Gommoni, sbarchi, motovedette, ONG, scafisti… la spettacolarizzazione dei confini che da anni viviamo nel nostro quotidiano racconta solo una parte della storia. Le prevalenti narrazioni politico-mediatiche rappresentano il Mediterraneo come una barriera «naturale» che divide aree geograficamente e socialmente distanti. Al contrario, il Mediterraneo è – storicamente – uno spazio di incontro e contaminazione, come testimonia questo lavoro «sul campo» condotto a bordo della Tanimar da un gruppo di scienziati sociali che ha dato voce e legittimità a tutti coloro che lo migranti, pescatori, marinai, guardacoste, isolani, funzionari delle agenzie europee. Una ricerca che applicando i criteri di una sociologia intesa come pratica pubblica propone di ripensare la «frontiera d’acqua» del Mediterraneo. Affinché non sia più un confine arbitrariamente tracciato sulla mappa, ma torni a essere uno spazio comune abitato da una pluralità di attori sociali che non solo lo rimettono costantemente in discussione, ma già oggi vanno prefigurando futuri post-nazionali in grado di oltrepassare il controllo statale della mobilità.
Un libro che pone domande a cui ancora mancano delle risposte. Domande, - metodologiche interesanti per un antropologo: cos'è il campo? Può esserci un campo nel mare? Possiamonparlare di sea-level bureaucracy (come declinazione marinaresca della street-level bureaucracy)? - sociologiche: cos'è la public sociology di Michael Burawoy? Cosa la differenza dalla Antropologia pubblica? - politiche: come si gestisce un fenomeno in modo efficace cogliendone l'urgenza, senza però trasformarlo in emergenza? - etiche: come è possibile che di fatto ci siano uomini e donne che valgono meno di altri? - ma anche storiche: cos'è il Mediterraneo? Frontiera o crocevia?