Un uomo, dopo una lite violenta, uccide sua moglie. È una sera qualunque, in un apparta- mento come tanti, a Copenaghen. Ma l’azio- ne si svolge in un prossimo futuro e in una società che molto somiglia all’ideale modello della socialdemocrazia scandinava, deforma- ta quel che basta a renderla più universale. Lo Stato che si prende cura del bene comune «dalla culla alla tomba» si è trasformato in una gabbia di conformismo, regno del con- senso e dell’eufemismo, in cui tutto è pia- nificato e obbligatorio, compresa la felicità. E poiché l’omicidio non è altro che insuffi- ciente adattamento sociale, Torben, l’assas- sino, viene sottoposto a cure psichiatriche e rimesso in libertà. Ma contro le regole di un sistema che nega la responsabilità individua- le, Torben si ostina a voler essere giudicato e punito per quel che ha fatto. L’uomo che vole- va essere colpevole è la storia di un processo kafkiano alla l’inutile e sempre più assurdo tentativo del protagonista di dimo- strare la propria colpa, l’angosciante senso di isolamento, la spirale di dubbi, lo sfaldar- si dell’identità e della realtà stessa diventa- no emblematici della condizione umana in un mondo che rifiuta la dimensione etica e si illude di delegare alla scienza la soluzio- ne dei problemi morali. Solitari destinati a perdere nella lotta impari contro il proprio tempo, i personaggi di Stangerup, figli di Ki- erkegaard, preferiscono sempre e comunque prendere il rischio della loro verità e provare a essere «Quel singolo» che il filosofo danese voleva scrivere sulla sua tomba.
Capolavoro. Uno dei libri più interessanti e originali che io abbia mai letto. I distopici sono quasi sempre ambientati in un futuro che è impossibile possa realizzarsi, difficilmente realistici per quanto orribili che siano e inoltre non sono mai ambientati in Danimarca, in terra scandinava, il paese della felicità che si guarda sempre con ammirazione. L’uomo che voleva essere colpevole è ambientato in Danimarca in un futuro non tanto diverso e lontano dal socialismo scandinavo dove tutto è indirizzato verso la creazione di una società felice, armoniosa dove le persone possono vivere felicemente senza soprattutto quel senso di colpa tipico della natura umana. Ma davvero è possibile creare l’uomo nuovo? l’uomo senza angosce, senza aggressività, l’uomo demoniaco? Esiste davvero la felicità? È questo il fine ultimo, la felicità? Stangerup si interroga su questi quesiti facendo emergere la bellezza dell’imperfezione umana, la sua dicotomia, il bene e il male e soprattutto quanto il raggiungimento della felicità possa generare la paranoia. Più si pensa a voler essere felici più si è paranoici, il contrario della noia. “Da tempo l’idea che l’essere umano, oltre a una creatura sociale creatrice di simboli, sia anche una specie, un animale con gli stessi bisogni degli altri animali, è considerata un’eresia”. Stangerup inoltre si interroga sulla miseria dell’individuo in una società in cui tutte le decisioni sono diventate un fatto collettivo, il Bene Comune. Il bene comune è la felicità? Sulla linea di Kierkegaard che è stato un uomo che ha sempre difeso “quel singolo”, la propria identità, l’essenza della propria personalità e individualità, si scaglia contro questo “bene comune” che crea conformismo, incapacità di esprimere se stessi, risucchiati in un mondo senza arte e senza quell’egocentrismo necessario. Imporre il Bene Comune a discapito della felicità. Questo conformismo si può percepire attraverso le descrizioni della città “file e file di supercondomini, strade anonime, tutte illuminate dalle stesse lampade al neon, costeggiate da centinaia di macchine parcheggiate e migliaia di finestre da cui si intravedeva la luce dei televisori accesi”. C’è una perdita della concezione individualistica del mondo che trovo personalmente attualissima: viene sempre sensibilizzata la questione dell’uguaglianza, che siamo tutti uguali e mai che si parla di quanto è bella la diversità, quanto siamo belli tutti perché siamo diversi. Pian piano l’io sta svanendo per far spazio al noi. E per questo che “l’uomo che voleva essere colpevole” fa paura e orrore, perché non è un distopico di un futuro lontano, ma è il nostro presente che sta diventando conforme senza che ce ne rendiamo conto. E tutto inizia dalle parole, anche qui come in Orwell, c’è una specie di censura alle parole. Mentre in orwell si trattava di una semplificazione linguistica qui è la censura di tutte le parole negative. Esiste un istituto che si occupa di cambiare alcune parole in altre per renderle più positive, altre vanno abolite come ad esempio la parola e il concetto di “colpa”. Tutto inizia dalla parole, anche nella nostra epoca governata dalla figura del politicamente corretto prende questa direzione credendo di far bene, di agire secondo quel “bene comune”. È un libro purtroppo poco conosciuto ma che consiglio a tutti in quanto è davvero lo specchio di questi anni.
