Giuseppe Pontiggia was an Italian writer and literary critic.
He was born in Como, and moved to Milan with his family in 1948. In 1959 he graduated from the Università Cattolica in Milan with a thesis on Italo Svevo. After a first unnoticed short story anthology published in 1959, Pontiggia, encouraged by Elio Vittorini, decided to devote himself entirely to writing starting from 1961.
Questa, come quelle che seguono, sono immagini tratte dal capolavoro di Michelangelo Antonioni “L’avventura”, 1960, che vinse il Premio della Giuria al Festival di Cannes (quell’anno la Palma d’Oro andò a “La dolce vita”).
È da molto tempo che avevo voglia di leggere questo romanzo premio Strega 1989 – mi sembrava d’aver dedicato troppa poca attenzione a Pontiggia limitandomi a leggere il solo bel Nati due volte. Un grande desiderio forse perché in sintesi la trama di questo libro ricorda molto uno dei miei film preferiti di uno dei miei registi preferiti, L’avventura di Michelangelo Antonioni: gira intorno alla sparizione di una persona, qui un uomo del quale non si dice mai il nome (?!), nel film una donna, che si tende erroneamente a considerare protagonista. Solo che nel film vinceva l’attesa, il mistero: qui invece è chiaro che l’uomo ha tagliato la corda perché stanco della sua vita, se ne è andato altrove per ricominciare e cercare una nuova esistenza, ha per così optato per il piano B.
Questa che ho tra le mani è una riscrittura, credo realizzata in occasione di una nuova pubblicazione o ristampa, che per sua stessa dichiarazione ha impegnato Pontiggia oltre un anno. Pontiggia asserisce nella nota introduttiva che percepiva il romanzo pubblicato in origine, il vincitore dello Strega, avesse difetti, e che da questa revisione capillare, parola per parola, il testo è uscito non vistosamente – però profondamente modificato, lavorando sulle ridondanze retoriche, sugli eccessi di antitesi, parallelismi, ossimori, sull’insistita aforisticità, sulla sentenziosità dei dialoghi (sempre parole sue).
Ecco, che dire, a me sembra che riscrittura non c’è stata. A me sembra che quelli che Pontiggia indica come problemi sono rimasti tutti anche nella nuova versione. Al punto che mi chiedo, ma ‘sta prima versione, come ha fatto a vincere lo Strega?!
I personaggi parlano ancora per sentenze, per massime, frasi icastiche, assiomi, l’aforisma è annidato sia nel dialogo che nella descrizione. Il ritratto (spiegone) psicologico moraleggiante può estendersi per pagine e pagine cercando di descrivere, racchiudere e condensare un personaggio che viene introdotto ex novo – con lo straniante risultato di catapultarmi di volta in volta in un romanzo che sembra appartenere alla letteratura del secolo precedente, l’Ottocento. I personaggi sembrano la caricatura di certi film italiani degli anni Settanta (penso a Maselli, a Cavani…) che ritraevano caricature della borghesia dell’epoca, malatissima di intellettualismo. Mi sono sentito all’interno di un teorema che Pontiggia costruisce e vuole dimostrare a ogni costo, in cui i personaggi più che tali sono modelli, esempi, parodie, tipologie psicanalitiche.
Alcuni esempi presi qua e là: Il problema non è conquistare una donna, ma lasciarla.
Perché esageri sempre? Perché ho paura della verità. Così non so mai qual è.
Io non ti riconosco più. Non so più chi sei. È il destino delle coppie che sopravvivono.
Io mi fido sempre degli altri, quando sparlano di sé.
Il tempo ci inquieta. Si passa dall'eternità ai pochi anni che ci restano.
Non pensare che sia cinismo. No, è qualcosa di peggio. È sincerità.
Non mi fido dei presentimenti buoni.
Diamo spesso il meglio di noi quando non ci crediamo; non c'è come un entusiasmo non condiviso dagli altri per isolare chi lo prova e indurlo a una reazione eccessiva, nel tentativo di vincere, oltre che i dubbi altrui, anche i propri.
Si aspira al meglio, ma ci si riconosce nel peggio; e tale percezione, se allontana i pochi, attrae i più.
Per capire che il mondo non è come lo si desidera può bastare a un adolescente qualche mese decisivo. Ma per capire che non è come lo si è visto occorrono decenni.
