Dal Sentiero dei nidi di ragno a Palomar, Italo Calvino non ha mai smesso di raccontare animali. Ma che cos’hanno in comune una colonia di formiche argentine nel Ponente ligure, un gorilla albino nello zoo di Barcellona, una gallina in un’officina torinese, gatti ribelli in una città industriale e un coniglio transfugo dalle grinfie dei vivisettori? La risposta è sono tutti animali che ci dicono di noi umani e del modo in cui la nostra specie è diventata così pesante sulla Terra da determinare una nuova età l’Antropocene. Seguendo le tracce di Calvino attraverso le storie di questi cinque protagonisti all’apparenza improbabili, Serenella Iovino ci parla di un’epoca in cui l’animale è minaccioso e minacciato, e soprattutto non è il totalmente “altro”: perché animali siamo anche noi, creature in un mondo che sfida gli equilibri, anche politici, di un difficile percorso di co-evoluzione.
Non direi che questo è un libro su Calvino, piuttosto è un libro attraverso Calvino. È un libro che usa le parole e le storie di Calvino quasi come un palinsesto, per inserirvi le parole e le idee dell’ecocriticismo contemporaneo, ai tempi della Sesta estinzione e dell’Antropocene: “Attraverso Calvino, in realtà il libro parla di animali, di ecologia e di Antropocene” (p. 13). Questo in effetti si può fare con ogni autore ed ogni epoca della letteratura, come mi ha detto una volta Serenella, in una chiacchierata di tanti anni fa in un parco di Milano. Si può fare perché non c’è poesia e storia che non sia un modo di raccontare l’ambiente in cui la storia si svolge, o meglio, appunto, attraverso cui la storia si svolge. L’intento di questo genere di operazioni non è filologico: non si tratta di far dire a Calvino quello che non ha mai detto, di attribuirgli anticipazioni del futuro che non ha mai fatto. Ma nemmeno si può dire che Calvino sia un pretesto indifferente: parliamo di un autore che ha avuto per gli animali e per l’ambiente una sensibilità inusuale, figlia anche della sua formazione e della sua particolare sensibilità. Diciamo che lavorando con Calvino l’operazione tentata da Serenella Iovino è più facile e produttiva che lavorando su altri autori. E dunque in questo libro troviamo una lettura di Calvino come autore “dell’Antropocene”, cioè come scrittore che, ben prima che il termine fosse coniato, ha saputo raccontare l’intreccio tra attività umane e dinamiche geologiche, atmosferiche, biologiche e sociali del pianeta. Non si tratta soltanto di un’operazione critica su un autore classico: l’obiettivo dichiarato è più ampio, perché Calvino parla di animali, ecologia, responsabilità e forme di vita nell’epoca segnata dalla Grande Accelerazione. La chiave è spostare lo sguardo: non guardare la realtà solo “con gli occhi dell’umano”, ma assumere la reciprocità degli sguardi tra specie, riconoscendo che gli altri animali non sono sfondo o allegoria, bensì soggetti, vittime e interlocutori in una storia comune. Esemplari di questo approccio sono le pagine sull’esperimento nucleare nell’atollo di Bikini: l’intuizione di un giovane Calvino (“Le capre ci guardano”, 1946) capace di immaginare un giudizio animale sull’agire umano. A questo sguardo inquietante Iovino collega la traccia materiale del fallout, l’idea dell’essere umano come “forza geologica” e le discussioni sulla categoria Antropocene (e sulle proposte alternative come Capitalocene, Piantagionocene, Wasteocene), per mostrare che la responsabilità di quanto sta accadendo non è di un generico Anthropos, ma di sistemi economici e politici storicamente individuati, che mercificano corpi, territori e vite. In questo quadro, le opere di Calvino diventano una sorta di stratigrafia narrativa: dalla speculazione edilizia alla trasformazione della litosfera, dalla nuvola di smog al cambiamento dell’atmosfera, dalle vicende di Marcovaldo e all’ingiustizia ambientale nella nostra società, dalla