Un romanzo danese dall'ambientazione distopica, sulla scia di 1984. Sebbene sia stato scritto dopo, rispetto al tomo di Orwell è invecchiato un po' peggio.
As evinced by the string of grumbling reviews, I’m in a rut. On the one hand, I’d like to sample some recent books, especially those printed by so-called ‘micropresses’ in the U.S.; on the other, those books don’t make it to Australia, or if so in such small quantities that I’m yet to find them, and my natural skepticism so far prevents me from ordering sight-unseen. So instead, on recent trips to two ‘big smokes’, I stocked up on secondhand titles like this one, which I bought mainly on the strength of its imprint (Marion Boyars circa late 1970s) and its novelty (Swedish dystopian – not a genre I’ve previously encountered). Well, for the first 20 or so pages I was pleased: it seemed the evidence of a healthy cottage industry that this quaint but not unskilful sub-Orwell homage could be a bestseller in its homeland. But even the patronising armchair-traveller sociologist in me was bored to stoic resignation by the denouement, which forced disparate, near-random episodes into a conception in keeping with the title, and ruined whatever promise the early pages had held in the process. Concept over imagination = chaos and contrivance. I don’t mean to be harsh – hey, it was OK. But the basic conceit – 1984 with smiles and psychobabble – was a small innovation, and could have been better conveyed in a story one-quarter the length. A frustrating diversion.
Dalla trama mi aspettavo un po' di più ma, da residente in Scandinavia, trovo questo libro geniale. L'autore è stato in grado di anticipare cosa ne sarebbe stato di una società edulcorata che reprime e cancella tutto ciò che ritiene offensivo o provocatorio.
Ti ho lasciato aspettare per quasi un mese, continuavo a portarti con me ovunque, nello zaino, in tasca, ogni tanto ti prendevo in mano, ti accarezzavo, ti osservavo.
E mentre frugavo nello zaino e per sbaglio sentivo la tua copertina- probabilmente in via di decomposizione -vedevo i tuoi colori e mi sentivo ancora più in colpa perché sapevo che eri troppo. Ma non volevo lasciarti andare. E quindi rimandavo costantemente, fingendo di avere altro da leggere, altro da fare, altro da vivere.
Poi ho capito che stavo mentendo a me stesso ancor prima che a te. Pensavo di poter mettere in pausa l'inevitabile e ci sono riuscito (non senza un prezzo) ma quel prezzo mi stava logorando, come un topo che crea la sua tana, uno spazio vuoto che il tempo fa diventare sempre più grande e insostenibile.
Quindi ti ho preso, con delicatezza, osservando ogni tua piega e sfumatura, forse per scusarmi per tutti i viaggi a vuoto, per tutte le carezze e le occhiate inconcludenti, forse per ammirarti vergine un'ultima volta.
E ti ho ascoltato.
Ma tu non avevi che poesia da donarmi, senza rancore mormoravi sicurezza e comprensione. Sussurravi ed io ascoltavo i tuoi lemmi, ne sentivo la vicinanza, il calore, il contatto. Non avevi bisogno di alzare la voce più del filo di fiato di cui ti servivi per entrarmi dentro, sapevi più di me di quanto potessi immaginare.
Ed io mi sentivo il colpa.
Ma tu sapevi tutto. I vani tentativi, la finta vicinanza, il senso di colpa. Sorridevi come un padre osserva il figlio sbagliare e riconoscere quegli errori nei suoi, senza mai operare la sufficienza di interferire. L'attesa tollerante priva di rancore di chi, con cura discreta, mantiene il fuoco acceso fino al tuo ritorno per accogliere errori e successi senza giudizio.
Ed io non facevo che sentirmi in colpa, sempre più in colpa, per i miei errori, le mie mancanze e i miei tempi. Una punizione avrebbe lenito il mio animo in modo più rapido, sarebbe bastato inginocchiarsi e chiedere perdono con le lacrime agli occhi e aspettare che una mano si posasse sulla mia testa e una voce sussurrasse parole rassicuranti, e finalmente mi sarei sentito meglio, avrei potuto respirare un'aria più lieve, ma tu hai scelto la strada più dura per entrambi. Il percorso più efficace.
