Ispirato ai ricordi familiari dell'autrice, il racconto della tragedia di un popolo "mite e fantasticante", gli armeni, e la struggente nostalgia per una terra e una felicità perdute. La masseria delle allodole è la casa, sulle colline dell'Anatolia, dove nel maggio 1915, all'inizio dello sterminio degli armeni da parte dei turchi, vengono trucidati i maschi della famiglia, adulti e bambini, e da dove comincia l'odissea delle donne, trascinate fino in Siria attraverso atroci marce forzate e campi di prigionia. In mezzo alla morte e alla disperazione, queste donne coraggiose, spinte da un inesauribile amore per la vita, riescono a tenere accesa la fiamma della speranza; e da Aleppo, tre bambine e un "maschietto-vestito-da-donna" salperanno per l'Italia...
“Come avviene una strage? Quale liquore diventa il sangue, come sale alla testa? Come si diventa assetati di sangue? Chi lo gusta, si dice, non lo dimentica”
Yerwant non sopporta la donna con cui suo padre si risposa. Chiede (ed ottiene), dunque, di andare lontano a studiare. La méta è Venezia e l’Italia diventerà la sua patria: ha tredici anni e non tornerà più in Turchia. Yerwant è il nonno di Antonia Arslan la quale, partendo da una fotografia, riannoda i fili di una storia famigliare sterminata per la colpa di essere armena. Conosciamo così lo zio Sempad (l’unico fratello uterino di Yerwant), la moglie Shushanig, i sette figli e poi nipoti, amici... La tranquilla vita quotidiana è pervasa da un ingenuo ottimismo che benda gli occhi armeni. Sono fiduciosi ed incapaci di estendere lo sguardo agli eventi della Storia. Mentre scoppia la prima Guerra Mondiale, infatti, Yerwant e Sempad hanno una fitta corrispondenza per organizzare il viaggio del primo al paese natale: l’appuntamento è alla masseria delle allodole, una casa di famiglia che si trova sulle colline. Intanto a Costantinopoli i militari armeni vengono disarmati e destituiti e a molti è ritirato il teskerè, il passaporto interno.
I passi che dal sussurro nazionalista passano all’azione sembrano essere ignorati. Non è sempre così? Non si pensa sempre: «Ma no! Non può succedere! Sarebbe assurdo!». E poi succede...
Magari è proprio quello a cui ieri hai offerto una pagnotta oppure fatto un favore personale: forse è proprio lui che ti tradirà!
Una storia vera e straziante che ho apprezzato molto più de “I quaranta giorni del Mussa Dagh” di Werfel. Meno epica e più pathos genuino,
Leggerò sicuramente il seguito ("La strada di Smirne")
” Nel concetto di modernizzazione è implicito l'assioma la Turchia ai turchi. Eliminare questi popoli inferiori, che cospirano sempre col nemico occidentale e hanno aiutato a fare in pezzi l'Impero. Fuori, fuori armeni, greci, assiri, siriani marmaglia. Ogni paese il suo popolo, come nelle guerre d'indipendenza europee. La Grecia è dei greci, perché la Turchia non dovrebbe essere solo dei turchi?”
Le pagine scivolano via con la stessa amara dolcezza con cui l'autrice racconta le tragiche memorie della sua famiglia. Un grande libro per non dimenticare una delle tante vergogne dell'umanità: il genocidio del popolo armeno. Ma anche il silenzio del mondo.
Perdonare forse sarà possibile, ma dimenticare? La famosa “comunità internazionale” ci si è messa di impegno a dimenticare, non parlare, non accennare, per non urtare gli alleati turchi, perfino Israele che dovrebbe avere almeno un moto di simpatia parla di “immane tragedia”, non di genocidio. Il 24 aprile 2015 ero in piazza Syntagma, ad Atene. Una mostra fotografica, crudissima, ricorda i 100 anni esatti dell’inizio dello sterminio, genocidio per essere esatti (anche se ai turchi e a Erdogan dà fastidio la parola), visto che si è trattato del tentativo di cancellare un popolo. Tentativo quasi riuscito, 1.200.000 armeni si sono dissolti in una serie di marce forzate verso il deserto. Pochissime voci si sono levate per condannarlo o anche solo per parlarne. Werfel nel 1939 scrisse I 40 giorni del Mussa Dagh, forse colpito dal parallelismo di quello che stava facendo Hitler (all’inizio in modo più dilettantesco rispetto ai turchi, che con poche forze ottennero quasi il 100% del risultato in soli due anni, due anni!). Gli armeni non hanno avuto alcun riconoscimento, non una Patria a cui tornare, non risarcimenti, non le scuse, non il cordoglio. Hanno dovuto aspettare 100 anni perché il Papa alzasse la voce (e sì che sono cristiani pure loro) e riconoscesse quel che era stato. Arslan ha il merito di scrivere un libro asciutto e non romanzato (e sì che con la materia che aveva per le mani ci poteva cavare un bel drammone da 700 pagine!). Narra la felicità e il dolore, intesse piccole storie alla grande Storia, senza farsi prevaricare da quest’ultima. Tiene dritta la stella polare della sua narrazione, portandola a compimento. Gli occhi sono asciutti, non cerca né le nostre lacrime né la nostra commozione. Perfino nelle scene più cruente e sanguinose è rispettosa, forse perché narra della sua famiglia, e questa storia ci ha messo quasi cento anni a essere scritta. Penna lieve, ma dritta al cuore.