formica argentina all’alterazione della biosfera. Un altro esempio sono le pagine che partono dal racconto “La formica argentina”. Le formiche argentine di cui parla Calvino, invasive e inarrestabili, sono lette come emblema della biosfera globalizzata: un “nemico” non umano che però è prodotto anche dalle rotte commerciali e dalle infrastrutture dell’economia fossile. L’invasione domestica diventa inquietante proprio perché mostra come l’Antropocene entri nella carne (fino alla formica nell’orecchio del bambino di cui leggiamo nella storia di Calvino). Iovino intreccia qui Calvino con gli iperoggetti di Morton, con gli agenti collettivi di Latour e con la critica ai biocidi di Rachel Carson: ne trae un’analisi poli-prospettica, ma convergente, sull’ambiguità (spesso autodistruttiva) della promessa di controllo tecnologico. Al tempo stesso, la sociobiologia delle formiche suggerisce una lezione anti-antropocentrica: la mente non è necessariamente quella dell’individuo, può esserci una mente collettiva, una cultura può essere non umana, e la centralità ecologica degli esseri umani vacilla davanti all’ipotesi paradossale che il nostro ruolo sia quello di dispersori della formica. Calvino è poi utilissimo per pensare anche l’articolazione interna (violentemente politica) di questo noi con cui siamo tentati di pensare il rapporto tra noi umani, animali e natura in genere. In Calvino il destino degli animali converge spesso con quello degli umani marginali, come diventa particolarmente chiaro nei racconti e nei testi che illuminano le zone oscure dove l’Antropocene confina i viventi altri (umani e animali) al ruolo di “corpi di scarto”: questi luoghi sono, in modi diversi, il laboratorio, la fabbrica e lo zoo: In questi tre luoghi, la cui affermazione su larga scala coincide con l’inizio dell’era industriale, il destino degli animali converge sovente con quello degli umani marginali, generando forme di dominio che si annidano nella carne stessa dei viventi (p. 28). Con i gatti di Marcovaldo (“Il giardino dei gatti ostinati”) il tema diventa urbano: dov’è la natura nella città industriale, e che tipo di natura è? Non un paradiso perduto, ma una presenza compromessa, dispettosa, tossica, che resiste negli interstizi. Il giardino felino è interpretato come refugium scampato alla fine dell’Olocene: un’eterotopia che contesta l’ordine della cementificazione e rende visibile il vero “alieno”, Anthropos, il soggetto corporativo che produce spazi di potere e scarto. Qui Iovino inserisce Tsing e Haraway nell’accogliente palinsesto fornito dalle parole di Calvino: la questione non è sentimentalizzare gli animali, ma chiedersi dove siano i luoghi sicuri per profughi senza rifugio, umani e non umani, e come la perdita dei refugia sia insieme ecologica e sociale. Attraverso molte altre storie ed analisi, il libro giunge così al suo epilogo, che propone l’idea calviniana di un’opera “fuori dal self”, quella che Iovino prende in prestito per chiudere sul compito della letteratura: far parlare ciò che non ha parola (uccello, albero, pietra, plastica, creatura umana emarginata), continuando la linea di Ovidio e Lucrezio come immaginazione della continuità delle forme. Le storie di Calvino ci mostrano che non siamo i protagonisti unici del pianeta e che ogni specie è un “organo di senso e di immaginazione” del mondo: ogni assenza restringe la realtà di tutto ciò che vive, come quando un amico esce dalla nostra vita, e perdiamo insieme a lui quella nostra parte che esiste solo in rapporto a lui. Anche le lingue e i saperi si estinguono, come gli animali e le piante, e ricordare diventa un atto di resistenza: raccontare animali, piante e mondi viventi, a rischio di estinzione, o estinti, significa farli persistere, almeno come possibilità etica e immaginativa, dentro la rete delle storie che abita la Terra. E che la rende, speriamo a lungo, abitabile.