S'innamorano di una sagoma di cartone o di un pretoriano in miniatura, odiano i bambini pur portandoseli in grembo, lasciano una donna ma ne restano imprigionati, vomitano amore e rabbia, si tagliano, tradiscono, si ammalano. Sono alcuni dei personaggi del nuovo, strabiliante libro di Michela Murgia, un romanzo fatto di storie che si incastrano e in cui i protagonisti stanno attraversando un cambiamento radicale che costringe ciascuno di loro a forme inedite di sopravvivenza emotiva. "Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita." A volte a stravolgerla è un lutto, una ferita, un licenziamento, una malattia, la perdita di una certezza o di un amore, ma è sempre un mutamento d'orizzonte delle tue speranze che non lascia scampo. Attraversare quella linea di crisi mostra che spesso la migliore risposta a un disastro che non controlli è un disastro che controlli, perché sei stato tu a generarlo.
Michela Murgia è nata a Cabras nel 1972 ed è stata a lungo animatrice in Azione Cattolica. Ha fatto studi teologici ed è socia onoraria del Coordinamento teologhe italiane. Ha pubblicato nel 2006 Il mondo deve sapere che ha ispirato il film Tutta la vita davanti e nel 2009 il bestseller Accabadora, vincitore del Premio Campiello 2010.
È passato molto tempo dall'ultima volta che mi sono intrattenuto con Murgia narratrice. Lei non ci si cimentava seriamente da un po', io l'ho sempre preferita saggista. Nel tempo trascorso dalla lettura di Accabadora e Chirù, di Murgia mi sono riempito le orecchie con i podcast, gli occhi con i video, e il cervello con tutto il suo attivismo polimorfo che da anni intride tutta la sua produzione. Mi ha stranito ritrovarla così nitida nella sua prosa letteraria, che ricordavo diversa: ho sentito nella testa la sua voce ad ogni riga e ho riconosciuto quel suo modo specifico di innalzare a mezz'aria le parole per manipolarle a piacimento con acume e levigatezza. I racconti si susseguono incatenati alla medesima collana: ora speculari, ora opposti, ora combacianti, ora compenetrati. È un gioco raffinato di specchi, con atmosfere che sanno essere familiari ed estranee, umoristiche e inquietanti. In alcuni passaggi, l'appena accennato e il taciuto paiono quasi voler dare inizio ad un romanzo gotico. Come per tutta la letteratura, c'è tanta vita e tanta autobiografia, dietro gli anonimati e le trasfigurazioni: così chi è in scena si fa portavoce di una passione - a questo punto, anche io voglio innamorarmi di Jimin -, o di un credo, o di una convinzione di cui tante volte, nelle interviste e nei pamphlet, Murgia si è fatta portabandiera. In un centinaio di pagine ritrae l'Italia per mezzo di persone in crisi che affrontano una crisi globale, e le fa uno sberleffo, senza aver timore di ridere anche di sé. Tra tutti i suoi atti politici, questo romanzo ricucito è uno dei più riusciti. Murgia che si prende in giro dando voce ad una domestica con visioni diametralmente opposte alle sue, Murgia che permette ad una donna incinta di rinnegare e rifiutare l'aura sacra della maternità, Murgia che rende umano anche chi si ritrae dietro un parlare tecnico e discosto, Murgia che indossa gli abiti di un uomo e scrive la scena di sesso che tutti gli scrittori maschi che hanno ambito allo Strega negli ultimi quarant'anni avrebbero voluto scrivere, Murgia che rende pubblico il suo morire, nell'intervista con Cazzullo e in quel racconto in apertura, fronteggiando il vero tabù della società contemporanea: Murgia dice morte senza guerra. [Morire è stato per secoli un fatto abituale, un momento in cui la famiglia - quella allargata, non pochi intimi - si raccoglieva per accompagnare e celebrare. Lo sviluppo della scienza e della medicina lo ha reso un atto sporco, da celare dietro una tendina mentre si fa piovere disinfettante acre: qualcosa di distante e innaturale, da arginare. C'è bisogno di ritornare indietro di qualche decennio: di ricordarci che sì, si muore, anche di qualcosa che ci cresce dentro, e che, sì, è lecito scegliere di non farci ridurre a pezzi in cambio di qualche mese e che, sì, è lecito scegliere di morire nel modo più pacifico possibile. È legittima l'eutanasia.] Non c'è pagina di Tre ciotole che non sia attivismo.