Come se Pontiggia prima di sedersi a scrivere “La grande sera” avesse divorato l’opera omnia dei moralisti classici (Machiavelli, Pascal, Montaigne, La Rochefoucauld, La Bruyère…) e si fosse dimenticato di digerirla. E io lettore ho fatto indigestione.
Pontiggia - fra i pochi che abbiamo in Italia di respiro internazionale – Lo scrive Daniela Marcheschi nella postfazione e sicuramente è il concetto più interessante che dispensa. Ha ragione, questo romanzo non sembra scritto da un italiano, c’è qualcosa che va oltre l’intreccio e l’ironia, c’è un dibattito sempre aperto fra narratore personaggi e (implicitamente) lettore. C’è eleganza nell’uso della lingua, padronanza in quello della punteggiatura, parsimonia nei dialoghi, opportunità nelle citazioni. Sarà che io la prima volta che ho letto Pontiggia è stato in una prefazione a Svevo, ma mi pare che sia quella dello scrittore triestino (non a caso uno dei pochi apprezzati fuori dai confini nazionali) l’influenza più vistosa che ha ricevuto. E’ la psicanalisi che aggancia i due scrittori al medesimo convoglio, i personaggi sono le loro nevrosi, i meccanismi di difesa i loro comportamenti. Farà fatica a leggere chi è abituato all’azione/reazione, il libro malauguratamente potrebbe esser catalogato come un noir: un quarantenne scompare lasciando nell’angoscia i familiari e le sue amanti clandestine, la sua scomparsa però è il pretesto che spinge ognuno di coloro che gli erano vicino ad interrogarsi sulla propria vita. Il quarantenne scompare, lascia un buco ai bordi del quale i personaggi si ritrovano, come ad un funerale, a parlar dei fatti propri. Un dialogo fra il fratello e sua moglie è ciò che ha fatto scaturire la mia considerazione
«Hai notato come ti piacciono i funerali?» continuò. «Non ne perdi uno, di quelli che ti sono cari. Io credo di avere capito la ragione. Perché sono il tuo sogno. E’ come se tu morissi da vivo.» Mario osservava il reticolo delle sue rughe, gli occhi luminosi, sarcastici. «Però questa volta è accaduta una cosa strana» aggiunse lei. «Tu stai portando il lutto, ma mancano i funerali. Perché tuo fratello è vivo.» «Anzi» fece una pausa. «E’ lui che è vivo.» Mario la guardò mentre lei portava il bicchiere alle labbra. «E io?» le chiese.
I due coniugi sono impietosi l’uno verso l’altro, il marito dà l’idea di essere invulnerabile, incassa, non si arrabbia, attende paziente l’occasione di infierire
E’ vero che siamo di un’altra generazione, ma noi in casa non l’abbiamo mai fatto.» «Già» disse lui, pensieroso. «Avevamo rispetto della casa. Ci incontravamo fuori. Te lo ricordi?» «Sì, me lo ricordo.» Staccò la fronte dal vetro. «Io li invidio» mormorò. Lei lo seguì con lo sguardo mentre ritornava a sedersi nella poltrona. Poi gli disse: «Finirà anche la loro storia, non credi?» «Forse» rispose Mario. «Ma almeno è cominciata.»
I dialoghi sono quasi tutti stringati come questo anche quando sono coinvolti faccendieri, soci in affari, investigatori privati. Non è un romanzo che si fa leggere facilmente, ma lascia qualcosa; non è una lettura banale, è il frutto maturo di uno scrittore che ricevette per esso il premio Strega.
Cercando in rete notizie su Giuseppe Pontiggia, sentito spesso citare senza averne finora letto nulla, ho appurato che lo scrittore lombardo è definito “scrittore e aforista”. E in effetti questo romanzo pullula di aforismi: ogni personaggio viene descritto tramite aforismi e ognuno di essi parla per aforismi (talora complicati al punto di doverli rileggere per assimilarne il significato), perfino il portinaio!
- Aveva superato l’età in cui si cerca, oltre che di essere intelligenti, di farlo contemporaneamente capire all’interlocutore. Ora si accontentava di capirlo lui senza lasciarlo intendere. - La seconda metà della vita viene spesso impiegata, più che a scoprire nuove verità, a liberarsi delle menzogne della prima. - Si aspettavano tanto poco dal matrimonio, che finivano per averlo. - Niente è più inesplicabile di ciò che non richiede spiegazioni.
