Anna Maria Ortese ha sempre intensamente viaggiato. Si può anzi dire che tra la fine della guerra e gli ultimi anni Cinquanta non abbia fatto che viaggiare. Per necessità, certo, ma anche per un innato nomadismo, un senso di immedicabile estraneità che la conducono da un treno all’altro, da una stanza d’albergo a una camera in affitto, in una fuga che pare guidata da «segni misteriosi, come paletti affioranti da una laguna».Così, gli articoli e i racconti di viaggio della Ortese sono spesso filtrati da una lente scura, da un fosco cristallo di malinconia e protesta che carpisce alle cose la loro faccia buia. E proprio per questo sono unici. Perché la lente scura ci mostra, come per un sortilegio ottico, ciò che non avremmo saputo (o voluto) vedere. Ci mostra ad esempio Roma avvolta da un’«aria d’insensibilità enorme, da lebbrosario» e Genova sollecita e fraterna, con una «spontanea e quasi prodigiosa capacità di affiancare chi è stanco». Ci addita nella Russia del 1954 un paese dove subito si stabiliscono «intese tenere e strane, ci si prende la mano nello stesso modo impulsivo e ingenuo, tipico dei ragazzi». Ci svela che Parigi è un’idea di realtà, un prodotto dell’immaginazione e del genio, Lecce una piccola Cuzco, e che a Napoli c’è meno angoscia, meno desolazione e struggimento, ma anche più atonia e indifferenza. Sempre, la lente scura fa affiorare verità inaccettabili, dolorose: come la «smania di liberazione, di felicità, di vita» di Montelepre, il paese di Salvatore Giuliano, o le imboscate del 38° Giro d’Italia, conclusosi col trionfo dei vecchi idoli e il pianto di Gastone Nencini. Una percezione che, a ben vedere, dipende dalla devozione della Ortese, viaggiatrice visionaria, per un luogo che non c’è, una Utopia «sempre alta e presente come una luce bianca tra le nuvole basse, nello sconfortato vivere». La lente scura, pubblicato per la prima volta nel 1991, comprende scritti originariamente usciti su varie testate fra il 1939 e il 1964 – nel periodo cioè di più intensa attività giornalistica della scrittrice –, e viene qui riproposto arricchito di sedici reportage mai prima d’ora raccolti in volume.
Born in Rome in the year 1914, Anna Maria Ortese grew up in southern Italy (primarily Naples) and in Lybia, the fifth of nine children of a soldier's family often short on money. Like many poor girls of her generation, Ortese left school at age thirteen, initially with the idea of studying (and then, teaching) music in mind; until the discovery of literary romanticism, particularly the writings of Edgar Allan Poe and Katherine Mansfield, and her need for creative self-expression made her turn to writing.
She eventually studied with Massimo Bontempelli, proponent of the "magical realism" she herself would soon make her own as well, and in 1937 published her first collection of short stories, entitled "Angelici Dolori." Her work garnered her native Italy's most prestigious literary prizes (most notably, the 1953 Premio Viareggio for the collection of stories "Il Mare Non Bagna Napoli" – published in English under the title "The Bay Is Not Naples" - and the 1967 Premio Strega for the novel "Poveri e Semplici"), and she is considered one of the foremost Italian writers of the 20th century.
“In una città, come nel mare, bisogna identificarsi per vedere realmente. Bisogna che qualcuno si dimentichi per quale motivo siete venuto, e vi confonda con un familiare. Allora, mille particolari segreti vengono alla superficie, e in quei particolari si ricompone anche per voi il volto sfaccettato della città, si ricompone in un’immagine unica”.
Reportage di viaggio con scritti eterogenei, pubblicati tra il 1939 e il 1964, raccolti in un unico volume nel 1991, La lente scura ha per protagonista e voce narrante una “inaffidabile viaggiatrice visionaria”, una Ortese che si mette in viaggio mossa da una spinta esteriore, che descrive i luoghi attraverso un filtro deformante, una lente scura. Tutto rivela un senso di estraneità alle cose e, al tempo stesso, un doloroso desiderio di vivere, il suo perenne essere "umanamente partecipe e cosmicamente estranea”.
I viaggi sono dominati da un forte senso di irrealtà. Chi legge si muove insieme ad Ortese tra treni, camere d’albergo, vicoli, appartamenti, in percorsi non prestabiliti, che seguono il capriccio dell’ispirazione momentanea. I personaggi che incontra hanno la consistenza di apparizioni. I dialoghi surreali si innestano su scenari pronti a dissolversi. Le città la accolgono con un broncio o un’aria meravigliata.
Ben presto ci si accorge che tra Roma e Parigi, Mosca e Napoli quelle visitate da Ortese sono soprattutto mappe interiori. Così Parigi “non è una città: è un balletto, una stregoneria, un sogno”; Palermo “una liscia torta bianca, verde e gialla di duri canditi [...] forse troppo dolce [nella quale non corrono] se non pensieri d’amore”; la Sicilia un luogo dove “il colloquio con le cose eterne, e con la più eterna delle cose è continuo, levigato, perenne come un fiume di marmo”.
Ortese è in colloquio sommesso con il paesaggio, in un lavorio incessante di comprensione dell’Altro che abita questi luoghi e dell'anima dei luoghi stessi, che è anche, e soprattutto, conoscenza interiore. Il colloquio diventa allora soliloquio, in una giustapposizione di immagini che dall'inconscio affiorano in superficie travolgendola all'improvviso. Ecco perché appena giunta in una nuova città, Ortese si sente soffocare, non vede l’ora di ripartire, trovare una scusa per abbandonare quelle terre ignote e inospitali, che le raccontano di sé più di quel che sia disposta a scoprire.
Leggere questi scritti è stata un'esperienza immersiva e privilegiata. Avere accesso alle riflessioni e ai pensieri dell'autrice – normalmente privati e invisibili– è stato un dono preziosissimo, per il quale sono eternamente riconoscente.