E io, di questo libro, che con Murgia ho raggiunto una strana forma d'intimità unidirezionale, proprio durante la pandemia qui raccontata, quando aspettavo la sera per quel Buon vicinato con Valerio che era l'unico stimolo intellettuale di quelle lunghe giornate di attesa, paura, noia e prigionia, ne avevo bisogno. Perché, sebbene scriverlo me lo faccia sembrare ancora più illegittimo, anche io avevo bisogno che Murgia mi desse qualcosa a cui aggrapparmi per affrontare la brutta notizia della sua malattia. Perché, come ho detto anche altrove, nel panorama triste e fascio che mi circonda, la sua presenza mi dà conforto. Mi dà sollievo sapere che, a fronte di Ministri che si pronunciano nelle peggio amenità, Murgia da qualche parte sarà pronta ad alzare ancora la voce e a riportare un po' di buonsenso. Auguro a chiunque che Murgia abbia modo di prendersi cura di tutti noi ancora per decenni.
Michela Murgia mi piace molto, moltissimo. L'ho apprezzata come scrittrice di saggi (Istruzioni per diventare fascisti, Noi siamo tempesta, Stai zitta!, God save the queer), ho amato "Accabadora" e forse ancora di più il piccolo e prezioso "L'incontro". Ho adorato i suoi podcast Morgana con Chiara Tagliaferri. Guardavo con interesse le sue recensioni a "Quante storie". La seguo da anni su instagram e sono grande fan della sua rassegna stampa femminista. Come tutti quelli che la seguono sui social so da tempo che è malata e apprezzo molto il suo modo di porsi nei confronti della malattia e del suo vissuto in pubblico.
Mi conosco ed ho un problema personale coi libri (ma anche film, serie tv) amati da tutti e di cui tutti parlano, per cui mi sono detta "o lo leggi subito o mai più".
Ho comprato Tre ciotole in ebook appena è uscito e ho cercato di leggerlo in momenti tranquilli. È molto breve, non mi ci è voluto molto.
Ecco, sono in difficoltà perché non mi è piaciuto. Per niente. Non ci ho trovato quello che lei stessa ha raccontato nelle interviste di averci messo dentro.
Li ho trovati dodici racconti tristi, con personaggi soli e rancorosi, in cui mi è sembrato di leggere tutto il disprezzo della stessa autrice. Non sono riuscita a partecipare al gioco collettivo di immedesimazione promesso. Il racconto che più mi avrebbe potuto toccare per motivi personali (sono madre di un'adolescente che ha avuto grandi problemi psicologici durante e dopo la pandemia) l'ho trovato giudicante e banalizzante.
Ho pensato di tenermi per me questi pensieri, di ometterli per pudore, per garbo. Poi ho pensato a quanto fosse sciocco e vagamente ipocrita. Tre ciotole non mi è piaciuto, ma dovevo almeno provare a spiegare perché.
I racconti che formano questo libro sono uniti (come probabilmente suggerisce anche la copertina) da alcuni fili sottili: temi che ritornano, come il cancro, i riti catartici, la frustrazione nei matrimoni dovuta a ruoli tradizionali, la Sardegna.
Disseminata altresì l’ideologia di Michela Murgia, i concetti fondamentali per cui la scrittrice ha lottato durante la sua vita: l’eutanasia, il poliamore, l’adozione di figli da parte di coppie omo- ed eterosessuali. Il tutto sotto il segno del femminismo, il centro di tutte le battaglie e nucleo ideologico dello stesso libro.
Pur apprezzando tutto ciò, ho sentito la raccolta di racconti più come una collezione di curiosità dallo stile impreziosito, cioè eccessivamente curato (vedi i dialoghi poco realistici, la ricchezza di aggettivi e la minuzia nella descrizione degli oggetti).
Anche la trama, nei 12 brevi racconti, resta secondaria alla volontà di rappresentazione del pensiero ideologico. In ogni caso, credo TRE CIOTOLE sia una valida rappresentazione della società, pandemica o non.
Con la sua frammentarietà, potrebbe voler alludere alla mancanza di punti di riferimento caratteristica degli ultimi anni, mentre suggerisce anche una via d’uscita da questa confusione, cioè l’accettazione e l’affermazione del proprio io, dei propri bisogni e necessità.
Ecco l’utilità dei rituali che ciascun personaggio s’inventa per poter resistere al mondo e trovare il senso dell’essere ancora parte di questo meccanismo sociale spesso insensato.