Frasi come quelle citate sono acute e spesso divertenti, ma la quantità inserita nel romanzo è talmente sovrabbondante che rischiano di soffocarlo, ed alcuni capitoli sembrano più un veicolo per inanellare aforismi che un elemento funzionale all’economia della narrazione.
Peccato, perché “La grande sera” è un romanzo dalla costruzione interessante, strutturato com’è attorno a una specie di buco nero, un vuoto rappresentato dall’assenza del protagonista che sparisce ancor prima della pagina 1 ma del quale tutti parlano, più o meno preoccupati o perplessi, formulando ipotesi sul suo destino e sul significato della sua scomparsa.
E quel nulla si riflette metaforicamente nel vuoto esistenziale dell’ambiente circostante, la “Milano da bere” degli anni ’80, dove i personaggi in cui via via ci si imbatte nel corso della ricerca non sembrano quasi mai intenti ad un’occupazione concreta, ma vengono reperiti in tipici non-luoghi come un corso di yoga, un party in una villa, un reading di poesia…
Ne risulta un’opera strana, che incuriosisce ma non appassiona, che più volte smarrisce il filo (in un mare di aforismi, naturalmente) poi lo ritrova, costantemente in cerca, fra tanti individui annoiati, stressati e (si diceva in quei tempi…) “alienati”, dell’unico che non si riesce a rintracciare, forse perché ha messo in pratica l’ovvia soluzione per ritrovare sé stesso, come sembra lasciarci intendere il finale sfumato…
E comunque, se a me sparisce un libro, poco male. Sicura che l'ho solo lasciato da qualche parte, e prima o poi torna... Ma se a sparire è tuo marito? Tuo fratello? Il tuo amante? Il collega con cui avevi appuntamento proprio quella sera e non si presenta? Che domande ti fai? Quando l'inquietudine comincia a divenire allarme? Con chi condividi l'apprensione, e i tentativi di capire come e cosa è successo? E soprattutto perchè?
Sembra un giallo: ma lo scomparso non salta fuori. Sembra una spye-story finanziaria con capitali scomparsi all'estero (ma che attualità!): ma gli imbrogli, lubrificati al momento giusto, non faranno alcun rumore. Sembra un'intricata vicenda di amore, sotterfugi, tradimenti, amanti, fughe, ma qui di amore ce ne è ben poco. Tutto ruota intorno agli altri: quelli da cui lo scomparso è fuggito, le loro ipocrisie, i loro vizi, piccoli e grandi, le manie, le incongruenze, tagliati ciascuno con un bisturi tagliente e impietoso. Una galleria di personaggi che sembrano usciti dalla commedia dell'arte, descritti con maestria ed un uso della lingua perfetto. Ognuno come un archetipo esilarante ma caratterizzato da una profonda vena tragicomica: la moglie ignara (davvero ignara?), l'amante datata (e perchè si continuava ad illudere?), il fratello depresso (perchè non reagisce, sant'iddio!) lo psicologo dell'amante (arrogante e superficiale), l'amante giovane (persa in un mondo di illusioni da cui si rifiuta di emergere e ti fa pure venire il nervoso...) e le ambientazioni, ironiche parodie di una società borghese e inetta : la palestra za-zen, la serata di presentazione di poesia erotica, la portineria del condominio di lusso.
Quelli che ho preferito? Lo psicologo, il portiere, il socio in affari (quello abile, però) Quelli più aderenti alla realtà? Il mentitore, il fratello.
Guardando bene sono tutti uomini. Forse perchè le donne sono tutte così inevitabilmente vittime che mi hanno più intristito che divertito. E in sottofondo le considerazioni sulla fuga di chi, dopo aver costruito un bozzolo di rapporti e inganni per una vita...fa un buchino e zitto zitto se ne va, e lascia lì tutti attoniti a inventarsi una spiegazione che non ci sarà mai. Mostro o strafigo? E sembra che alla fine, Pontiggia, salvi proprio lui, almeno un po'.