Non sento più il disperato bisogno di implorare perdono, di espiate una colpa irrimediabile, solo una strana sensazione nel petto: il magro sollievo di chi, nella sofferenza, vive il tuo stesso, profondo, dolore.
nonostante la proposta innovativa, questa società totalmente dormiente e inibita che contrasta il male e il dolore e la sofferenza ignorando o sradicando direttamente le fonti, non mi sono trovata con lo stile e il percorso narrativo
dopo un inizio lineare le storia inizia ad incrinarsi pian piano, spostando completamente l'attenzione su altri argomenti e altre situazioni, che, nonostante tutto, sposano senza grandi problemi le argomentazioni principali del romanzo, ma che vengono introdotte in modo poco nitido e trasparente, lasciando il lettore a piedi, un po' disorientato dalla piega dispersiva e sovraccarica del romanzo
nonostante ciò, questa peculiare versione del mondo incuriosisce, diventa quasi un rompicapo, e propone delle riflessioni interessanti sul male, sulla vita in società, sull'importanza dell'arte e del lasciare le nostre impronte culturali, sulla necessità di essere sempre vigili e presenti nel panorama politico, sociale ed economico della realtà in cui viviamo
lo consiglio? non a tutti, credo che un lettore abituato a quelle che sono le tribolazioni della fantascienza o delle distopie o di generi simili riesca ad affrontare il testo con maggiore serenità e consapevolezza rispetto a qualcuno alle prime armi
Kierkegaard che fa a pugni con Orwell… chi vincerà? Non importa. Ti siedi e ti godi lo spettacolo dello scontro di idee che crea letteratura. Letteratura delle divagazioni filosofiche. E cosa c’è di più bello di questo?
Libro che indubbiamente ha molto in comune con quelli che sono i temi e gli elementi emblematici del famoso romanzo di Orwell ma che probabilmente non detiene nemmeno la metà della fama di quest’ultimo. Mi chiedo un po’ perché. Io, nel mio piccolo, l’ho apprezzato enormemente, mi ha intrattenuto e allo stesso tempo parlato di temi e argomenti importanti. La seconda parte in particolare mi è piaciuta molto, sia in termini di storia, che in termini di scrittura. È un romanzo estremamente valido che, in mio parere, merita più riconoscimento.
Scritto nel 1973 e ripubblicato quest’anno, in una nuova edizione, dalla casa editrice Iperborea, “L’uomo che voleva essere colpevole” è un romanzo distopico che, sulla scia di “1984”, sfrutta la distopia per muovere una critica alla società attuale.
A Copenhagen Torben, un “uomo qualunque” uccide la propria moglie e, contrariamente a quanto il lettore – e lo stesso protagonista - si aspetterebbero, nessuno lo accusa, nessuno lo punisce. La colpa delle azioni dell’uomo, infatti, è attribuita non ad egli stesso ma alle circostanze, e dopo un breve periodo di cura viene rimesso in libertà.
Divorato dai sensi di colpa, sconvolto dall’assenza di conseguenze, Torben scivola sempre di più nella spirale della follia, in un vortice alienante dal quale non riesce ad uscire, vittima di una società che lo lascia impunito, una società impegnata nel controllo totale dell’individuo e nella creazione di un uomo nuovo.
I grandi meriti di questo romanzo, a parer mio, sono due. Da un lato, la capacità dell’autore di scrivere di una società distopica molto vicina alla nostra, ancora attuale cinquant’anni dopo la sua creazione e, dall’altro, di usare, per descriverla, uno stile asciutto e senza ghirigori stilistici, che proprio per questo arriva dritta al lettore.
Un romanzo che avrei giudicato quindi quasi perfetto, non fosse per il finale un po’ abbozzato, poco incisivo ma, nonostante questo, ritengo che meriti una fama ben maggiore di quella che ha.
Questo libro racconta le vicende di uno scrittore che dopo un omicidio, impazzisce. Il focus principale non è il senso di colpa che comunque ha un ruolo decisivo, immortalato come parte integrante della cultura giudaico- cristiana, emozione forte ed opprimente come la fame. Il tema principe è sicuramente l'opprimente struttura statale basata sulla situazione scandinava. Il mar Baltico e la natura muoiono e i supercondomini imperversano come un'infezione. L'individuo e la sua felicità sono sacrificati in nome del bene comune, esempio lampante la tessera Mammaepapà. L'autore attraverso la storia frenetica del protagonista ritaglia e dipinge una Danimarca molto simile allo stato fittizio di Orwell in "1984". Consigliato!!
