Se il mondo fosse un'azienda – la Cosmodemonic – e M.C. il suo capo idolatrato, che nessuno ha mai visto e che plasma i suoi dipendenti omologandoli, come ci piegheremmo, in cosa ci trasformeremmo? Saremmo precari, golem, tossicomani, finti-animali obbedienti, prostitute, schizofrenici ridotti a lottare per non finire in una piramide maleodorante di cadaveri: loro sono i protagonisti della Cosmodemonic. E se così deformati, trasformati, non fossimo neppure più capaci di riconoscerci nelle nostre nuove sembianze, riusciremmo a descrivere ciò che la Cosmodemonic e M.C. hanno fatto di noi, sul nostro corpo, sulla nostra vita? Ferruccio Mazzanti scrive un romanzo-caleidoscopio osando l'assemblaggio più ardito e dal sarcasmo umanissimo tra generi, trame, stili e linguaggi. L'invisibile e onnipresente M.C. è il grande specchio dove osservare la devastazione praticata dalla contemporaneità neoliberale sui nostri giorni e le nostre opere.
La narrativa italiana degli ultimi anni ha fatto del lavoro un tema di primaria importanza – pensiamo per esempio ai libri di Prunetti, Falco, Trevisan –, andando incontro allo sgretolarsi di alcune certezze e diritti della classe media e di quella operaia. E se con la letteratura si può osservare e sviscerare qualsiasi argomento sotto differenti punti di vista, è indubbiamente inedito, o perlomeno singolare, quello adottato da Ferruccio Mazzanti nel suo secondo romanzo: un testo più ambizioso rispetto al già ottimo esordio Timidi messaggi per ragazze cifrate (2020), in cui era centrale la figura dell’hikikomori e a far da filo conduttore c’era la solitudine, non abbandonata in M.C., dove anzi ritorna a caratterizzare vari personaggi.
Il libro colpisce innanzitutto per la sua peculiare struttura. I suoi sedici capitoli – chiamati “fasi” – sono leggibili così come sono presentati oppure in ordine sparso, cioè sia come se si trattasse di un romanzo, sia come se fosse una raccolta di racconti a sé stante. Ci sono poi altre due opzioni: ignorare l’avvertimento iniziale con le indicazioni sulla lettura; considerare il libro un mosaico medievale dove i racconti (le tessere) convivono con la visione d’insieme (appunto, il mosaico). Ciò può far ripensare al gioco orchestrato da Cortazar nel suo Rayuela, oppure ad altre idee uscite dalla testa di Queneau o di Perec.
Tuttavia, Mazzanti predilige un impianto più logico-filosofico, per dirla proprio con Wittgenstein (aggiungiamo alla lista pure Kant e Deleuze), con il quale la poetica dello scrittore fiorentino ha più di un debito; così come con David Foster Wallace, non a caso altro adepto dell’autore del Tractatus, da cui riprende l’ironia amara e surreale e certe scene nelle quali il rigore della costruzione formale friziona con l’insensatezza della vita dei protagonisti, tutti dipendenti della Cosmodemonic. All’interno di una trama circolare, dal piglio più futuribile che fantascientifico tout-court, s’intrecciano le loro tristi e talvolta perfino patetiche vicende: l’impossibilità di amare ed essere amati si scontra con un lavoro alienante che assorbe del tutto la persona fino ad annullarla, quasi rendendola inconsapevole del mondo circostante, tanto da far diventare da un lato il licenziamento un atto pressoché sovversivo o, dall’altro, trasformare una donna in un’intelligenza artificiale pur di raggiungere un obiettivo.
Tutto ciò viene affrontato con una sorprendente gamma di stili, i quali potrebbero erroneamente suggerire l’idea di un esercizio fine a sé stesso: al contrario, le varie declinazioni della prosa di Mazzanti sono sempre funzionali al racconto, integrato pure da una interessante parte grafica, anch’essa non secondaria alla resa finale di M.C., un libro di certo non per tutti – cosa che non rappresenta un problema, specie quando si parla di letteratura – ma che senz’altro in questo momento parla a tutti.
[recensione uscita su IL FOGLIO il 27 maggio 2023]
Mazzanti esplora al meglio i disagi del mondo del lavoro post-liberista, e lo fa lavorando bene sulla struttura, sulla sperimentazione stilistica e impaginativa, sulla variazione dei registri e dei linguaggi, padroneggiando i periodi lunghi estesi su più pagine, gli elenchi, perfino le onomatopee e i simboli visivi usati come contrappunto alla scrittura. E allora perché tre stelle? Perché esagera nell'esuberanza e nella muscolarità, scendendo così di qualità e, a cascata, rendendo molte parti del libro poco necessarie e in definitiva noiose (e nei capitoli finali ci sono un paio di passaggi un po' troppo letteral-saggistici sulla critica al lavoro). Più controllo e meno "un po' di tutto" possono portare Mazzanti a risultati più incisivi.