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...Non so voi. Mai io non riesco a fare a meno di riempire i miei tempi vuoti con un libro. E allora ne metto alcuni, strategici, ovunque mi possa capitare di stare in attesa ad aspettare...In borsa per una eventuale (anzi, certissima!) coda alle Poste, uno nel cassetto dell'auto, se devo aspettare l'uscita da scuola della figliola, uno nel cassetto in sala prof, uno nella borsa per la spiaggia... e così mi capita poi qualcuno di non trovarlo più. Ecco, questo non so più dove l'ho ficcato.... Sorry!!!! Ma capita solo a me?
15 settembre 2011: TROVATOOOOO!!!! Era nel cassetto della cattedra della palestra....servirà a qualcosa tornare a scuola....!! *****************************************************************
Trovo difficoltà a valutare questo romanzo molto particolare. Le tre stelle potrebbero essere anche quattro, perché oggettivamente è opera di un grandissimo scrittore, che ho conosciuto leggendo anni fa "Nati due volte", poi con i racconti del Sole 24 ore che mi hanno colpito molto. Tuttavia non riesco a dimenticare una sensazione fastidiosa che mi ha accompagnato per tutta la lettura di eccessiva attenzione all’uso delle parole che vengono dosate con una bravura insuperabile –pochi scrittori scrivono così bene come Pontiggia-, ma come tutti gli eccessi produce effetti di forzatura, di poca spontaneità e di freddezza, ponendo il lettore nello stato d’animo di chi legge una superba esercitazione letteraria che però risulta distante e spesso pesante e noiosa. In fondo al romanzo vi è un commento che ho letto saltando qua e là, del quale però vorrei riportare un pensiero che è utile a comprendere l’opera: la struttura del romanzo può paragonarsi ad un oggetto circolare con un vuoto in mezzo, come una giostra con animali e figure fantastiche che ruotano intorno ad un perno nascosto; o meglio, prendendo lo spunto dalle arti figurative, a quelle composizioni pittoriche articolate lungo i margini e con un vuoto al centro, come i quadri del primo manierismo (richiama gli affreschi del Correggio nel Duomo di Parma, che ho visto qualche tempo fa dal vivo, in cui vi è una corona di angeli e beati che cingono uno sfondo luminoso al centro, da cui si irradia una luce che illumina l’assunzione della Vergine). Spiego il senso di quanto sopra: la trama è semplice, dall’inizio alla fine si svolge la ricerca di un uomo scomparso, un imprenditore di mezza età invischiato in affari non molto chiari, di cui non sappiamo nemmeno il nome. Quest’uomo ha una famiglia, una moglie aspirante poetessa per coprire il vuoto del resto della sua esistenza, un fratello critico cinematografico che non riesce a scrivere più un articolo da anni né a combinare niente nella vita se non litigare fino a sbranarsi con una moglie scontenta e incontrare un’amante più vecchia di lui, che, forse in rispetto della figura materna, riesce a metterlo davanti al suo totale fallimento senza rinfacciargli o rimproverargli nulla; ha anche un’amante ufficiale, Silvia, che aspetta fiduciosa il suo divorzio ed il promesso futuro insieme, premendo però affinchè questo tempo si realizzi presto; l’uomo, si scopre nel corso della storia, ha anche un’altra amante, di venti anni più giovane di lui, alla quale ha promesso che presto sarà libero. Ci sono poi i suoi colleghi di lavoro, il socio Campisi, superficiale e vigliacco, incapace di gestire con freddezza la scomparsa dell’altro, e poi vi è il finanziere Terragni, privo di scrupoli e freddo uomo d’affari che per distrarsi si occupa di esoterismo, ed infine l’investigatore privato Borghi, assoldato da Terragni per cercare lo scomparso, uno che preferisce gli animali alle persone e che valuta la gente con criteri zoologici. Ognuno di questi personaggi viene di volta in volta descritto con una forma pesante, sempre con aforismi ed antitesi, con tono sentenzioso e come dicevo sopra in alcuni casi noioso, in altri troppo difficile da capire, per cui sei costretto a tornare indietro a rileggere. Al centro di questo deprimente girotondo, dal quale emergono impietosamente i vizi e gli pseudo valori del nostro mondo in disfacimento esistenziale ed intellettuale, vi è il grande vuoto dell’assenza del protagonista, che però, alla fine, si riempie di valore, e lo scomparso si erge come colui che forse è maggiormente “presente” alla decadenza che circonda la sua vita e ne accetta le conseguenze. Ripeto: una scrittura sublime, una padronanza della lingua insuperabile, ma….