"Il primo sole primaverile lo colpì con una violenza che lo fece vacillare. Si ritrovò in mezzo alla strada frastornato da un furibondo strombazzare di clacson. «Giudicatemi!» si mise a gridare. «Giudicatemi!»"
An interesting idea, examining the view that crime is at least partly caused by social factors and taking it to extremes in this near-future Orwellian distopia. Denmark has become a kind of beneficent version of 1984 but unfortunately the principal character is no Winston Smith. When he murders his wife the authorities refuse to judge him or to blame him. It's a thought-provoking scenario (especially as, the night I read it, riots were breaking out across London and Facebook was filled with debate over the underlying causes of the unrest/looting).
A critique of Western Socialism! In it, a man kills his wife. Society blames circumstances, not him. There is no official punishment, only a declaration of mental illness that enables the punishment of removing his son from his custody. No one is responsible for anything and individuality is discouraged. "Social orientation" is the order of the day. For someone from the dog-eat-dog wasteland that is America, it's fascinating to read the opposite, smothering extreme.
Lo spunto è veramente molto molto interessante, ma nel complesso mi aspettavo qualcosa di più dallo svolgimento. L'aspetto che ho trovato più interessante è la società in cui l'autore ha ambientato la vicenda: non si tratta di una prospettiva lontana e irrealizzabile, al contrario mi sembra che il quadro complessivo sia molto realistico, e proprio per questo estremamente inquietante. Probabilmente bisognerebbe approfondire i riferimenti allo stile di vita nordico, con cui ho poca familiarità.
《Pensavo solo a un famoso esperimento fatto diversi anni fa. si allevò una colonia di topi in uno spazio limitato, nelle migliori condizioni possibili: accesso libero al cibo, nessuna malattia né nemici naturali. Passato qualche tempo il gruppo perse la capacità di compiere qualsiasi azione che non fosse in funzione alla pura sopravvivenza. I topi cominciarono a mordersi tra loro, le madri abbandonavano i piccoli un po' ovunque e altre cose simili...tutto perché erano stati privati di ogni possibilità di lottare...o di fuggire.》 《Con questo vuol dire...》 《Non voglio dir nulla che lei debba prendere per oro colato. Ma a volte mi chiedo se non ci sia tra gli uomini e i topi, o gli animali in genere, un'affinità maggiore di quella che generalmente osiamo ammettere. Da tempo l'idea che l'essere umano, oltre a una creatura sociale creatrice di simboli, sia anche una specie, un animale con gli stessi bisogni degli altri animali, è considerata un'eresia.》 Senza dubbio un filosofo, o forse un poeta, era andato sprecato in questo psichiatra, penso Torben e si sentì un oo' sollevato perché la conversazione prendeva un tono più generale. Lo psichiatra si tolse gli occhiali per pulirli e in quell'istante perse improvvisamente l'autorità che il ruolo gli conferiva: dietro la scrivania, in mezzo a quegli innumerevoli libri, sembrava una talpa. 《Desidera un altro bicchiere?》 《Si, grazie. Ma che fine fecero i topi?》 《Non ricordo di preciso e, come le ho detto, non deve prendere il confronto troppo sul serio; gli uomini nonostante tutto non sono animali!》
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Una società ucronica in cui la colpa non esiste ed il male non è concepito, né concepibile: cosa accade a chi vuole espiare i propri crimini, fare i conti con la parte peggiore di sé, affrontare con disperata dignità la sua responsabilità? Il libro è una riflessione interessante sulla rimozione (individuale e collettiva) della colpa e sulla difficoltà di condividere e portare alla luce ciò che i benpensanti (e i poteri forti) vogliono rendere invisibile ed indicibile. Lo stile è così così, ma la tematica della biopolitica della mente è potentissima. Consigliato.
Stangerup costruisce un romanzo che è una critica a un modo standardizzato, dove l'individualismo è visto come una atroce anomalia da correggere e dove uno stato "padrone" pensa al benessere collettivo in forme spaventose. Da qui la ribellione di Torben: vuole essere riconosciuto colpevole del suo crimine, vuole con forza scontare la sua colpa. Finale amaro per un libro interessante e surreale. Bellissimo.
