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335 pages, Paperback
First published January 1, 1963
Gli uomini del mio ceto, della mia generazione, del mio paese, non ammazzano i loro padri. Gli uomini del mio ceto, della mia generazione, del mio paese, non distruggono il loro passato. Non lo distruggono, perché sono una merda. Onora il padre e la madre. Me lo ordinò tanti anni fa il vecchio prete della chiesa di Ellauri. Non aggiunse: Onora il padre e la madre, a patto che essi meritino gli onori. Ma forse questo era implicito nel comandamento. Non lo aggiunse, pertanto onoro mio padre sebbene lui non meriti che io lo onori. Onoro mio padre per pigrizia […] perché mi ha contagiato il denaro, perché sono un lebbroso del comfort, perché le ottantamila persone che quotidianamente muoiono di fame in questo mondo mi importano meno dell’ipocrita macchia sulla mia puritana coscienza, perché, perché. Onoro mio padre perché mi disonoro.
Mi piace la mia città; sento che in un certo modo ne faccio parte. Guardo questi uomini e donne opachi, meschinamente calcolatori, fanatici del dettaglio, euforicamente miopi, dal cuore esplosivo, ma sprovveduto, che sfilano, due su cinque, e lasciano la loro carità da due soldi nella mano sporca e tesa dell’invalida e prepotente cicciona, la mendicante unica, la mendicante-eccezione che, più tardi, con la sua impeccabile gamba artificiale, si trasformerà nella fiorente proprietaria di vari immobili; guardo questi cultori dell’elemosina, questi filantropi della domenica, e sebbene io non offra la mia moneta, sento che in un qualche modo loro mi rappresentano e rappresentano il paese, perché tutti vogliamo il cielo a buon mercato, il lavoro a buon mercato, il potere a buon mercato, la pensione a buon mercato, tutti vogliamo che la vita ci costi meno che alla maggioranza dei mortali, e per riuscirci non importa se il mezzo è la truffa, l’elemosina, la spintarella, l’invalida promessa o la finta invalidità. Tutti vogliamo sfruttare la situazione, fregare qualcuno per salvare l’onore; l’unico modo per maturare consapevolezza delle proprie forze è commettere una minima indecenza che ci metta al riparo dal più aggressivo di tutti i sospetti, una modica scorrettezza che impedisca agli altri di parlare della nostra stoltezza, l’intollerabile stoltezza dell’onesto. Un conto è essere buoni e un altro, molto diverso, è essere presi per idioti. Questa frase dovrebbe essere incisa sullo stemma nazionale.
Ecco perché esitiamo. Forse perché non ci rassegniamo al minuto unico e felice. Preferiamo perderlo, lasciarlo trascorrere senza fare nemmeno il ragionevole tentativo di afferrarlo. Preferiamo perdere tutto, piuttosto che ammettere che si tratta dell’unica possibilità e che questa possibilità è solo un minuto e non una lunga, impeccabile esistenza.