This is the January selection for my in-person book club. We usually read something light over the holidays and this was the opposite.
I rushed to finish this book yesterday morning in anticipation of a podcast recording session and ultimately decided it wasn't quite good enough to feature. The topic of the book, a family and the devastating impacts of the Armenian genocide, is an important one. The writing of the book is a bit uneven, and I felt emotionally manipulated at times. I absolutely think we must read and know about the horrific events of the past, but there is something about the way they are written about in this book that were a bit agitating (again, I may end up deciding this is a good thing, but for right now I feel bothered.) I understand this to be the author's first novel and the only one of her works translated into English from the German. She wrote it after finding out that her family was forced from their home in 1915, and clearly she is also trying to pay homage to a lost homeland, family members she has never met, and the loss of what could have been.
What was interesting to me, and I take full responsibility for my ignorance on this, is that many of the Armenians were transported to Syria. Aleppo is specifically mentioned over and over, although there are indications that the family members some are fleeing to in Aleppo will also be forced out of that city (but this is not covered in the book.)
I do not know much about this historical event and really only became curious about it when two people teaching me Turkish wanted to tell me why there was not a genocide. I read Turkish literature for a year, and want to make sure I'm reading about the country that used to occupy many of the same lands.
Un romanzo che avvince e commuove, che inevitabilmente spinge a pensare alle innumerevoli stragi etniche che nel tempo hanno insanguinato tanti paesi del mondo cosiddetto civile. La narrazione scivola rapida e intensa, non indulge eccessivamente nell'orrore ma lo lascia immaginare al lettore, si accentua invece sui legami familiari, sulle vicende più intime della famiglia protagonista, sul carattere e la personalità dei personaggi chiave. Un libro che non si dimentica!
Da diverse settimane ho terminato di leggerlo, ma ancora mi risulta difficile esprimere un giudizio obiettivo su questo romanzo. Non perché, nell’insieme, non mi sia piaciuto, ma perché, forse, non riesco a distinguere il valore storico dalla qualità letteraria. Risulta senza alcun dubbio interessante, infatti, per aver diffuso (insieme al suggestivo film che ne è stato tratto dai fratelli Taviani) la notizia di un massacro pressoché sconosciuto, o nascosto: quello degli Armeni nel 1915, dalle chiare caratteristiche di genocidio. Posso aggiungere, inoltre, che è scritto senza retorica e senza indugiare nelle scene cruenti; che alcune parti, nella loro semplicità, sono discretamente rese. Eppure, a tratti, mi è apparso come un mero resoconto di fatti, o un elenco dettagliato di persone, sovrabbondante e inutile per l’evolversi della storia, e tanto meno della Storia; le vicende, a volte, faticavano a dipanarsi e la tensione non sempre teneva. Come se quella eco che Antonia Arslan bambina ancora aveva avvertito nei racconti del nonno, l’eco vivente di odori e sapori e dell’anima del paese, si fosse attutita e persa nei “rimbalzi” del tempo. Proprio come rischia, oggi, di perdersi la nostalgia per un paese che non esiste più e la memoria dell’intero popolo armeno. Nell’attribuzione delle stelline non ho tenuto conto, in realtà, della valenza storica, se questo è possibile. (25 ottobre 2013)
---- 18 novembre 2013 Oggi ho avuto la preziosa occasione di conoscere Antonia Arslan, venuta a presentare il suo ultimo libro Il calendario dell'Avvento presso una libreria della mia città. Presenza discreta e sensibile, ma forte e determinata a mantenere viva la memoria del genocidio armeno e dello spirito di un popolo. Archeologa di nascita culturale, sembra aver utilizzato il seme scientifico nelle ricerche storiche dei suoi studi e interessi successivi.