Copenaghen, una sera come tante, un appartamento qualunque, un uomo dopo una lite violenta uccide la moglie. Ma l'azione si svolge in un prossimo futuro, in cui regna il conformismo: tutto, compresa la libertà del singolo, è sacrificato in nome della socialità, dell'uguaglianza e della felicità. Anche la colpevolezza non esiste più, rimpiazzata dalla parola 'insufficiente adattamento sociale'. E così Torben, dopo un soggiorno in ospedale in cui viene curato con tranquillanti, viene rimesso in libertà. Ma è possibile essere liberi di scegliere una nuova vita, negando la responsabilità individuale? Torben non ci riesce, vuole sentirsi dire 'sei colpevole di aver ucciso tua moglie', invece si sente soltanto dire che la colpa non è sua ma delle circostanze e che l'omicidio altro non è che un banale incidente domestico. Vuole essere punito, in modo che una volta uscito dal carcere gli sia possibile riavere il figlio, toltogli perché giudicato un genitore inidoneo. Cerca in tutti i modi di essere giudicato per la sua colpa, mentre conduce una vita fittizia: un lavoro in cui deve semplificare il linguaggio e ridurlo solo a termini positivi e negativi; delle riunioni per sfogare la sua rabbia e il suo odio attraverso la corsa; la lettura di libri che parlano solo del sociale... Ma l'immagine della moglie lo perseguita e in un crescendo di sensi di colpa rivive ogni colpa commessa durante la vita, tanto da farlo impazzire. Decide di scrivere e raccontare la sua vita in un libro per paura che gli Assistenti possano cambiarla e confezionargliene un'altra. Alla fine si ritrova nell'ospedale psichiatrico o Parco della Felicità, creato per gli emarginati, o per i malati mentali, convinto di dover scrivere libri in cui racconta di un futuro migliore. E con questa immagine lo scrittore ci lascia, spalancando una voragine di dubbi: il senso di colpa ci rende liberi perché solo attraverso esso possiamo redimerci oppure va eliminato perché altro non è che scarso adattamento sociale?
Il protagonista di questa inquietante distopia danese cerca di farsi incriminare per l’assassinio della moglie con lo scopo di riottenere il figlio. Siamo infatti in un mondo che ha abolito il concetto di colpa perché esalta l'individuo e quindi non gli permette di vivere in armonia col prossimo.
La Danimarca di Stangerup vanifica il libero arbitrio e quindi la libertà di scegliere il male, con tutte le sue conseguenze. A questa società l’autore danese contrappone un suo connazionale, il filosofo Søren Kierkegaard, che viene citato nell’epigrafe del libro. La colpevolezza infatti presuppone l’esistenza di un individuo a cui può essere imputata ed è questo il cuore del libro.
Il romanzo inquieta perché in molti punti l'autore induce a riflettere sulla deriva che anche la nostra società potrebbe prendere: infatti l’utilizzo dei media e l’ingentilimento di alcune parole sono una realtà nota anche a noi e stupisce che negli anni Settanta si sentisse questa tematica.
“L’uomo che voleva essere colpevole” è uno dei romanzi più noti dell’autore danese Henrik Stangerup; scritto agli inizi degli anni Settanta, questo volume arrivò nelle librerie italiane solo nel 1990, anno in cui l’opera fu portata sul grande schermo dal film omonimo di Ole Ross. La storia è ambientata in Danimarca, o meglio in una sua possibile versione futura in cui il governo ha gradualmente imposto alcune leggi atte a limitare le libertà individuali in nome del bene comune. Ci sono alcune norme “tipiche” dei romanzi distopici, come quelle contro la libertà di stampa, mentre altre sono invece particolari di questo mondo e si focalizzano principalmente sull’educazione dei bambini: per poter diventare genitori si devono superare diversi test per dimostrare la propria idoneità, d’altro canto chi ha già dei figli può vederseli sottratti da un momento all’altro se lo Stato -nelle persone dei cosiddetti Assistenti- non lo ritiene un individuo economicamente e mentalmente stabile. Com’è evidente queste leggi di base non sembrano totalmente sbagliate,
«Le proposte erano semplicemente studiate per il bene dei bambini: non desideravano forse tutti vedere intorno a sé bambini felici e senza angosce?»