Dopo il triplo meat-loaf americano che non mi ha del tutto soddisfatto, provo con un ammazzacaffè all'italiana. E questo Strega targato '89, anche se non mi ha proprio emozionato nemmeno lui, è veramente amaro e spietato. O forse è più corretto dire che è molto realistico. Se Haruf descriveva la quotidianità sottolineando lo starsi accanto, la solidarietà e la fratellanza delle persone, qui si sottolinea l'esatto opposto: cinismo, opportunismo, tradimento e sotterfugio e accidia sono caratteristiche ben più tipiche dell'essere umano…
Scrittura molto elegante ma con una certa tendenza ad arrotolarsi su se stessa, giocherellando con etimologie, aforismi, sinonimi e contrari. Ambientazione metropolitana, in un'estate anni '80. Il romanzo ha una struttura circolare con un buco immezzo: al centro di tutto c'è un'assenza, una sparizione inspiegabile, ed intorno ad essa, come una giostra o una girandola, si dispiega il teatrino di amanti, parenti, amici, colleghi e conoscenti dello scomparso di cui non conosceremo mai nemmeno il nome: l'amante Ada, non vedendolo arrivare all'appuntamento, contatta il fratello di lui Mario, il quale per saperne di più andrà dalla moglie dello scomparso Giulia, la quale gli darà il telefono del socio Luca Colleoni, che li porterà a conoscere il finanziere Terragni, poi il dottor Zeri della Credit Bank, poi si intrometterà Andrea figlio di Mario, e poi ancora analisti, investigatori, amanti in seconda, e così via per trenta brevi capitoli. E per ognuno di questi personaggi si apre uno scorcio di città (nemmeno di questa sapremo il nome, presumibilmente Milano o Torino) e di buona società con i reading di poesia nei teatri, i bar, i grattacieli, le palestre con l'avvento dei corsi di yoga, le feste mondane, le sedute dall'analista e il rustico ristrutturato in campagna; ma su ciascuno di questi personaggi si aprono anche e soprattutto squarci di velleità e frustrazioni, tristezze e insoddisfazioni e depressioni e patemi d'animo. Proprio l'insoddisfazione sembra essere il tema principale: l'annoso dilemma di chi vorrebbe abbandonare tutto e tutti, sparire e cambiare vita, oppure in alternativa dovrebbe provare a restare rinnovandosi negli sforzi e nell'impegno nei confronti della vita quotidiana e di tutte le persone con cui si è in stretto contatto da sempre. Il titolo non ha un riferimento ben preciso, ma suppongo si rifaccia alle battute finali del libro, in cui il nipote Andrea ricorda l'ultima volta in cui ha avuto occasione di parlare con lo zio scomparso, una sera in cui questi gli ha lasciato un messaggio finale che poi rivelerà essere come una sorta di testamento. Ed in effetti, con tutte le brutture e le amarezze che i vari personaggi raccontano, l'unico su cui si apre uno spiraglio di sole è proprio il giovane Andrea.
L'intento dell'autore è chiaramente di irridere tutte queste ambientazioni, tutta questa borghesia, questi pseudo-intellettuali e questa intellighenzia: ma lo fa con la massima compostezza e senza nessun vero e proprio motto di ironia, il che aumenta di molto l'amarezza del quadro ivi presentato e rende non sempre cristallino il pensiero che lo scrittore vuole trasmettere al lettore. Però ne esalta maggiormente la bravura.
Alcuni mesi fa, commentando Piperno, mi trovavo ad osservare come non sia per niente facile ricostruire l'atmosfera degli anni '80 in maniera realistica senza usare degli incisi in stile SuperQuark. Beh, qui bisogna dire che Pontiggia c'è riuscito piuttosto bene.
Pur non essendo pienamente soddisfatta nemmeno con questa lettura, e pur non essendo una fanatica a tutti i costi della letteratura patriottica, devo mio malgrado ammettere di essermi rispecchiata e orientata di più nella spocchia e nella insoddisfazione di questa metropoli italiana che non nel buonismo della Holt americana.
Per i dialoghi folgoranti, tesi e privi di indulgenza, quasi aforismi. Intermezzati dalle riflessioni dell'autore, amare, grevi e spietate su cui mi è capitato di soffermarmi così a lungo da farmi a tratti perdere il senso complessivo della narrazione.