Devo essere sincera: non avevo particolari aspettative su questo libro, se non quella di apprendere qualcosa sulla storia del genocidio del popolo armeno, della quale sapevo pochissimo. In genere apprezzo molto i libri che, in forma romanzata, attraverso una testimonianza, mi danno modo di conoscere fatti storici o realtà sociali dalle quali sono lontana. Credo infatti che la lettura possa essere un ottimo canale per apprendere, per conoscere, per avvininarci là dove la nostra mente e il nostro spirito non possono o non sanno andare. Risultato? Un buon romanzetto, a tratti violento, a tratti malinconico, corredato da uno stile alquanto delicato, tipicamente "femminile". Molto ben delineati alcuni dei personaggi, componenti della famiglia della scrittrice, famiglia simbolo del popolo armeno appunto e della tregedia di cui è vittima. Insomma, una buona lettura. Ma non posso dire, ora, di saperne di più sul genocidio di questo popolo in termini generali: mi sarebbe piaciuto che l'autrice, oltre a narrare la violenza subìta dalla sua famiglia, avesse approfondito un briciolo lo sfondo storico-sociale del periodo e delineato le circostanza che hanno condotto alla catastrofe, insomma, che fosse riuscita a fondere un po' di più il genarale col personale. Tuttavia mi rendo conto che non sempre questa fusione è automatica e semplice, soprattutto in quei romanzi in cui l'autore tocca la sua sfera privata, familiare e quindi la componente personale viene incosciamente a prevalere su quella storica, esterna, "da contorno". In conclusione, comunque, una buona lettura.
Ci sono fatti, eventi nella storia dell'umanità che rimangono marginali nei libri di Storia. Spesso questo accade per le stragi, per i genocidi, per le deportazioni di popoli interi. Acquattati sotto traccia, come se, per la vergogna, cercassimo di parlarne poco, o nulla. Ma che questi si chiamino Sand Creek, Sant'Anna di Stazzema, Mi Lai, Srebrenica, poco cambia. Come avviene una strage? Quale liquore diventa il sangue, come sale alla testa? Come si diventa assetati di sangue? Chi lo gusta, si dice, non lo dimentica. Popoli interi deportati, cancellati, allontanati dalle loro case per sempre: “Nessuno sospetta che ci sia dell'altro, percepisce il gigantesco inganno, la trappola mortale, l'andare verso il nulla che sarà la vera meta del viaggio, nessuno sa che gli uomini sono già stati cancellati”. Ebrei, Nativi Americani, Palestinesi, Armeni, e chissà quanti altri ancora. “Il giorno più funesto per un paese è quello in cui, per sentirsi unito, sente il bisogno di eliminare una parte dei suoi cittadini inermi.” Che siano stati spinti ad andarsene con la forza delle armi o da quella della fame, dalla paura e dalla disperazione poco conta. E ancora una volta molti siamo a girare la faccia altrove per non vedere, come per le stragi che avvengono nel mare in cui noi ci bagniamo per trovare refrigerio alla calura estiva. E' strano: prima di questo libro sapevo poco o nulla degli Armeni, l'unico armeno di cui avevo una chiara conoscenza cantava disperato per la fine di un amore consumato a Venezia un anno prima. Di lui si diceva. “E' Armeno” come dire di una razza esotica in via di estinzione. Pochissimi del resto sanno che gli Armeni che la diaspora ha sparpagliato per il mondo sono più di 8 milioni, e la lingua armena negli Stati Uniti è più parlata di quella dei Navajo. Ora, grazie alla Arslan, capace di descrivere questa tristissima tragedia con accenti atratti lirici, so cosa è successo. Chissà perchè ne sapevo così poco: forse perchè la Storia la scrivono i vincitori. Ma, almeno, i romanzi li possono scrivere anche i vinti.
Antonia Arslan, prendendoci per mano, ci conduce lungo il percorso, la storia della sua famiglia. Una famiglia diversa da quelle che siamo abituati a conoscere, perché è la storia della sua famiglia armena e con essa del popolo armeno. Una storia che racconta il genocidio del popolo armeno, un popolo “mite e fantasticante”, un popolo che ha subìto soprusi e violenze. “La masseria delle allodole” è il resoconto degli uomini e dei bambini trucidati dai turchi, ma è anche la testimonianza e il coraggio delle straordinarie donne che hanno combattuto, lottato per onorare il popolo armeno e la propria famiglia.