Per quel poco che l’ho conosciuta e seguita credo ci siano in questi racconti, tutti legati o concatenati fra loro, e in cui è presente in maniera più centrale o anche solo accennata il cancro, tutti i temi cari a Michela Murgia, il centro della sua saggistica e l’obiettivo della sua lotta intellettuale e politica: il patriarcato, la violenza contro le donne, l’aborto, la maternità in tutte le sue forme e la genitorialità, la sorellanza, il body shaming e i disturbi dell’alimentazione, la malattia e il virus (quello là, quello che ci ha stravolti la vita è che ci siamo già dimenticati), l’eutanasia, la famiglia queer e quella tradizionale, le relazioni di amicizia, di amore, di sesso. Persino la musica k pop e le ossessioni social. Sembra un fritto misto, ma non lo è, io l’ho percepito come un qualcosa molto più sfumato, molto vicino alla realtà che viviamo tutti i giorni.
Sono stata a lungo prevenuta nei confronti di Murgia (la lettura di Ave Mary a suo tempo mi aveva innervosita parecchio perché mi era sembrato un saggio scritto a tesi e quindi non equidistante) e molti dei suoi atteggiamenti pubblici non li ho condivisi né apprezzati, ma le ho sempre riconosciuto impegno e passione, e intelligenza, soprattutto. Non è stato per un tentativo di riconciliazione, dunque, se ho deciso di leggerla, dopo la sua morte e dopo aver apprezzato i contenuti dell’intervista concessa tre mesi fa ad Aldo Cazzullo con la quale annunciava ai lettori (e a tutti) il suo cancro al quarto stadio, ma per curiosità. Ecco, all’inizio ho faticato, e proprio quello sembrava essere il suo racconto più autobiografico è stato quello con cui, soprattutto per la scrittura, che mi respingeva, ho faticato di più a entrare in sintonia ma che, al tempo stesso, è stato quello che ha aperto una breccia in quella che forse era stata la mia resistenza. Non posso dire che siano dei capolavori, alcuni mi sono piaciuti di più, altri meno, altri ancora mi hanno lasciato perplessa, ma in quasi tutti ho all’improvviso visto un bagliore, un qualcosa che li ha illuminati fino a lasciarmi un sorriso, una sensazione di benessere o anche di malinconia, oppure una punta di tristezza priva di disperazione, di quelle che riescono a lasciare un accenno di sorriso o di serenità d’animo. “Finché morte” e “Cambio di stagione”, forse, quelli che ho preferito. Tre stelle e mezzo.
Non sono solita lasciare recensioni scritte, ma vi prego di illuminarmi su ciò che a me evidentemente è sfuggito di questo libro.
La frustrazione è il filo conduttore di questi racconti che a me personalmente non ha disturbato (come invece ho letto in altri commenti). Il primo capitolo, che suppongo essere anche quello più personale, è l'unico che mi sia realmente piaciuto. Alcuni racconti li ho trovati noiosi e facevo fatica a rimanere concentrata, altri non li ho capiti fino in fondo e li ho trovati inconcludenti. Ma fin qui probabilmente è stato un problema mio.
Ammiro molto Murgia ed ho appreso tanto da lei e i suoi scritti in termini di femminismo intersezionale. Ma l'intersezionalità deve essere estesa a tutt3 e da questo libro è evidente che non abbia posto un pensiero dietro all'abilismo ed al sanismo.
Il capitolo "Grazie dei fiori" in cui narra della ragazza autolesionista è inverosimile sia dal punto di vista di quest'ultima e della sua amica sia dal punto di vista dell'insegnante, inoltre l'ho trovato giudicante e superficiale.
Ma il capitolo che mi ha fatto venire i brividi è stato "Stato di servizio". Cito testuale: "Il ragazzo dei signori non è nato bene, ha l'autismo e non reagisce come gli altri. Deve essere stato difficile per il Colonello, [...] , dover accettare di avere un figlio così fragile, ma le disgrazie arrivano a chi può sopportarle e lui non è un uomo che si tira via dalle responsabilità." Aiuto. Davvero, aiuto. La giustificazione potrebbe essere che a parlare sia la domestica dando però così per scontato che sia una persona ignorante? Neanche questo è molto intersezionale. Non si può leggere su un libro di questa portata una cosa del genere, a mio parere.
Comunque le persone SONO autistiche, non hanno l'autismo. Essere neurodivergenti non è una malattia, di conseguenze non c'è niente che debba essere guarito e nessuna disgrazia da dover sopportare.
Era da tempo che volevo leggere "Tre ciotole". Mi ha fatto un certo effetto farlo adesso, dopo quattro mesi scarsi dalla sua scomparsa. Questa raccolta di racconti mi è sembrato il suo testamento spirituale.
