Tutto è diverso da quello che sembra. E se l'amore negato, l'ingiustizia che accende una rabbia cocente, "tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani", diventano i semi di una storia da far fiorire a fuoco nella mente degli altri, l'esistenza può perfino rivelarsi inaudito viaggio dentro e fuori dal labirinto in cui scalpita, smascherato, il minotauro dei falsi sentimenti. Qual è la verità che Arlette, Suzanne e Geneviève cercano di nascondere al giovane protgonista di questo Seminario? Quale ruolo sociale potrà ingabbiarlo mai, se fino dall'infanzia Barbino si ribella ad ogni convenzione e tradisce soltanto per garantir una sincerità profonda? Luminoso e unitario, questo è stato il primo romanzo di Aldo Busi, ed è già diventato un punto di riferimento per i giovani dei molti paesi in cui è stato tradotto: un classico della letteratura più elegante, quella che sa parlare con il ritmo e il respiro della vita.
Aldo Busi is an Italian writer. In his dense and material language, full of influences of various origins, Busi captures, almost through a sympathetic action, the various pulsations of reality. A sensitive, scathing intellectual, he reveals the nature of a moralist beneath the surface of his sophisticated amusement. After his famous debut with Seminar on Youth (1984), he published the novels Standard Life of a Temporary Pantyhose Seller (1985) and The Byzantine Dolphin (1985), followed by the controversial miscellaneous Sodomies in Elevenpoint (1988).
Guarda l'Aldo che tira fuori un Signor libro, prime pagine incomprensibili e poi un fulmine: anch'io quando mi diletto a scrivere lo faccio per tutti e per nessuno indi sono in ballo e allora ballo. Quando sei riuscito a varcare il portone della sua testa scorre ma ti tiene comunque sempre impegnato, buttandoti addosso immagini e parole arcaiche e inusuali, nuove e raffinate. Mi spiace per chi ci si avvicinerà per la tematica omosessuale sperando di trovarci descrizioni oscene. È tutto poesia. Nella vita di tutti i giorni, un atto di coraggio che abbiamo quasi interamente dimenticato.
Finalmente, dopo mesi, son riuscito a terminare questo libro ed ora, giunto al termine, mi sento combattuto. La prima riflessione è che tanto tempo ho impiegato nella lettura perché tanta è stata la fatica. Spesso mi son trovato a pensare “oh no, ancora”. La fatica, ed il fastidio, son stati dettati dal più grande difetto che ha il Seminario, cioè dalla boria in cui è immerso. Si tratta di un libro arrogante quasi in modo insopportabile. Busi non si preoccupa di comunicare ma colloca il suo pensiero nelle più alte sfere celesti, senza la minima cura dell’intelligibilità e quindi della comprensione da parte dei poveri mortali, plebaglia che disprezza ad ogni singola riga. Dopotutto è chiaro fin dal titolo: questo è un seminario ed egli è il Gran Maestro dell’Universo. L’incomunicabilità, per me, è uno dei peccati più gravi che uno scrittore possa commettere, forse il peccato più grave, poiché scrivere è comunicare. Busi è così presuntuoso da dar la colpa agli altri, ne sono certo, quando invece la responsabilità è solo sua. Oltretutto Busi non è in questo libro l’unico profeta della vita che racconta, non è nemmeno il primo: passando per Céline, perchè no, ho continuamente pensato a Genet, non tanto a quello straordinariamente poetico di Notre-Dame, ma a quello per me non condivisibile del Diario del ladro. Ma, a differenza di Genet, Busi raggiunge raramente profumi di gigli. Mi sembra che anche il suo essere prosaico risponda più all’atto insolente e altezzoso di chi vuole fare ciò che vuole, di chi decide di essere volgare solo per una ragione di gusto (o di mancanza di gusto), senza rispondere ad una vera necessità rispetto all’argomento di cui si parla: le sue volgarità son gratuite e, scommetto, scritte col sogghigno soddisfatto di chi vuole turbare le signorine perbene, non con lo slancio di chi sa che