“C’è un momento, nella vita di ogni donna armena, in cui la responsabilità della famiglia cade sulle sue spalle. Noi moriremmo, per evitare questo peso alle nostre perle, alle nostre rose di maggio: e infatti moriamo”.
Un romanzo che indigna, fa male per la crudeltà che gli armeni hanno dovuto subire e che spinge lettori come me a chiedersi perché genocidi come quello armeno siano passati sotto silenzio e non vengano ricordati. Nel mio piccolo, ringrazio Antonia Arslan per averci raccontato una fetta così importante del genocidio armeno, per non dimenticare e ricordare sempre la crudeltà umana e cosa comporta.
Una pagina tragica della storia, la strage degli armeni, consegnata alle pagine di un libro che purtroppo non mantiene le promesse iniziali. E' il racconto di dolore e deportazione, sofferenze e morti atroci, orrori indicibili che mettono a nudo l'incredibile crudeltà di cui gli uomini a volte sono capaci. Un popolo annientato, spogliato di tutto, sradicato per essere condotto con marce forzate verso morte sicura. Il merito del libro è la denuncia e il ricordo. Purtroppo, però, i personaggi non hanno lo spessore che dovrebbero avere, il racconto è frammentario. Sembra più la traccia di un romanzo, quasi una scaletta su cui poi lavorare per ricavarne la Storia della disperazione e del coraggio di donne che hanno lottato per sopravvivere, aggrappandosi a quel poco che sono riuscite a salvare nascondendo oro e ricordi nelle pieghe nascoste degli stracci che indossano.
Senza parole. Sono impressionata dalla brutalità degli orrori commessi dai carnefici e dalla poesia della narrazione. Sono rimasta col fiato sospeso di fronte alle crudeltà subite dai protagonisti, e non solo; ho sperato fino alla fine in una fuga, una redenzione; ho desiderato di aver frainteso, di aver letto male, ma invano. Ho letto e riletto le parti più terribili, perché commossa, speravo che cambiassero, che l’odio gratuito si fermasse, che l’avidita’ dei potenti fosse solo presunta.
Un libro necessario. Per prendere coscienza del genocidio degli Armeni, che la Turchia continua a negare. Quando pensiamo al male puro ci vengono in mente solo Hitler, gli Ebrei, le camere a gas. Ci dimentichiamo delle altre pulizie etniche commesse in Turchia, nei Balcani, in tante altre parti del mondo, ai danni di minoranze, che non avevano fatto alcun male, se non quello di esistere.
Ho amato questo libro. Per le sue descrizioni di luoghi, cibi e sapori; mi sembrava di stare lì, di poterli vedere o assaggiare, di gustare gli aromi nella mia bocca. Mi sono affezionata a questi capi famiglia, alle eroine della casa, alle loro tradizioni, ai domestici e persino ai mendicanti. Ho riso con loro, ho pianto i loro lutti e ho provato rabbia per tutte le violenze, la fame, gli stenti subiti.
Raramente un libro verità è anche così dolce e poetico. Non sapevo di questa barbarie nella storia moderna. Un libro così andrebbe letto obbligatoriamente nelle scuole, al posto di aride pagine di un manuale di storia.
Il libro mi è piaciuto da matti. Ciò che raccontava era talmente vivo e reale che mi sono ritrovata spesso con le mani tremanti e gli occhi lucidi. La storia di questa famiglia a cui ho voluto bene da subito, mi ha lasciato tanta di quell’angoscia e di quello sgomento che ci ho pensato e ripensato per molto tempo dopo aver letto il libro. Ho passato giorni e giorni a raccomandarlo a chiunque incontrassi. Penso che su questo argomento ci sia davvero poca informazione e forse un libro come questo può far bene a tanti.