“Carcinoma renale al quarto stadio. AM. Un lampo. AM. Un altro lampo. AM. Ancora uno. Mentre firmava i fogli e lui compilava la ricetta, la sillaba continuava a lampeggiarle in testa e d’improvviso prese coscienza del fatto che il medico non aveva mai nominato la malattia.”
Un libro in cui nei vari racconti Michela Murgia affronta tutti i temi di cui lei non ha mai avuto paura nel parlarne: dal tumore, al patriarcato, alla famiglia queer, all'eutanasia, alla maternità e alla genitorialità in tutte le sue forme.
“Lungo il pomeriggio i capi andarono via uno dopo l’altro e con loro i ricordi che ciascuno si portava nell’ordito. Lei perse quasi subito interesse a memorizzare chi se li era portati via, sentendosi all’altezza di un passato non suo. Mentre il sole scendeva tra gli alberi contò i pochi capi rimasti appesi e si trastullò con il pensiero magico che non se ne fossero voluti andare, scoraggiando in qualche modo misterioso gli approcci estranei.”
Resteranno le sue parole forti di donna rivoluzionaria. Resterà la sua voce e resterà la sua spietata ironia. Resterà tutto di lei. Anche se lei non è più qui tra noi. “Quando anche l’ultimo invitato se ne era andato col suo bottino di stoffa, si sedette sotto un albero e pianse in silenzio tra le ombre dei rami sempre più distese, mentre il vento calante lasciava i vestiti rigidi sulle grucce, pelli di rettile, mute del serpente che era stata sua sorella, velenosa e calda, piena di spire.”
Un libro di una tenerezza infinita, che ha il sapore di un addio meditato e di progetti ancora aperti. La profondità della scrittura di Murgia, ben esercitata nella saggistica, torna alla narrativa con una potenza evocativa nuova. Rimane in bocca il sapore amaro di certi racconti di Carver e una luce abbacinante da scrittura teatrale. Chapeau.
Se penso a questo libro semplicemente per quello che è, mi sembra una sfilza di personaggi tristi e deprimenti, tratteggiati con superficialità in un racconto volutamente grottesco ma banale. Se penso al fatto che sia probabilmente l'ultimo della Murgia non comprendo la scelta di lasciarsi dietro questo circo di frasi fatte.
Fan affezionatissimo di Michela Murgia da molti anni, seppure non segua i social network non ho potuto fare a meno di ascoltare alcune sue battaglie e perorazioni, rimanendo sempre ammirato e considerandola una saggia sorella maggiore. Mi ha prostrato la notizia della sua malattia prima, e della rapida morte poi. Un trauma che ha colpito me e molte altre persone al pari della perdita di una persona cara, di una guida. Come molte e molti mi sono sentito smarrito e affranto, per la perdita di un talento e una mente così peculiari, da essere insostituibili. Ho ritardato la lettura del libro perché le sue opere precedenti di narrativa mi erano piaciute senza che me ne innamorassi, portandomi a preferire la saggistica militante e gli editoriali. Inoltre mi sembrava di capire che i lettori non fossero del tutto entusiasti di questo libro, e temevo di rimanere deluso.
Scopro invece racconti originali e intimi, incatenati in maniera non banale, misurati nell’utilizzo di sentimento o cinismo, a seconda della circostanza. Pieni di sensibilità e intelligenza, coraggiosi e a volte violenti, come d’altra parte tipico dell’autrice. Nessuno di questi banale, ma perfetto nell’intento di rappresentare un allenamento ai diversi punti di vista su crisi personali e collettive, con l’obiettivo, forse preponderante fra gli altri, di allenare all’apertura mentale e all’abbandono del pregiudizio. L’”uomo di merda” è un’altra persona vista attraverso gli occhi dei suoi amici, la donna apparentemente superficiale gestisce con controllo traumi dell’infanzia, la malattia presenta sfaccettature impensabili con approccio innovativo. Mi lascia un grandissimo regalo Michela Murgia, un’opera diversa delle sue ultime ultime e urgente, sincera e diretta, molto più intima ma anche collettiva. Con una storia finale commoventissima.
Difficile che io legga un libro in cima alle classifiche di vendita. Ma la scelta della Murgia di dar voce ai morituri mi ha emozionato. Il libro è bello, anche se non alla pari di "Accabadora". Però il capitolo Utero in affido mi ha fatto impazzire.
Seguo Michela Murgia da molto tempo. Mi piace il suo modo di discorrere, con rabbia o distensione.
Sono stata attratta infatti dalle diverse interviste in cui ha parlato di questo libro, tant’è vero che l’ho acquistato appena uscito.