lì non esiste altra parola possibile. Ebbene, questa boria tracotante è per me il gesto violento di chi grida per avere attenzione, di chi vuole che gli sia riconosciuto il talento che sente di avere, di chi ha un bisogno narcisistico di riconoscimento: “dimmi che sono bravo”. Da qui nasce quella finzione, quell’iperbole del linguaggio scurrile, quell’artificio artificioso che azzera l’onestà. In particolare, le “fiabe” narrate ad Arlette cosa sono se non momenti di perfetto -insopportabile- autoerotismo di Busi davanti ad uno specchio? Cosa sono se non confetti di autocelebrazione? Dopo aver detto tutto questo devo tornare da dove son partito: sono combattuto. In questo mare agitato dai flutti dell’amore di Busi per sé e del suo disprezzo per gli altri navigano belle pagine, navigano intuizioni che ammiccano al genio (no, non le definirò geniali, non voglio esser complice della gravissima ipertrofia dell’ego dell’autore), momenti in cui, emersa l’onestà come scoglio in queste acque, qualche rara mucillagine marina si addensa e lì fa nascere qualcosa. Ma si può salvare tanto scritto solo per qualcosa di così piccolo, che ha l’apparenza dell’accidente casuale? “Placati Aldo -verrebbe da dire- vediamo se facendo emergere le tue secche le troviamo cosparse di coralli”.
Conoscevo Aldo Busi come opinionista in tv, e ad essere onesti non nutrivo una grande stima nei suoi confronti. Poi ho aperto il Seminario, e ho capito tante cose. Busi avrà anche idee bizzarre sulla vita, non lo metto in dubbio, ma come scrittore è davvero bravo; il suo utilizzo della lingua, così complesso e perfetto, rende questo romanzo diverso dagli altri del panorama italiano di quel periodo e non solo. Le vicende, anche se dopo 300 pagine possono risultare ripetitive, seguono un protagonista così vero, dalla psicologia semplice ma allo stesso tempo molto articolata. Barbino, così lo chiamavano a Montichiari, e lo seguiamo sin dall’infanzia, conosciamo la sua famiglia e alcune delle figure che gli ruotano attorno. Poi lo vediamo partire alla volta di Parigi e lì tutto cambia, o forse rimane lo stesso.
... E a volte non basta ancora. E' un libro morboso. E' un libro straziante. E' un libro difficile. E' un libro coraggioso. Più che carta, carne. E di prima qualità.
qualcuno dovrebbe risarcirmi per la febbre emotiva che questo romanzo mi ha causato; busi ha uno stile che incanta, che sa perfettamente dove tagliare per fare male. ci sono stati certi momenti in cui ho dovuto mettere giù il libro e prendere fiato, perchè il modo in cui usa le parole lui non l’ho mai incontrato prima. alla prossima, aldo.
Seminario sulla gioventù è un romanzo densissimo, da gustare frase per frase, virgola dopo virgola.
Nessuno sembra capace di frenare Barbino, un Pinocchio scalpitante uscito da chissà dove, scoppiettante di entusiasmo, tendenzialmente nato fuggiasco e capace di mille e più sentimenti alla volta, sfumature comprese. È ribellione allo stato puro verso qualunque cosa lo possa ingabbiare. Precoce anzitempo, la sua personalità è definita e per niente scissa, ineducabile perché il bene e il male assumono in lui un’unica sostanza chiamata libertà.
Barbino vorrebbe farsi autore e sovrano degli eventi e quasi suggerire gli accadimenti. Ma è l’Autore, quello vero, ad avere l’ultima parola, a porre un freno (anche se fittizio e di maniera) a un personaggio che scivola da tutte le parti. Pur sfidandosi a distanza, più o meno ravvicinata, non sembra esservi completa identificazione tra Barbino e Busi, piuttosto vi è con i luoghi a loro comuni (Montichiari, Parigi, la prospettiva di un viaggio a Londra).
Il Pinocchio-Barbino non tiene le fila del racconto, e tuttavia si ribella al fatto che esse siano in mano ad altri. Preferisce pronunciarla lui l’ultima parola, scegliersi il finale che più gli vada a genio, questo il suo modo di porre nel sacco il destino, o dare lo scacco a chi intralcia il suo cammino.