Eccidio chiama eccidio, almeno nella mia curiosità. Questa è la saga di una famiglia armena, di una comunità di armeni in territorio Ottomano l’anno in cui il triumvirato al potere ne decise lo sterminio. Cominciò con l’uccisione di poeti e intellettuali, poi con i capifamiglia, poi costrinsero vecchi donne e bambini a incamminarsi verso il deserto, Deir-es-Zor oppure Ras-ul-Ain. Immaginatelo. Immaginate una carovana di vecchi donne e bambini in cammino, migliaia di persone con una unica destinazione, depredati dai curdi delle montagne e vessati, stuprati e uccisi da ‘zeptiè’ turchi incaricati di scortarli lungo il viaggio. Immaginate la fame e la sete che tolgono il senno. Vecchi donne e bambini. Senza cibo e acqua. Sotto il sole di luglio. senza speranza. Le donne della famiglia Arslanian assistono alla carneficina dei maschi della famiglia proprio alla Masseria delle allodole e poi si incamminano. La fine di un mondo. del mondo di ciascuno di loro. E occorre ucciderli tutti, per evitare la vendetta di chi resta. Non vi ricorda qualcosa? Lo sterminio, le marce della morte, il Male… dunque era già tutto accaduto. Certo, tutto accade e riaccade e ancora, ma stiamo parlando di decenni non di secoli. Dunque gli ebrei sapevano, ‘quel’ mondo sapeva e ne ho la certezza a pagina 149 dove una piccola nota mi dice del Mussa Dagh (monte di Mosè). ‘Franz Werfel, ebreo, negli anni ‘30 raccontò della strage degli armeni proprio mentre Hitler stava organizzando quella degli ebrei.’ Nessun anticorpo, nessuna difesa, la cieca fiducia nel denaro che compra anche le proprie vite: se quelli incarnarono il Male, questi furono la stupidità umana fatta agnello sacrificale. Oppure la Fiducia nella bontà dell’uomo perché senza questa saremmo sempre tutti vittime e carnefici contemporaneamente. Piccolo appunto: ho dovuto rileggere le prime 30 pagine, terminato il libro, per ritrovare la bambina che racconta e soprattutto il suo sguardo. R@
Ne avevo sentito parlare da sempre, praticamente, senza mai però avere occasione di leggerlo.
Finalmente ho potuto rimediare a questa mancanza, e malgrado la mia iniziale titubanza ho trovato un libro potente e doloroso, la storia di una famiglia che nel novecento si trova incastrata negli ingranaggi della storia, nella pagina vergognosa del genocidio armeno orchestrato dall'Impero Ottomano. Un genocidio passato in qualche modo in secondo piano rispetto al più famoso genocidio degli ebrei, ma altrettanto metodico, spaventoso e sconvolgente.
Nelle vite di questa famiglia dispersa in tutto il mondo ci sono le prove che negli scorsi secoli il trattamento da loro ricevuto era stato identico a quello degli ebrei: esuli in giro per il mondo, laboriosi e di religione spesso diversa da quella delle nazioni che li accoglievano, privi della protezione data da una nazione vera e propria alla quale tornare. Perfetti capri espiatori per la rabbia e l'invidia del popolo, sempre in cerca di qualcuno di esterno da incolpare per i propri problemi (o da vedersi offerto in pasto dai potenti di turno, come ai tempi dei pogrom).
Già in passato avevano subito, ed erano abituati a leggi inique fatte per vessarli e sfruttarli. Ma nessuno, nemmeno i vecchi colonnelli più o meno corrotti, potevano immaginare la nuova politica fin dove si sarebbe spinta. Un'immensa operazione di pulizia etnica, al grido di "non ne resti neanche uno in vita, che sennò poi si vendicherà" (peraltro tradita dai fatti, viste le donne prese dalle tribù curde alleate momentanee degli ottomani).
Un libro doloroso che tutti però dovrebbero leggere.
L'autrice, padovana di ascendenza armena, a partire dai ricordi di famiglia racconta il genocidio di quel popolo ad opera dei turchi nel 1915-1916: un contributo letterario interessante e importante, considerato anche il negazionismo ufficiale del governo turco che perdura a distanza di un secolo, come pure il fatto che parte della storia si svolge ad Aleppo, tuttora scenario di un'immane tragedia. Ma il punto debole del romanzo sta nella scrittura della Arslan, macchinosa e carente nel trasmettere le emozioni suscitate dai terribili eventi.
A true story very well told. A very moving, clear, precise depiction of the Armenian genocide of 1915. This book read like a novel. It never drags. History brought to life. The author plans to write other books about what happened to her surviving family members after their escape from Aleppo. I will definitely read these books as soon as they are published!
Toccante, a tratti sconvolgente, e poetico monito alle sanguinose follie degli esseri umani. Purtroppo, molto attuale visto il genocidio in atto del popolo palestinese.