Si percepisce il tentativo di tratteggio antropologico dei personaggi e di regalare una fotografia dei tempi pandemici. La scrittura è lucida, alta, precisa. Eppure come già mi era capitato con altri suoi libri, ha attecchito su di me con una certa glacialità. Non sono riuscita a riscontrare nei racconti quello che lei stessa ha riportato oralmente e tranne due o tre racconti che mi hanno colpito, è stata una lettura di intelletto ma poco sentimento. E mi spiace molto.
Accabadora mi era piaciuto tanto, Chirú poco e Ave Mary lo avevo regalato dopo averlo letto, mentre Stai Zitta lo avevo regalato ma me lo ero anche tenuto. Forse questo breve riassunto puó servire a capire che la Murgia mi piaceva, ma non sempre e non troppo, peró questo non significa che non la stimassi, magari peró la ritenevo piú un personaggio che non una scrittrice. Questi racconti invece, forse perché li ho ascoltati e anche se sapevo che non era cosí, mi potevo quasi immaginare che fosse lei a leggerli perché non era morta e che avrebbe continuato a scrivere cose cosí belle.
Era partito benissimo, con i primi 2/3 racconti, poi non so cos’è successo. Pare che il focus si sia perso per strada, e molti non sono stati così incisivi. Peccato, confidavo molto in questo ritorno alla narrativa di Michela Murgia. E forse, proprio per questo, le aspettative erano troppo alte.
Nulla da aggiungere a quanto già scritto, se non la malinconia per quanto manca nel panorama culturale questa donna incredibile.
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Ho aspettato un po' ad immergermi nella lettura di questo libro, non tanto per un discorso di aspettative alte, ma soprattutto perché sapevo che lo avrei letto pensando che potrebbe essere l'ultimo scritto da una delle mie autrici preferite, un'intellettuale raffinata che ammiro e che ascolterei parlare per ore. Non ho cercato autobiografia tra queste pagine, non mi interessa sapere quanto maggiormente aderisca alla vita dell'autrice uno o più dei racconti, se quelli scritti in prima persona o quelli in terza. Sono storie che graffiano lasciando il segno, ed è proprio quella ferita, quel segno, che volevo trovare. La crisi della persona, fisica o mentale, l'imponderabile, la perdita di controllo, lo scossone che ti fa perdere l'equilibrio e che apre lo spazio al cambiamento, il rituale apparentemente insensato, che ti permette di ritrovare un punto fermo, una certezza. Non ci sono conclusioni vere, somme da tirare, sono solo squarci di vita. È come affacciarsi ad una finestra e stare a guardare, ma solo per un po'. Immagini, suggestioni, squarci di disagio mentale che non devono necessariamente essere spiegati, ma devono essere visti, vissuti, attraversati per accettare di perdere il controllo. I racconti sono ambientati nel periodo della pandemia, ma in realtà non la raccontano. Sono i legàmi il fulcro di questo libro, e vengono raccontati scardinando gli schemi tradizionali imposti dalla società. Mi è piaciuto molto anche il fatto che che ci sia un filo conduttore che unisce i racconti l'uno all'altro, pur restando distinti e diversi: è il punto di vista narrativo a cambiare, perché ognuno di noi, in un momento di grande difficoltà, appronta un piano di sopravvivenza che non deve essere per forza logico agli altri, ma ha il solo scopo di contenere gli argini del disagio provocato dal vacillare delle certezze. Ognuno di noi, di fronte al baratro, sopravvive come può. Deve sedimentare, ogni storia, e una prima lettura non è sufficiente per cogliere tra le righe tutte le sfumature che ne fanno un atto politico. Queste pagine mi hanno coinvolta e portata a riflettere sulla società rispetto a temi come malattia, famiglia, amore, amicizia, ma da una prospettiva diversa, meno scontato.
Recentemente, partecipando a un panel dell’autore Francesco Piccolo gli ho sentito spiegare che scrittore (o scrittrice) è non chi ha ricevuto i migliori voti nei temi di italiano a scuola, quanto piuttosto chi sente di avere qualcosa da dire e di avere la voce per dirla. La questione della voce – sostiene Piccolo – è il tassello fondamentale della scrittura, e anche la più difficile delle autovalutazioni per l’aspirante autore: ci vuole molta consapevolezza di sé per poter capire se si ha davvero “una voce”.