Il vuoto interiore, l'essenza della vita che si risolve nel nulla, l'angoscioso dibattersi nel quotidiano di una serie di personaggi senza alcuna possibilità di felicità, serenitá o assoluzione del proprio agire malsano. E la totale mancanza di senso che regna sovrana: sia di chi vive con successo sia di chi ha risultati fallimentari (i due fratelli protagonisti solo apparentemente in antitesi ma in realtá accomunati da insoddisfazione, delusione e angoscia, invischiati in legami che li soffocano)
E l'impossibilità di conoscenza di chi ti vive accanto, fino alla sua dissoluzione, inspiegabile e inspiegata.
Con un finale inaspettato che lascia un'apertura di speranza per le nuove generazioni, sempre e comunque tramite la fuga.
Libro complesso, stratificato, a prima vista semplice e lineare nella trama: la scomparsa di un uomo colpisce le persone a lui legate e mette in discussione le loro stesse vite.... Pontiggia osserva l'uomo moderno con partecipazione leale al suo smarrimento, ma senza assolver(ci) e mantenendo un sguardo morale e coerente.... lo stile è complesso, oscillante tra dialoghi icastici e riflessioni meditative molto profonde, con una cura infinita delle parole, degna di un orafo della scrittura....
Un buon soggetto che si perde nell’artificiosità della scrittura, che non consente ai personaggi di mostrare la propria umanità, bensì li dissolve in una serie di cliché pseudo-intellettualistici.
A dispetto delle tre stelle, questo libro mi è piaciuto moltissimo. O meglio, l'idea mi è parsa fantastica. Raccontare della sparizione di un uomo, che mai però appare all'interno del romanzo e funge da convitato di pietra -e non apparirà mai! Fuggito forse in Sudafrica, agli antipodi, bisognoso di libertà - nelle vite di chi resta: geniale! Eppure...eppure il testo si perde in un eccessivo psicologismo (è vero che un presunto psicanalista c'è tra i personaggi, ma rendere filosofo e psicologo un poliziotto che fa da mera comparsa è troppo). L'autore esagera nel ritrattismo e non lascia niente all'intuizione del lettore, imboccandolo col cucchiaino attraverso la costruzione - troppo artificiosa - dei suoi personaggi. Molte informazioni risultano superflue per l'andamento della storia, che troppo spesso si discosta dal punto principale, che non è una scomparsa (che renderebbe il tutto tipico di un dramma borghese), ma gli strascichi che essa si lascia dietro. Tutto è, naturalmente, anche un ritratto spesso caricaturale di una società "bene" fatta di critici al tramonto, guru della psicanalisi non ortodossa, investigatori privati, squali della finanza e amanti a bizzeffe, ma anche qui ho trovato una eccessiva esagerazione che tedia chi legfe e lo porta a saltare le pagine. Nonostante ciò ho amato le contraddizioni che Pontiggia cela tra le righe, con discorsi in cui tutto è il contrario di tutto (ogni frase è un aforisma!), in cui la vita è tentacolare, in cui ogni via scelta è anche il suo rovescio e le dicotomie epocali si risolvono in tanti punti di contatto tra di esse; e i personaggi di questa metropoli che potrebbe essere ovunque vi sono immersi, ognuno all'inizio della grande sera che sta ponendo fine a un'esistenza precedente. Per questo, meriterebbe quattro stelle; per i difetti prima elencati, forse due. In questi casi, in medio stat virtus.
Un uomo non sopporta più la sua vita, che lo rende infelice. Scappa, sparisce nel nulla. Dove abbiamo già letto questa trama? Ah sì, “Il fu Mattia Pascal"”. Uno scopiazzamento, quindi? Assolutamente no! Pontiggia non racconta la storia di cui scappa, ma di chi resta. Cosa fanno quelli che all'improvviso vedono sparire un proprio caro? Una volta che uno ha buttato giù la famosa maschera pirandelliana, come si comporteranno gli altri? Ne parlo qui 👇 https://www.ilpesciolinodargento.it/l...
In un mattino di Giugno, un uomo di mezza età scompare. Di lui non conosciamo né il nome, né le fattezze, solo il vuoto e le tracce che lascia. Infatti, non è lui il protagonista di questa storia, bensì tutte le persone che della sua assenza risentono. Fratello, cognate, amanti, nipoti, colleghi, professionisti coinvolti nelle indagini di questa sparizione inspiegabile. E così la ricerca di uno diviene la ricerca di sé stessi. Ogni verità delle proprie vite viene fuori a poco a poco, come se una crisi portasse allo scoperto le rispettive identità reali, le proprie sofferenze, i tormenti di una vita da sempre celati.
