo male. Quelle cose, io non voglio dirle a nessuno. Io non voglio pensarle, quelle cose. Io voglio che non siano mai esistite. E se non le dico non esistono.
Perché le parole sono scogli nel mare.
Ė un libro autobiografico che parla di aborto, di voglia di maternità, di un forte dolore intimo e nascosto, di vita e di morte ma anche di sopravvivenza, dove la scrittrice trova nella scrittura un motivo di gioia, dopotutto.
Ci sono cose che non si raccontano perché le parole sono scogli nel mare. Ci sono cose che non si raccontano per vergogna, rabbia, troppo dolore, e perché se non le racconti in fondo puoi sempre credere che non siano successe.
È brutale perché è autobiografico. È sconvolgente perché è fottutamente ingiusto. È straziante perché una persona non dovrebbe mai trovarsi a fare determinate scelte. È tremendo perché il dolore dovrebbe avere un limite. È duro perché pone domande alle quali non c'è risposta.
Un libro che parla di cose che non si raccontano e di cose che nessuno dovrebbe vivere.
Una voce intima e sincera, che toglie il respiro, che si legge in apnea.
Un romanzo folgorante, graffiante e incisivo. La scrittura è tagliente come un bisturi. Affilata entra e affonda nel lettore entrando nel profondo dell'anima.
Questa lettura è un viaggio esplorativo nel mondo della maternità e dell'amore.
Un monologo struggente che arriva dritto al cuore rompendolo a brandelli, squartandolo.
È vero che provoca un dolore lancinante, ma cos'è in confronto a quello che ha subito Antonella ? Il lettore inerme si troverà a leggere di un dolore altrui senza poter fare nulla se non accettare e ascoltare quello che Antonella Lattanzi ha da raccontarci, da confidarci.
Un testo purtroppo molto attuale che affronta un problema sempre più diffuso: la ricerca disperata di una gravidanza, del bisogno di maternità, della fecondazione assistita con tutti i problemi annessi. È un libro pieno di rabbia, ma che nasconde al suo interno una forza inesauribile.
È un romanzo sull'amore e sul dolore, su sofferenze inimmaginabili, sulle scelte non sempre facili da compiere e sulla paura, tanta paura di tutto ciò che potrebbe accadere, di come potrebbe cambiare la tua vita ma sulla volontà di non arrendersi mai.
Ma l'amore viscerale per la scrittura è forse il letto in cui si adagia tutto, è la salvezza, è ciò che ha permesso ad Antonella di rialzarsi le tante volte in cui non aveva la forza e la volontà di farlo. Se la scrittura ha un potere salvifico Antonella ce lo ha dimostrato.
Un lettura che potrebbe toccare fortemente la sensibilità di chi ha dovuto subire un difficile percorso per diventare genitore.
Se sei un genitore, egoisticamente pensereai alla fortuna che hai avuto. • Se sei una persona che purtroppo per vari problemi non è potuta diventare genitore, ti ritroverai a vivere nuovamente un dolore. Per una volta ti consiglio di passare oltre. Hai già sofferto abbastanza, non leggere questo libro, oppure vestiti di armatura resistente. • Sono uscita da questo libro come uno zombi. Inebetita, tramontita. • Uno dei libri più letti quest'anno. Preparatevi a piangere. • Antonella ti abbraccio fortissimo ❤️.. . Sicuramente una lettura che proporrò nel prossimo sondaggio del mio gdl #libribelliedannati di giugno. . . . Sono tante e tantissime le domande che voi porvi riguardo ai temi trattati in questo libro, ma so già che entrerei in un campo minato. Quindi vi chiedo semplicemente ❓️Qual è il libro più crudo e doloroso letto ultimamente ? . . 📖 ᴄᴏsᴇ ᴄʜᴇ ɴᴏɴ sɪ ʀᴀᴄᴄᴏɴᴛᴀɴᴏ - 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒆𝒍𝒍𝒂 𝑳𝒂𝒕𝒕𝒂𝒏𝒛𝒊 pp. 216 | € 19,00 | edito da @einaudieditore | autrice @anto_lattanzi 5/5 ★★★★★