Faccio questa premessa perché proprio la voce è stata per me l’elemento che ha reso Tre Ciotole un perfetto romanzo corale. La voce di Murgia, certo, ma più in particolare le dodici voci che è riuscita a donare ai suoi dodici protagonisti. Resto sempre piuttosto colpita da questa capacità di totale empatia con un personaggio, in particolare con quei personaggi così diversi – per carattere o opinioni – dall’autore che li ha creati; e in questo romanzo di personaggi ben diversi da Michela Murgia ce ne sono svariati, eppure non da meno i loro capitoli danno un senso di realtà, di verosimiglianza, pari a quello di altri i quali invece mi hanno fatto pensare con un sorriso «eccola qui, è lei». Tre Ciotole mostra, senza edulcorarle, le varie sfaccettature della società post-pandemica, caratterizzata da un nuovo livello di ansie, depressioni, perdite, ossessioni, rinascite, fedi. Aver dato a ogni personaggio la possibilità di raccontarsi, fa sì che tutte queste realtà vengano mostrate senza giudizio, dal punto di vista di chi vive questa nuova quotidianità, non sempre del tutto conscio del modo indelebile in cui la pandemia lo ha segnato. Ho letto questo romanzo con un peso sul cuore, trovo che Michela Murgia sia un’intellettuale necessaria a questo mondo, ma soprattutto a questa Italia che può solo imparare da un’autrice, attivista e donna straordinaria come lei.
Letta per un incontro del mio club del libro, e iniziata con più di qualche perplessità (avevo già affrontato, anni fa, il blasonatissimo Accabadora), questa raccolta di racconti coniuga egregiamente temi non originali con uno stile pretenzioso, ridondante e puerile. Dodici storie di un disagio legato perlopiù, ma non solo, alla pandemia, in cui si canta un malessere fortemente banalizzato, ridotto spesso alla sua caricatura. Raramente ho visto (mal)trattare temi delicati - eutanasia, autolesionismo, malattia terminale, tanto per citarne alcuni - con tanta fantasiosa superficialità. Non mi aspettavo uno scritto carico di empatia, ma neppure questa teoria di personaggi rabbiosi/perdenti/autoindulgenti penosamente indistinguibili tra loro. Imbarazzanti le descrizioni a sfondo erotico.
L'ultimo lavoro di Michela Murgia è quello che ho preferito meno rispetto alle altre sue opere che ho affrontato e amato in precedenza. In questi racconti, però, è racchiuso tutto ciò che era Michela e che continua a rappresentare. Risiede proprio in questo, a mio parere, l'importanza di quest'opera.
Si va dai racconti sulla malattia di cui non si può non intravedere la matrice autobiografica, alla maternità (e non maternità), alla pandemia, e ancora di parla di relazioni, di come riappropriarsi dei propri spazi, della violenza insita e spesso celata nella nostra società, di solitudine, fino all'ultimo racconto che, collegandosi al primo, chiude il cerchio e che è tra quelli che mi sono piaciuti di più. Ho amato rintracciare tra le righe la sua intelligenza, la sua penna elegante e sagace, quel suo modo di raccontare unico e capace di arrivare a tutti. Ci sono racconti più incisivi e altri meno, ma nel complesso hanno tutti, chiara, l'impronta della sua voce per tutti noi che ne siamo stati privati troppo presto.
Queste tre ciotole contengono pochi ma densi racconti.
Michela Murgia fotografa i momenti della vita più nascosta e segreta di una manciata di personaggi, tutti in un modo o nell'altro legati tra loro e non solo da rapporti famigliari o di amicizia. La malattia li accomuna un po' tutti e non è solo il cancro (da imparare a definire, a combattere, a svelare o a mascherare) o il covid (da tenere lontano da chi si vorrebbe sempre più vicino), ma è anche qualcosa di più sottile e di tanto, tremendamente simile alla pazzia. Vi sono fissazioni, manie, ossessioni che stravolgono la realtà, cartonati di cantanti coreani che diventano amanti, bravi ragazzi che ammazzano topi indifesi, soldatini giocattolo che trasmettono virus, pensieri opere e omissioni che hanno il potere di uccidere.
La raccolta di racconti perfetta esiste, ed è questo piccolo tesoro.