"C'è un momento nella vita di ogni donna armena, in cui la responsabilità della famiglia cade sulle sue spalle. Noi moriremo, per evitare questo peso alle nostre perle, alle nostre rose di maggio: e infatti moriamo:" Un libro bellissimo e tristissimo, una vera testimonianza storica, quella della deportazione ed uccisione di massa del popolo armeno nel 1915 mentre nel mondo si iniziava a combattere la prima guerra mondiale. La scrittrice Antonia Arslan racconta in maniera diretta, chiara e tagliente la storia della sua famiglia, dei suoi avi che morirono per mano degli ittihadisti che volevano eliminare la razza armena dal mondo e che ordinarono di fare un lavoro pulito e sistematico: prima uccidere gli uomini, poi deportare bambini, donne e vecchi fino nel deserto di Des-es-zor, sperando che la maggior parte morisse durante la traversata a causa degli stenti, delle privazioni, degli attacchi da parte dei predoni curdi, se fosse rimasto vivo ancora qualcuno là avrebbero trovato comunque la loro fine. "Ancora per questa volta: Sempad e i suoi avranno sepoltura cristiana. A tutti gli altri armeni che perderanno la vita in quei mesi funesti, trucidati, morti di sete e di fame lungo le strade anatoliche, con scherno coerente sarà negato anche ogni funebre rito. O meglio: non ce ne sarà bisogno. Un singolo morto era prima un essere che respirava, era vivo, e la sua spoglia è un cadavere che può essere onorato: centomila morti sono un mucchio di carne in putrefazione, un cumulo di letame, più nulla del nulla, un'immonda realtà negativa di cui disfarsi." Il libro ci racconta anche del dolore di coloro che sono rimasti perchè scappati dall'Anatolia in cerca di fortuna e di ricchezza e che non hanno più una Patria alla quale far di nuovo ritorno, il dolore di chi ha perso gli odori, i sapori, le usanze ed i costumi, la sua gente ed i suoi cari, la gioia, la consolazione e la nostalgia per il loro Paese di Origine. Magnifico il ricordo delle donne armene: madri che hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia perchè pur soffrendo atrocemente, hanno lottato ed usato qualsiasi espediente per cercare di salvare i loro figli unica salvezza affinché un'intera etnia non rischiasse di scomparire. Un libro che ci porta a riflettere, a pensare, doloroso, drammatico e triste, a 100 anni da quei fatti drammatici, dove alcuni uomini decisero le sorti di un'intera etnia, quella armena, spesso affermiamo che la storia si ripete ed è purtroppo vero, basta aspettare la seconda guerra mondiale dove furono gli ebrei a dover subire la stessa identica sorte. La deportazione armena purtroppo è stata ricordata meno di quella degli ebrei, ma entrambe sono un atto terribile, crudele ed inspiegabile: perché si sono uomini che possono decidere il destino e la vita di altri uomini? Perché è necessario trovare folle da sacrificare per godere poi del loro sangue? Domande alle quali è difficile rispondere, perché non è capibile l'odio ed il desiderio che porta a dover uccidere persone uguali a noi, ma con tradizioni, religioni ed costumi diversi. "Qui si incide un bubbone, hanno spiegato gli ittihadisti, senza rancori personali, per far guarire il corpo ammalato della nazione, per fare pulizia. E a coloro che opereranno bene, molto sarà perdonato, e dato il libero godimento da questa impura sottorazza di preti e di trafficanti." Consiglio vivamente a chiunque di leggerlo per non dimenticare fin dove può portare la crudeltà umana.
Secondo me non ha molto senso valutare questo libro nella sua qualità letteraria. Il lettore, se appena è dotato di un poco di empatia, si lascerà travolgere dalla tragedia, e lascierà perdere la forma. Di buono ha sicuramente che è scritto in maniera asciutta e non ci sono descrizioni particolarmente cruente delle violenze perpetrate su questo popolo. Proprio per questo risulta efficace: la violenza e la crudeltà le immagini e il suo impatto è maggiore, e più profondo. Purtroppo non ha nulla di storico: rimane il racconto della tragedia di una famiglia più che di un popolo. Emblematica, sicuramente, ma non esaustiva sui motivi politici e economici che stanno dietro a questo genocidio di cui non si parla mai. Nel mio caso, che sono lettrice che si affeziona ai personaggi, la lettura ha lasciato poco: sono, secondo me, tutti poco approfonditi e mancano di personalità. Del resto la Arslan trascrive i racconti del nonno e degli altri familiari, ascoltati da bambina, e aggiunge poco di suo, non so se per scelta stilistica o perchè riteneva che fosse meglio così. In questo modo il romanzo resta asciutto nella forma, ma manca secondo me di quel qualcosa in più che lo avrebbe reso vivo e indimenticabile.