Qualunque libertà ha il suo prezzo: la forza dirompente di un genio in fuga delle lettere diventa agli occhi di qualcuno una macchietta da sollazzo. Non viene capito.
Un conto è infilarsi una vestaglia e ballare, cantare mambo italiano per gioco. Altra storia è quando qualcuno gli infila a forza la stessa vestaglia, e lo costringe a ballare e a cantare sopra un tavolo di osteria. Barbino si rende conto dell’oltraggio quando è già in strada
con addosso ancora la sensazione legnosa di gesti fatti contro voglia.
Scopre il disgusto, sì, ma non di sé, piuttosto di coloro che hanno frainteso la sua eccitazione, la sua esaltazione. Barbino a quel punto si sente derubato, non solo deriso. Scopre la differenza tra lui e gli altri, qualcosa che lo rende diverso perché unico. Si domanda cosa deve inventare, adesso, per ritrovare l’odore del peccato senza la caramella dentro.
La soluzione traspare velatamente, quella di un gioco che si rivolta contro chi l’ha dileggiato, per poi riderne.
Mighty. Powerful. Incredible. A life changer. Going from the deepest of desperation to the highest of lyrical and then back on the same page. I am from Brescia, the capital city of the province where Montichiari is. When the story is in Montichiari, for me it is to read about home (I am far from home, as I write this): but this is not the strenght of this ... novel? autobiography? Difficult to piegeonhole this book. It is. It is just to read. I understand it is not for everybody. The sex is everywhere, on every page, very explicit, and it is homosexual sex, by the way (so, if you happen to be homophobic, just stay away, you will be disgusted). I enjoyed every page of this book. I wonder if it is possible to translate, probably yes, but with a lot of annotations. Some English translation exists, I see from here. If you can find a copy, read it.
Busi riesce, pur parlando sempre e solo di se, a toccare temi universali sempre attuali con una profondità da grande classico. Più che prosa a volte è poesia e per questo molto difficile.
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Noblesse oblige. Tanto di cappella (ops, lapsus) alla genialità ed indipendenza di pensiero di un autore unico, del meglio della letteratura italica contemporanea.
Una lingua spettacolare, espressiva ed espressionista, fatta di modi di dire, figure fonetiche e giochi di parole. Per larghi tratti tuttavia l’ho trovato noioso, il resto compensa ampiamente.
Una rappresentazione perfetta, mi pare, del ristrettissimo campo visivo umano e delle illusioni che infestano i suoi limiti. Impressionanti soprattutto gli effetti dello sguardo del narratore su se stesso, gli altri personaggi, idee (miti, aspettative…), affetti (malinconie, rimpianti…): un’ironia che smonta, demistifica, tocca i miraggi e ne dimostra l’illusione, ma lascia spazio per la fragile nuda vita (forse solo per quella), perché si manifesti l’essenza di ogni persona nella relazione col suo prossimo (nell’incontro, nella corrispondenza dei corpi). Certo, manca la cura, la presenza stabile accanto alla persona amata… È come una compassione che si spinge oltre i gesti e le parole e tocca, per l’appunto, questa essenza; come una forma estrema (e talvolta crudele) di fedeltà a ciò che sta oltre la persona (ma non è l’idea, l’ideale: forse l’essere qui e ora?). Ma, forse, di gesti e parole manca solo il ricordo, la narrazione: «Il mio amore per Carolina è stato un amore felice e perfetto, reciproco, pieno di tenerezze e di allegria, un amore che ha conosciuto tutta l’estensione che gli era propria: forse è per questo che non ha lasciato traccia in me e, probabilmente, neppure in lei. Non è stato tranciato né violentato in nessun modo: si è consumato sino all’ultima scintilla giorno dopo giorno, e poi non è rimasto più niente, perché le cose vere non lasciano mai niente dietro di sé» (p. 333). L’insidia per questa pienezza, allora, sta tutta nella tentazione di trasfigurare il presente, nelle idee che infestano il corpo: «subentra verso sera la malinconia di non essermi potuto abbozzolare attorno a Giacomino e di aver cominciato a vivere soltanto quando ho cominciato a disperdermi sempre un po’ più lontano da lui, senza lasciare traccia; quando, dalla diga immaginaria e dolente che ero, mi sono trasformato in una pozzanghera reale – questa, che mi permette però di sguazzare e che, subdolamente, io a volte subisco non come un successo sulla mitomania passionale dell’adolescenza ma come un infangamento esistenziale in toto. Ma è inevitabile, mi succede sempre quando ho fatto strimpellare tutti i nervi e non è più possibile, a breve termine, forzare la spina vertebrale» (p. 186). Forse Seminario sulla gioventù è una denuncia delle perversioni dell’immaginario (queste le vere perversioni, non quelle che gli impauriti attribuiscono al corpo o alla mente), dei suoi effetti infelici sull’essere umano. (Poi ci sarebbe da sottolineare il controllo sulla lingua italiana, che mi pare assoluto.)