Se penso ad un rituale penso ad un’azione - o ad una serie - caratterizzata da un’atmosfera solenne, connessa alla religione (qualunque si voglia intendere) e alla fede. Qualcosa che inizia con un vero atto di fede e arriva a diventare reale, tangibile. Qua di rituali connessi alla sacralità del termine non ce ne sono, e anzi, questo li rende ancora più intimi per chi li compie: sono atti privati e salvifici e in quanto tali, misurati sul loro esecutore. Non esiste la salvezza fisica; l’unico concetto che mi viene in mente è quello inverecondo e inflazionato della “comfort zone”, il rituale ci fa immergere in questo liquido denso in cui si può stare incastonati a metà senza doverci costringere a fare effettivamente, ostentatamente e violentemente i conti con qualcosa: non è una via di fuga, ma una pausa per guardarsi intorno, senza la smania del mondo moderno di affrontare, combattere, sconfiggere qualcosa come se la vita intera fosse una guerra continua. I protagonisti di questi racconti (per citarne uno) ricalcolano e ripianificano - chi da solo e chi trovando supporto negli altri - in seguito ad imprevisti e inciampi di fronte ai quali si sentono spiazzati. Sono protagonisti pazienti, coraggiosi, flessibili, resilienti. Ed ecco che ogni gesto può diventare un rituale e ogni oggetto può trasformarsi in sacro, non salvando nessuno ma cambiando tutto. Altro non so dire.
Onestamente e con dispiacere non mi è per niente piaciuto. Premesso che faccio sempre fatica con i racconti brevi, io queste storie le ho proprio trovate brutte. Non riesco neanche a cogliere il filo conduttore, forse la malattia e la morte in varie forme. Mi ha trasmesso solo un senso di malessere, depressione e incompiuto.
Io l’ho amato, l’esperienza collettiva che lega i 12 episodi mi ha fatto molto riflettere su tutte le vicende (ok molto tristi) dei personaggi. A mio avviso questo racconto dovrebbe essere un’alert per tutti quelli che pensano che in superficie tutto può andare bene, ma non si può mai sapere quello che c’è dietro la vita di ognuno. Fermarsi a riflettere ed empatizzare non è mai banale.
Non condivido e non comprendo le critiche, sarò ottusa e mi va bene così.
Dodici racconti che attraversano un anno legati da protagonisti che si perdono e si ritrovano. È così che si potrebbe riassumere tre ciotole di Michela Murgia, una raccolta di racconti scaturiti da quei bivi che la vita mette davanti.
Cosa succede quando tutto sembra perduto? È questa la domanda che risuona, leggendo Tre ciotole. Sì, perché ogni racconto, più o meno efficace, attraversa questa domanda nella sua intricata complessità: dalla malattia incurabile ( purtroppo, evidente riferimento biografico) a coppie che si lasciano fino ai disturbi alimentari. È la ricerca di nuovi se stessi che accompagna tutti e dodici i racconti, nei quali ognuno cerca ( anche disperatamente) un nuovo equilibrio, anche quando la rotta sembra perduto.
Eppure, non mi ha convinto fino in fondo: alcuni sono toccanti e profondi ( come il primo); altri invece mi sono risultati ostici e non sono riuscita, in tutta onestà, a trovare la chiave di lettura corretta. Ed è per questo che ne sono rimasta perplessa. Credo che Tre ciotole sia nato come metodo di contrasto alla scoperta della malattia dell'autrice, imponendosi come una sorta di antidoto ( se mai fosse possibile) alla disperazione. È l'urgenza di accettazione e condivisione a far nascere Tre ciotole.
in questo libro ogni storia contiene una perdita; la penna di Michela è riuscita ad accompagnarmi in questi viaggi, per farmi capire come la vita possa spezzarsi ma mai svuotarsi completamente.
Ammetto di aver deciso di leggere questo libro solo dopo aver scoperto che avrebbero fatto l’omonimo film. Non conosco Michela Murgia se non di nome e per la triste malattia che purtroppo l’ha colpita ma devo dire di essere rimasta piacevolmente sorpresa dal suo spirito e dalla sua penna.
Partiamo dal libro, “Tre ciotole” è un romanzo corale ma è anche una raccolta di racconti, dodici per la precisione come i mesi dell’anno, ognuno legato da un filo sottile. Infatti, in tutte le dodici storie, i protagonisti compiono un rituale per affrontare un periodo di crisi sia esso una malattia, la fine di una relazione, una gravidanza non voluta, un lutto o addirittura la pandemia! Dodici vite che si sfiorano senza però mai toccarsi veramente. Dodici punti di vista differenti,a volte narrati in prima persona altre volte in terza persona. Dodici voci diverse ma con un’unica intenzione: tentare di affrontare la vita e le sue brutture.
Sicuramente una lettura non facile nonostante si finisca in poche ore. Storie apparentemente semplici ma mai banali, ognuna con un dettaglio importante che le caratterizza (vedi le tre ciotole del titolo) e narrate con una velata ironia che smorza le importanti e delicate tematiche, lasciando al lettore un retrogusto dolce e amaro.