Zoals vaker lees ik steeds vlotter naarmate het verhaal vordert. Hoe zal het aflopen met de vrouwen? Lukt het de niet-Armeense vrienden om de overgebleven familieleden te redden? Soms stop ik even, omdat het zo heftig is wat ik lees. Antonia Arslan heeft goed geluisterd naar haar opa en geeft razend knap weer hoe het geweest moet zijn.
La prima parte del romanzo riesce magistralmente a descrivere l'arrivo di quella Apocalisse, il genocidio degli armeni, che era così inaspettata ma così prevedibile, facendoti entrare nel cuore personaggi che fin dall'inizio sai non avranno scampo. La seconda invece testimonia il come il genocidio sia stato portato avanti. Forse il pathos e la forza della testimonianza si perde con la descrizione del rocambolesco modo con cui i pochi sopravvissuti sono stati salvati della carovana della morte, descritto forse in modo un po' troppo avventuroso.
Ci sono libri belli, e ci sono libri necessari. Questo fa parte della seconda categoria. Non mi pare che Arslan abbia un grandissimo talento letterario, ma questo libro va letto, perché racconta una Storia che non molti di noi possono dire di conoscere a fondo.
La storia è quella, certamente romanzata, della famiglia Arslanian, famiglia di origine di Antonia Arslan (suo nonno, in Italia dall’età di 13 anni, deciderà nel 1924 di farsi togliere il suffisso armeno dal cognome). Ed è la storia che le è stata raccontata dal nonno Yerwant, ormai anziano.
Siamo nel 1915, anno in cui il governo turco ottomano decise di mettere in atto il sistematico sterminio degli armeni presenti nel territorio dell’Anatolia, sotto il tristemente presago motto “La Turchia ai Turchi”. Non è presago a caso, questo motto, poiché pare infatti che Hitler si sia ispirato proprio al genocidio armeno per mettere in atto la Shoah. Come dice Arslan, il genocidio armeno fu condotto con precisione chirurgica, di certo non si poté parlare di crimini di guerra o di efferatezze isolate, ma si deve parlare di vero e proprio genocidio. Cosa che ancora la Turchia fatica a riconoscere.
La famiglia Arslanian vive in una piccola città dell’Anatolia, mai menzionata, e viene quasi del tutto sterminata durante le atrocità del 1915. Le donne saranno deportate attraverso il deserto, dopo l’uccisione di tutti i maschi della famiglia, e solo poche di loro sopravviveranno, insieme a uno dei bambini, piccolissimo, salvatosi dalla follia omicida solo perché vestito da bambina, come a volte all’epoca usava.
Il libro è la storia di quello sterminio e di quella deportazione e, come tutti i libri sul genocidio armeno, romanzi compresi, non risparmia scene che fanno gelare il sangue nelle vene. Perché il libro vuole essere testimonianza, e allora deve raccontare fedelmente cosa è successo, e pure se Arslan romanza la storia raccontatale dal nonno, i racconti delle atrocità sono tristemente veri. Ma se vi accostate a questo come ad altri libri sull’argomento dovete essere consapevoli che in alcuni punti avrete voglia di vomitare.
Letterariamente, è molto più bello il romanzo, ispirato a una storia vera, I quaranta giorni del Mussa Dagh di Franz Werfel, di cui ho parlato qui l’anno scorso. Ma penso che entrambi i libri vadano assolutamente letti, o almeno io li consiglio entrambi.
sembra un libro per bambini, ma racconta cose atroci delle quali molti (io) sanno troppo poco. nella mia edizione c'era tra le pagine un foglietto scritto da mia figlia con l'elenco dei personaggi, le parentele e le caratteristiche fondamentali di ciascuno. molto utile.