ma vanno pian piano a limitare sempre più il numero di persone alle quali viene permesso di diventare genitori. In questo contesto di tensione continua si apre la storia di Torben, ex scrittore di successo ora costretto a ripiegare su un lavoro impiegatizio
«Torben fu costretto ad accettare un lavoro a mezza giornata all'INRL (Istituto Nazione per la Razionalizzazione della Lingua). [...] Un lavoro deprimente che consisteva nel far di tutto per impoverire la lingua e che lo metteva appena in condizione di vivere senza debiti.»
che per molti aspetti ricorda quello Winston Smith, protagonista di “1984”, seppur in questo caso non si tratti tanto di cancellare delle parole dal linguaggio comune quanto di edulcorare delle espressioni dalla connotazione negativa,
«Questa semplificazione del linguaggio era appunto il compito principale dell'INRL, [...] tutte le parole sarebbero state suddivise in due soli gruppi: parole positive e parole negative.»
alla fine il risultato è comunque analogo a quello del mondo immaginato da Orwell: libri, vocabolari e quotidiani vengono ristampati per adattarsi alle modifiche, che sono così subito recepite dalla popolazione. Torben non riesce però ad adeguarsi a questa società caratterizzata da programmi TV vuoti, romanzi sempre uguali e cittadini stipati in super condomini di cemento, e quando realizza che la moglie Edith si è invece perfettamente integrata la uccide brutalmente. Lo Stato non può però riconoscere la sua colpa, impegnato com’è a cancellare il concetto di egocentrismo dalle menti, ed ecco quindi che l’omicidio si trasforma prima in un mancato adattamento sociale e poi in un banale incidente. Il protagonista è deciso a far ammettere allo Stato l’esistenza del suo crimine, perché senza la colpa non ci può essere neppure il perdono, che nel suo caso vorrebbe dire poter riottenere l’affidamento dal figlio Jesper. I punti deboli di questo romanzo si possono riscontrare nella trama troppo scarna, seppur con un ottimo finale, ma soprattutto nei coprotagonisti che ripresentano sempre uno schema fisso: in un primo momento sembrano avere idee contrarie a quelle imposte dalla società, poi non osano far nulla di concreto contro di essa. Il mondo creato da Stangerup è invece decisamente un punto a favore di questa lettura. È stato interessante leggere di una distopia dove i cambiamenti non venissero imposti con la forza, bensì in modo tanto sottile che alla fine sono i cittadini stessi a controllarsi gli uni gli altri
«Lo psichiatra era noto anche fuori dalla sua cerchia, per i suoi studi e articoli sulla letteratura danese, un interesse a volte criticato dai colleghi, che ritenevano che avrebbe fatto meglio a limitarsi a pubblicazioni specializzate.»
Come detto, questo governo parte da dei principi all’apparenza giusti e condivisibili
«Lo stato non aveva forse per motto: “Il bene comune dalla Culla alla Tomba”? E allora perché nessuno era felice? E cos'era poi la felicità? Nessuno lo sapeva.»
che però trasformano in pochi anni la società, con la presenza sempre incombente degli Assistenti nelle super comunità e le loro attività AA (Anti-Aggressività), come la corsa dell’odio che richiama ancora una volta a “1984” dov’erano presenti invece i due minuti d’odio sempre atti a svuotare i cittadini dai sentimenti negativi. Stangerup immagina anche uno Stato dove la popolazione ha perso ogni interesse nei confronti della democrazia diretta
«Eppure sembrava che ogni passo nella direzione giusta ne determinasse molti in quella sbagliata. A che serviva il diritto di voto a diciott'anni e poi a sedici se a nessuno importava di votare?»
come afferma anche Torben, quando pensa al direttore del Reparto Rilascio e Ritiro delle Tessere Mammaepapà
«Se ancora votava alle elezioni era sicuramente per il centrosinistra o i radicali, ma con ogni probabilità, come quasi tutti del resto, non credeva più che mettere una croce su un simbolo ogni quattro anni avesse il benché minimo significato.»
Oltre alla distopia, mi ha colpito molto anche lo stile dal ritmo molto rapido, che può dare la stessa sensazione di angoscia provato con “Cecità” di José Saramango, e dalla narrazione zeppa di interrogative, rimando evidente alla filosofia di Kierkegaard come lo sono pure il concetto di colpa e i riferimenti all’estetismo.
«Ma non potete lasciarmi andare così! Io sono colpevole! Di omicidio! Ho ucciso mia moglie!»