Questo libro è una rivelazione per me. Non mi aspettavo che Aldo Busi avesse un talento letterario così elevato. L'uso della sintassi e della grammatica è senza ombra di dubbio superiore ad altri scrittori italiani (almeno di quelli che ho letto fin'ora). Le parole cadono giù come valenghe, scuotono come terremoti, fluiscono in ininterrotti panegirici mentali che mettono a nudo la personalità dell'autore e quella dei suoi personaggi (famiglia in primis, amici, semplici conoscenti, datori di lavoro), marchiando con un fuoco critico le due facce dell'Italia del boom economico: la società dabbene, con i suoi milionari e giri illegali, e la tradizionale povertà delle campagne, unita ad una etica morale che aveva linciato Busi fin da bambino per essere uno "strano". E' un diario della prima gioventù di Busi, della condizione sociale da cui proviene, dei suoi viaggi in Italia e all'estero, alla ricerca, non solo di un lavoro, ma anche di un luogo che potesse contenere il più a lungo la sua grande voglia di vivere. Nelle pagine ritroviamo l'egocentrico ed eccentrico uomo che noi tutti conosciamo, sono pagine intense, lunghi soliloqui, eventi comici (a volte mi pareva di leggere Candide di Voltaire, perché gli capita veramente di tutto), ma Busi è anche capace di andare nel profondo, di scardinare modi di pensare, modi di agire di persone e dare alla luce la verità che si nasconde dietro le apparenze, il tutto condito con una scrittura irriverente, ma mai cinica.
lo stile di Aldo Busi è sempre geniale sia nella costruzione dei periodi sia nel contenuto. Ammiro questo autore e quest'ennesima opera che leggo non ha deluso le mie aspettative. Assolutamente da leggere!
Barbino, il protagonista del romanzo, cresce a Montichiari, paese in cui nacque (il 25 febbraio del 1948) anche l’autore. Un luogo, Montichiari, con una posizione vantaggiosa; una pianura fertile e coltivabile capace di attirare da sempre gruppi di nomadi rendendoli stanziali.
Molto intelligente e maturo sin da piccolo, Barbino sente tuttavia di dover fuggire da quel paese che non percepisce suo, che non gli appartiene, che gli sembra crudo e arretrato come i paesi delle fiabe. Tra fiumi spesso in secca, cavallette e pelli di coniglio stese al sole come baccalà, Montichiari non sembra infatti essere un posto per lui e lo porta fin da piccolo a vivere di fughe dall’ignoranza, dall’ipocrisia, dalle dicerie e dalla mentalità chiusa e ignorante del posto.
Barbino cresce nell’indigenza, facendosi notare per la sua predisposizione alla scrittura. Purtroppo, a quattordici anni è tuttavia costretto dal padre ad abbandonare gli studi. Da quel momento, quasi come se fosse stato un destino, inizia la sua avventura, che Busi sgrana come una peregrinazioni senza fine. Barbino lavora prima come cameriere in diverse località sul lago di Garda, fino a trasferirsi per sua scelta prima in Francia, poi nel Regno Unito, in Germania, in Spagna e negli Stati Uniti. L’ultima tappa sarà Montichiari, luogo in cui anche Busi – con cui Barbino condivide non poco – è ritornato dopo innumerevoli peregrinazioni.