Alcune storie le ho apprezzate più di altre, spesso non sono riuscita a cogliere il sottilissimo filo che le legava, ma in generale è stata una lettura che in qualche modo mi ha lasciato il segno.
Passiamo al film che, se all’inizio non mi stava convincendo del tutto, dialogo dopo dialogo, immagine dopo immagine, mi ha completamente conquistata e trasportata. Le parole di Michela Murgia, che già mi avevano colpita nel libro, mi sono arrivate dritte come un pugno in faccia, intensificate della meravigliosa fotografia e dalla delicatezza e sensibilità della recitazione degli attori Alba Rohrwacher, Elio Germano e Francesco Carril.
La regista ha destruttarato totalmente il libro estrapolando l’essenziale di ciascuna storia creandone una unica, ma nella quale c’è tutto l’essenziale per essere universale. La malattia diventa un’ombra sottile, non viene mai esasperata, c’è, ma è silenziosa, lascia spazio alla vita e al tempo che, per quanto siano destinati a finire prima o poi, possono regalare ancora infinite possibilità ed emozioni.
E poi c’é Roma, in tutta la sua bellezza.
Il libro mi ha fatto molto riflettere ma con compostezza. Il film è riuscito a toccarmi dentro nel profondo, fino alle lacrime.
Una Murgia con un lessico nuovo. Il personaggio femminile che nelle pagine successive descrive, fa pensieri e dice cose che non trovo nessuna congruenza con lei. Una donna superficiale e dipendente dall’uomo. Cosa che conoscendo la scrittrice è giusto l’opposto. Sicuramente le prime 20/30 pagine le più attrattive.
C'è una frase di questa autrice che mi è spesso risuonata nella testa come una litania: "riemergere da sé stessi è tanto più difficile quanto più si è profondi". Parole di tantissimi anni fa, di pagine trascorse come il tempo in cui le lessi la prima volta, al caldo sole di una spiaggia che di certo l'ha vista nascere. Come un filo che segna un dato percorso di settimane, mesi e anni, in un istinto tutto fisiologico, è proprio a questa profondità che mi son ritrovata di fronte ai racconti contenuti nel suo ultimo libro, laddove il riemergere spicca come la più dominante delle azioni. Non tanto l'azione in sé e per sé, ma il modo con cui si vive la crepa che ci costringe a un altro vivere: è questo il fulcro dei dodici racconti di "Tre ciotole - Rituali per un anno di crisi": per ogni crepa una storia; per ogni rottura uno sguardo, un'idea e un agito. Personaggi privi di nome che un nome si ritrovano a cercare, affinché quelle crepe uccidano meno. Che un'uscita devono raggiungere, perché un nemico all'infuori di sé non è mai il peggiore. Che un amore devono pur riscoprire, persino in un oggetto, perché il lascito di un vuoto non si confonda con la vita.
Storie di relazioni, di mali di organi e animi, di interruzioni e prolungamenti: a fare da cornice la pandemia Covid-19, le cui distanze forzate raggiungono le forme della sicurezza, della rabbia o di una matrice di difficoltà in rapporto allo sguardo che si è scelto per vedere. Racconti intimistici, quelli proposti da Michela Murgia, il cui filo che li connette genera e induce una comunanza: chi vive dentro queste pagine ha il dono della resistenza e di chi, dentro le crepe, scopre un proprio modo di starci. E le "tre ciotole" non sono che il simbolo della ricostituzione di un senso: di sé nel dolore, di sé nella propria personale crisi. Di sé in tutte le cose che occorrono perché alla profondità del proprio esistere e vivere si arrivi, semplicemente, con l'unica cosa possibile che resta, finché morte: quello che siamo.
Chi mi conosce attribuirà il fatto che io abbia dato così poco a questo libro perché non ho alcuna simpatia per l’autrice. Diciamo che l’unica simpatia che ho per lei è che si possa curare dal suo male, che non si augura al peggior nemico. Resta che questa raccolta è un’accozzaglia di racconti inconcludenti, inutilmente crudeli, nemmeno cinici ma vuoti, spenti e senza scopo. Riferimenti estemporanei alla Corea, scene di sesso esplicite abbastanza imbarazzanti, e la spiegazione della parola cringe. Alla fine di ogni racconto avevo un misto di frustrazione, rabbia e l’atteggiamento di Caio nella Spada nella Roccia che, con un osso spolpato e le carni ancora in bocca dichiara “E con ciò?”. (Aggiungo che l’ho letto per dovere del gruppo di lettura, che mi ha fatto capire che questa scrittrice non è per me, in nessun contesto)