Cos’è la colpevolezza? Cos’è un reato? E la società è davvero migliore se non esistono o, semplicemente, non sono considerati tali?
In una realtà che è distopica ma molto vicina all’autore, un uomo, Torben, di professione scrittore, sfegatato sostenitore dei diritti negli anni ‘60 e autore di libri reazionari, dopo un matrimonio e l’arrivo del figlio placa i suoi spiriti e inizia a vivere sempre più coerentemente con il sistema. La violenza c’è, ma in piccola parte e controllata dagli Assistenti con incontri Anti Aggressività (AA) pensati proprio per contenere e osservarla, e anche razionalizzarla. Ed è proprio al termine di uno di questi incontri obbligatori che Torben non tollera più il sistema, al punto da uccidere con profonda violenza la moglie, Edith. L’arrivo degli Assistenti e le cure degli psichiatri portano, però, ad una conclusione che non è ciò che ci si aspetta: l’uomo può essere rimesso in libertà perché non è più un pericolo né per se stesso né per gli altri e dovrà semplicemente prendere delle pastiglie al bisogno. È libero e l’omicidio è classificato come incidente, come semplice conseguenza di circostanze. Non è colpevole, ma il figlio gli viene comunque tolto perché instabile. Ed è così che inizia una lotta feroce, con tutti i mezzi possibili, per essere riconosciuto colpevole, e quindi uomo.
In “L’uomo che voleva essere colpevole” si sente sicuramente l’influenza di 1984 di Orwell (che è anche citato), ma se quest’ultimo ha un chiaro e unico referente (il male della società sovietica, anche perché prende a piene mani dal precedente Noi di Zamjatin), qui il discorso è più legato all’essere umano, al dolore personale di un uomo, che poi, se vogliamo, diventa universale.
Torben è uno scrittore, ma ciò che vorrebbe scrivere non va bene per una società standardizzata, dove la natura non esiste più, le parole vengono cambiare in eufemismi (e lui lavora proprio a questo) e viene addirittura istituita una tessera per dimostrare di essere un bravo genitore. Ed è per questo che la sua mente, pronta ad entrare in contatto con idee differenti, non può tollerare tutto, fino al compimento del gesto estremo. Ciò che vorrebbe è essere riconosciuto per quello che è (un assassino), per poter pagare e poi sentirsi definitivamente assolto, ma questo non è previsto.
Un mondo in cui non c’è responsabilità (e se c’è è standardizzata) è sicuramente un mondo fallimentare, almeno per quelle menti pensanti che qui però vengono considerate fuori dallo standard.
Riprese a camminare più in fretta e finalmente si trovò davanti all'entrata del Tivoli, esattamente nel punto in cui, nel sogno, aveva picchiato Edith. Fu preso da vertigini quando per un attimo ebbe la sensazione di sentirla alle sue spalle che gli accarezzava la nuca. Ma non era che una piccola vecchia signora che portava a passeggio il suo decrepito cane e che gli aveva dato un colpetto sulla spalla chiedendogli l'ora. Ma lo sa chi sono io? pensò di domandarle, ancora in preda al ca-pogiro. Sa cos'ho fatto? Sa che si trova davanti a uno che ha ucciso sua moglie? Doveva trovare qualcuno che l'ascoltasse, qualcuno a cui raccontare la sua storia. Forse l'arabo che stava sul marciapiede di fronte. Oppure il vigile che stava dando una multa a un'automobile parcheggiata in Vesterbrogade. Il mondo doveva ascoltarlo. Il mondo doveva capirlo. «lo sono colpevole!» sentì se stesso gridare.
3⭐️ Torben, accecato dalla rabbia e dall’alcol, colpisce violentemente sua moglie Edith e la uccide. Entra in ospedale dove uno psichiatra si interessa alla sua vita prima del crollo: un figlio di nome Jasper, due romanzi pubblicati, la residenza in Francia e poi la sconfitta personale che li porta a trasferirsi in uno dei tanti supercondomini, senza soldi, e un lavoro deprimente. I colloqui con lo psichiatra divennero lunghi discorsi filosofici e col tempo la disperazione per l’azione commessa si affievolì, riprese a lavorare e anche a scrivere. Prima del tempo previsto però lo lasciano in libertà e Torben non se lo spiega, urla di essere colpevole di omicidio ma le porte verso un nuovo mondo si stavano aprendo. Una volta a casa si rende conto che gli Assistenti avevano portato via tutto ciò che gli potesse far ricordare Edith e Jasper, ma così era solo, padrone di se stesso, ma solo. Riprese il suo vecchio lavoro ma dopo poco lo lincenziarono e una sua collega, Birgit, lo accolse in casa finché lui non le disse che era colpevole di omicidio, ma anche qua lei non rimase scioccata: “non esiste più nel nostro mondo la parola colpevole”. In questo mondo, prossimo futuro, si vuole creare l’Uomo Nuovo, lo Stato si è trasformato in una gabbia di conformismo in cui tutto è pianificato e obbligatorio. Insomma, non mi è piaciuto così tanto da porre quattro stelline ma comunque curioso e interessante.