Romanzo avventuroso e sfrontato, raccontato dalla prospettiva di un ventenne di provincia che alla fine degli anni Sessanta parte allo sbaraglio in cerca di stimoli erotici e intellettuali, combina guai, si incastra in rapporti senza uscita, salta di qua e di là in un mondo di personaggi emarginati, esclusi, ambigui, spesso disgustosi, che lo aiutano ma lo sfruttano anche, che lui aiuta e sfrutta allo stesso tempo. Il suo rapporto con la famiglia "contadina" di origine è conflittuale, intriso di risentimento e sensi di colpa, ma anche di struggimento per l'innocenza perduta. L'ho trovato straordinario per l'irruenza della gioventù e la vitalità del protagonista, caotico e lucido allo stesso tempo, dissacrante e innocente senza contraddizione.
C'ho messo così tanto a leggerlo che quasi ho creduto di aver perso la voglia di leggere. Di abbandonarlo non se ne parlava così sono passati mesi. Alla fine credo che la difficoltà non stia tanto nel modo un po' astruso, che solo certi esordi possono avere, di esprimere certi concetti o parlare di certe cose. Il punto è che per gran parte del romanzo sembra che nulla si muova, che giri in tondo: oggi parleremmo di pippe mentali. Il contesto poi non mi sembra mai veramente funzionale, resta tutto un po' sullo sfondo. Forse solo il background familiare ha consistenza e peso lungo tutta la trama. Insomma non un romanzo che rileggerei ma sopratutto probabilmente tornassi indietro non comincerei neppure.
Un inizio difficile, enigmatico, ma continuando la lettura si capisce che rappresenta a pieno come viene ricordata la vita dell'infanzia. Il racconto inizia poi a scorrere, in maniera matura, ma con breve tratti dove la fantasia e la complessità del protagonista danno libero sfogo. I soldi, uno dei protagonisti di questo libro, sono solo il mezzo per raggiungere la vita per il protagonista, che invece è nato e cresciuto in un ambiente dove erano lo scopo di chi aveva attorno. Entrare in questo libro non è stato facile,ma quando ci riesci vorresti solo partire con Barbino e farti trascinare
Se dovessi dare un voto in decimi credo che darei nove su dieci. Seminario sulla gioventù è un libro in cui il gusto della lettura è direttamente proporzionale al gusto della prosa, alla capacità di Busi di essere raffinato ma schietto, sopra le righe ma sottile. Un talento esagerato che non vedo l'ora di vedere espresso anche in altre opere. Ci sono dei veri e propri ritratti umani fra queste pagine che varrebbe la pena prendersi il tempo di studiare, come Arlette, Genevieve e la madre del protagonista. Una chicca.
Ventidue anni fa, in un’intervista, Busi sosteneva che la lingua dell’arte è sempre quella bassa, mediata dalla lingua viva del mondo, e dunque che è scrittore colui che prende dai vari dialetti e poi forma una lingua rifondata. Chi, al contrario, prende la propria voce dai libri, da una lingua già sedimentata, sarà sempre e solo un letterato. C’è chi, dunque, non è uno scrittore e non ha una voce e chi, come Busi – céliniana, torrenziale, pirotecnica – una voce ce l’ha, ed è uno scrittore grande. L’incipit di questo suo esordio luccica come il migliore degli ultimi quarant’anni.
Mi aspettavo tanto e mi ha dato poco. Un affresco -non sempre coerente e non sempre pienamente comprensibile- sulla brutalità delle relazioni umane nell’instaurarsi delle gerarchie attraverso l’esercizio della violenza e della sessualità. Un ritratto a tinte fosche di un passato che ha evidentemente segnato il protagonista -alter ego dell’autore- ma che non é riuscito a toccarmi profondamente nonostante l’interesse verso l’argomento.
"Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore, di essercela tanto presa per così poco, e anch’io ho creduto fatale quando si è poi rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci. A pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi?"