Allo scoppio della Pima Guerra Mondiale l'Impero Ottomano si schiera con gli imperi centrali. Il partito dei Nuovi Turchi al governo teme che gli armeni (una minoranza di fede cristiana) possano allearsi con la Russia (la stessa Russia incoraggiava gli armeni alla ribellioni offrendo il proprio aiuto, allo scopo di destabilizzare l'Impero Ottomano per poi approfittarne e allargare i propri confini territoriali). Così inizia una politica di repressione e deportazione che sfocia in un vero e proprio genocidio, a tutt'oggi negato dalla Turchia (dove parlare di genocidio armeno è reato: Orhan Pamuk è stato denunciato proprio per questo motivo, anche se poi le accuse sono cadute), atteggiamento che è la maggior causa di frizione con la Comunità Europea (in Francia da qualche tempo è reato negare il genocidio armeno).
Antonia Arslan in questo romanzo ci racconta la storia -vera - della sua famiglia. Armeni che vivevano in Anatolia, in una "piccola città" mai nominata. Solo alcuni di essi riusciranno a sopravvivere e a raggiungere i parenti che da anni vivono in Italia. Una storia lancinate, dolorosa, incredibile. Una storia affine all'eccidio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, ma assai meno nota. Una storia raccontata benissimo, di cui non si può non apprezzare la bellezza, nonostante sia una bellezza mortale. E' la storia di due fratelli della famiglia Arslanian: Yerwant lascia l'Armenia da giovane per studiare a Venezia e poi rimane in Italia, a Padova, dove sposa una nobildonna insieme a cui genera due figli, uno dei quali è il padre di Antonia Arslan. Sempad rimane al villaggio natale dove ottiene il rispetto di chi ha un lavoro importante (Sempad è farmacista) e una famiglia ricca e ospitale, nonché rispettosa delle tradizioni. Proprio quando, dopo la morte del patriarca, Yerwant decide di andare a trovare il fratello e la famiglia, scoppia la guerra e comincia l'eccidio degli armeni maschi e la deportazione delle donne.
Dal romanzo è stato tratto un film (omonimo) diretto dai fratelli Taviani.
What makes this beautiful and depressing novel so remarkable is how it is written and that it's based on the author's own family. While this is a work of fiction, the story is based on real people and real events, which makes it all the more difficult to read.
This novel follows the lives of one family and their experiences during the Armenian genocide in Turkey. The author does not hold back in describing the horrible ways the victims are killed and mistreated. To keep things moving and to add some optimism, she adds sentences in italics here and there that give details about the futures of the different characters. I appreciated this element as it reminds the reader that there is a future for some characters, although the majority are not granted this chance. The characters are well-formed and complex, like people actually are.
I highly recommend this, thus the five stars. It's not an easy read, because of the subject matter, but it is so beautifully written and tells an important story that should not be missed.
Incredibly moving! Antonia Arslan tells the compelling story of her own family, who were among the victims of the massacre and deportation of the Armenians in 1915. The tale begins in the years before the massacre, when the Armenians were leading peaceful and fruitful lives, never suspecting what lay ahead. You feel as though you know each member of the family personally and you share in their fate. Although you know that the outcome is dreadful, you can't stop reading. The intricate relationships between a Turkish beggar, a Greek professional mourner and the Armenian victims are part of the suspense, which builds up to the very last page. I knew almost nothing about the Armenian genocide before reading this book and I found it a highly worthwhile read! The title in English is Skylark Farm.
Antonia Arslan ci guida lungo una tragico momento della storia dell'umanità e della sua famiglia in particolare. In modo pacato e dignitoso, senza però per questo rinunciare a denunciare tutte le atrocità e le violenze che hanno subito , racconta la storia e il destino dei suoi familiari nella cui disperata lotta per la sopravvivenza si identifica quella di tutte le famiglie del popolo armeno. È il primo genocidio del ventesimo secolo, avvenuto nel 1915, in cui perderanno la vita, eliminati in modo sistematico, più di un milione di esseri umani e che farà da preludio a quello ben più conosciuto perpetrato trent'anni dopo. Due orrori che non dovrebbero essere compatibili con il concetto di umanità.
La storia del genocidio armeno del 1915, perpetrato dai turchi con l'appoggio dei curdi e il tacito assenso di tutti gli altri popoli coinvolti nella prima guerra mondiale. Una saga familiare raccontata con pudore di fronte alla terribile fine di quasi tutti i personaggi, come se la vergogna fosse dei morti e non di quelli che rimangono e soprattutto ripetono sempre gli stessi barbari errori. Una strage, quella armena subito dimenticata, sommersa dagli orrori della grande guerra e poi dalle stragi naziste, ma non per questo meno importante; un popolo la cui diaspora perenne li ha sparsi per il mondo, per questo, come dice l'autrice, c'è sempre un armeno, dovunque.