È un romanzo un po' datato, ambientato in un futuro che per noi è già passato. Proprio la collocazione temporale mi ha lasciata un po' spiazzata perché non avevo fatto caso alla data di pubblicazione e mi pareva strano che, pur essendo un distopico, il protagonista fosse nato tre anni prima della seconda guerra mondiale, vivendo la sua vicenda in anni che per noi sono già trascorsi. A parte ciò, questo romanzo è piuttosto disturbante proprio perché va a immaginare una società che per molti versi è simile alla nostra. La natura è stata compromessa dall'inquinamento e gli alberi non riescono più a sopravvivere. Nelle città si trovano supercondomini tutti identici e il cemento regna sovrano. La cosa più inquietante è che si vuole creare una società in cui tutto sia passivamente accettato, annullando di fatto l'individualità a favore della collettività. Per questo si cerca di fare in modo che ci sia armonia, che anche i concetti più negativi vengano trasformati con vocaboli più piacevoli. Per questo non esistono più né colpa né punizione e quando il nostro protagonista uccide la moglie si trova in una situazione surreale perché nessuno riconosce la sua colpa. Lo psicologo e gli assistenti che si occupano del suo caso continuano a dire che la donna è morta per un incidente domestico e per questo lasciano il nostro protagonista a piede libero, ma gli tolgono il figlio perché ritengono che sia squilibrato e non se ne possa occupare. Da qui origina la crisi esistenziale del protagonista che vorrebbe vedere riconosciuta la sua colpa per avere modo di espiare perché se non c'è colpa non c'è nemmeno possibilità di redenzione. È un romanzo molto filosofico ed è per questo che non ha suscitato il mio entusiasmo. Gira sempre intorno agli stessi concetti e i fatti narrati sono ben pochi. È indubbiamente una storia che fa riflettere, ma a me non ha dato molto.
Recensione a cura della pagina instagram Pagine_e_inchiostro: L’uomo che voleva essere colpevole é una distopia ambientata in un futuro prossimo, ambientata a Copenaghen. Protagonista é Torben, un uomo come tanti, intellettuale, padre e marito modello. Fino a quando, acciecato da un raptus 0micida, l’uomo non uccide la moglie Edith durante un litigio.
Da qui, si ripercorre la storia di Torben, dalle manifestazioni per i diritti umani negli anni ‘60, fino alla vita controllata e alienante imposta da una società che sopprime le emozioni di chi ne fa parte. Lo Stato difatti mira al bene dell’individuo “dalla culla alla tomba”, arrivando ad abolire il concetto di colpa e pianificando qualsiasi emozione, obbligando così gli individui ad una felicità forzata. Un incubo che è tanto più angosciante quanto reale, se si considera che in Scandinavia lo Stato ha il compito di assicurare la salute fisica e psichica dei suoi cittadini e che i concetti di bene e male tendono effettivamente ad essere aboliti.
Poiché l’0micidio é considerato inadattamento sociale, Torben viene sottoposto a cure psichiatriche e rilasciato in tempi brevi, in quanto non rappresenta un pericolo per la società. L’uomo, incapace di tornare alla libertà, comincerà una lotta per dimostrare a tutti i costi la sua colpevolezza, in cerca di una punizione esemplare.
L’uomo che voleva essere colpevole gioca con il paradosso e la paranoia, raccontando con crudezza l’alienazione sociale, il conformismo obbligato e il senso di spaesamento dell’Uomo odierno. I concetti di etica e di verità vengono sviscerati, in funzione della necessità di Torben di sentirsi colpevole e, come tale, fallibile in quanto Umano. Un romanzo breve ma potente, di grande denuncia sociale, la cui unica pecca (se vogliamo) é un finale un po’ troppo studiato e deboluccio, rispetto al crescendo di tensione dei capitoli precedenti.