Pontiggia è uno scrittore enorme, e "La grande sera" si rivela un'opera d'arte letteraria che può apparire agli occhi del lettore come una sorta di esperimento in un gioco di punti di vista, quasi reciproci, e in un flusso di dialoghi a dir poco magistrali. Ognuno conosce dello scomparso solo quello che di lui ha vissuto, al punto da desiderarla per sé stessi, quella sparizione. La vigliaccheria dell'andarsene come strumento di conclusione e di leggerezza. Non ci si pensa mai, eppure può succedere di provarlo, anche se solo per un secondo.
Un libro per nulla leggero, ma capace di catturare l'attenzione come solo le pagine orientate verso le viscere della più profonda psicologia umana riescono a fare.
"La grande sera" è un romanzo di Giuseppe Pontiggia. Il romanzo è una fotografia della vita di chi resta dopo la scomparsa di qualcuno, tra chi si preoccupa e chi va avanti senza curarsi di nulla. I personaggi del romanzo per lo più appaiono fumosi. Alcuni sono descritti fisicamente in modo che il lettore possa immaginarne le caratteristiche e associarle a una tipologia di persona che l'autore si propone di descrivere in lunghe presentazioni che non sempre sono efficaci. Spesso i personaggi non hanno un nome; spesso è difficile capire chi sta parlando o pensando. La narrazione, a sua volta, spesso appare fumosa in quanto non vi è una linearità del tutto chiara nel susseguirsi dei capitoli. Il ritmo è lento. Complessivamente il romanzo non mi ha fatto una buona impressione. Ogni tanto mi sembrava di cogliere qualche spunto di riflessione che per lo più si è risolto con un lasciare campo libero al pensiero e alla fantasia del lettore. Sicuramente non all'altezza delle aspettative.
"La grande sera" racconta la storia di una scomparsa o, meglio, le reazioni di coloro che risentono di tale scomparsa. Non sappiamo quasi nulla del protagonista assente, se non l'idea che hanno di lui coloro che lo circondavano. Il romanzo, infatti, si incentra sulla psicologia dei molti personaggi che, di capitolo in capitolo, si susseguono sotto i riflettori: ognuno medita sulla propria relazione con lo scomparso e, soprattutto, su se stesso. Non è un testo che si presta a una lettura frettolosa: la trama è molto sottile e lascia spazio a una prosa ricca e a riflessioni profonde espresse in maniera chiara e coinvolgente.
Un uomo scompare e i personaggi che gli gravitano intorno, in un modo o nell'altro, lo cercano. Un'idea molto semplice, eseguita magistralmente. Anche se l'autore ogni tanto si perde dietro disquisizioni quasi filosofiche, quasi irrilevanti, il testo rimane una gemma per la caratterizzazione dei personaggi e, soprattutto, per il linguaggio limpido e denso di perfezione, frasi ridotte all'essenziale ma che si avvicinano con eleganza alla verità.
Due stelline (e non una) solo per la proprietà di linguaggio, anche se a volte si sconfina nell'incomprensibilità per dar sfoggio a frasi arzigogolate senza poi un grande significato. Purtroppo ho riscontrato questo problema in molti premi Strega, come se si volesse premiare solo la forma, invece del contenuto. Trama che potrebbe essere quella di un film italiano della settimana di Natale. Dimenticabile.
Un "giallo" che diventa critica e analisi sociologia, costruito come una serie di quadri separati in cui a guidare è l'equilibrio fra caratterizzazione, scavo dei personaggi e considerazioni dell'occhio super partes del narratore, che rendono la prospettiva ancora più alta. Scrittura eccellente, premio Strega 1989.
Puoi anche considerarlo un almanacco di citazioni affilate come bisturi. Se la trama scorrevole come un torrente al disgelo e il raffinato uso della madrelingua sono insufficienti a farti valutare questo romanzo un piccolo capolavoro.
Stile di scrittura interessante: analizza ogni personaggio, lasciando i fatti sullo sfondo. Talvolta un filino stancante, anche se alcuni profili sono tracciati in maniera brillante.