(Demonte, Cuneo, 1906 - Milano, 2001) Dopo aver frequentato le elementari a Demonte, si trasferisce a Cuneo con la famiglia nel 1916, dove compie gli studi superiori. Conseguita la maturità nel ‘24, s’iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino: tra i suoi professori, spiccano le figure di Ferdinando Neri e Lionello Venturi. Su indicazione di quest’ultimo, comincia a frequentare la scuola di pittura di Felice Casorati. Laureatasi nel 1928, continua a dedicarsi alla pittura ed alla poesia: ha, intanto, conosciuto scrittori e intellettuali del calibro di Cesare Pavese, Mario Soldati, Franco Antonicelli, Arnaldo Momigliano. Nel ‘32 sposa, a Cuneo, Innocenzo Monti, e nel ‘33 nasce il suo unico figlio, Pietro. Nel ‘35 raggiunge a Torino il marito, ivi trasferito per motivi di lavoro; successivamente, espone in mostre collettive ed in una personale. Spinta dal giudizio positivo espresso da Eugenio Montale su alcuni suoi versi, nel ‘41 pubblica da Frassinelli la sua prima raccolta di poesie, “Fiore”. Durante la guerra, aderisce al movimento “Giustizia e libertà” e, su invito di Pavese, nel ‘44 traduce per Einaudi i “Trois contes” di Flaubert. Nel ‘46 decide di abbandonare l’attività pittorica per dedicarsi completamente alla scrittura. Esordisce nella narrativa nel 1951 con una raccolta di brevi testi in prosa, “Le metamorfosi”, con presentazione di Vittorini; è del ‘53 il suo primo romanzo, “Maria”, elogiato da Montale sul “Corriere della Sera” e definito da Gianfranco Contini un “piccolo capolavoro”. Negli anni seguenti, escono il libro di poesie “L'autunno” (1955), i romanzi “Tetto murato” (1957) e “L'uomo che parlava solo” (1961) ed il libro di viaggi “Diario di Grecia” (1959). Bene accolto dalla critica e dal pubblico, il suo quarto romanzo, “La penombra che abbiamo attraversato” (1964), è “una rivisitazione di esperienze infantili e adolescenziali nella quale il rigore stilistico e l’esercizio dell’ analisi tengono a freno l’incombente compiacimento autobiografico” (S.Guglielmino). Il successo arride anche al successivo “Le parole tra noi leggère” (1969), che vince il premio Strega; seguono, tra le altre cose, il romanzo “L’ospite” (1973), la raccolta di poesie “Giovane è il tempo” (1974), il volume di racconti “La villeggiante” (1975), il romanzo “Una giovinezza inventata” (1979), le fiabe de “Lo stregone” (1979) . E’ dell’81 “Inseparabile”, dell’86 “La freccia di Tatiana” (con fotografie di Antonio Ria), dell’87 il romanzo “Nei mari estremi”, ove è rievocata la malattia e la morte del marito. Da segnalare, negli ultimi anni, “Le lune di Hvar” (1991), “In vacanza col buon samaritano” (1997), “Dall'ombra” (1999).
Una verità poetica "... i personaggi sono tutti veri (...). Ma insieme si può dire che tutto è 'inventato' , nel senso che questa è la mia verità poetica (...). Del resto la verità dell'artista non è verità storica, ma la verità delle mie impressioni, e queste impressioni nel mio libro sono assolutamente autentiche" (Lalla Romano).
Una bella lezione per noi fruitori di Letteratura! Siamo con la scrittrice più proustiana fra gli autori italiani e, secondo me, forse la più grande del nostro secondo '900. Lalla Romano, in questo libro veramente molto bello, 'racconta' la propria formazione come donna e come artista nella Torino dei tardi anni '20, dove giunse dalla provincia (Cuneo) per gli studi universitari : dapprima ospite dello zio, il famoso matematico Peano, poi in un pensionato per signorine e signore sole.
L'opera è dunque autobiografica non ovviamente in senso convenzionale, bensì per cogliere in sé "nell'eterno presente delle grandi emozioni segrete" lo specchio di un frammento universale. Un 'romanzo di formazione' di una ragazza che vuole realizzarsi fuori dai conformismi e dagli anticonformismi dell'epoca. C'è nel contempo un continuo disvelamento delle apparenze per cogliere la realtà più autentica anche se talvolta dolorosa.
Lalla Romanofa fa propria l'idea di Joubert di "mettere un intero libro in una pagina, una pagina in una frase e quella frase in una parola". Per cui lo stile è di affascinante bellezza, in armonia col contenuto, essenziale e antiretorico, quasi erede in prosa dell'Ermetismo, diretto e folgorante. Un libro e un'autrice imperdibili, benché inizialmente possano apparire di non facilissimo approccio.
"io stessa sono questa sera azzurra sulla mia vecchia città, i piccoli portici bui, la piazza nevosa - il mio cuore è un brulicare di povere larve nella torbida luce rossastra, nel freddo bianco deserto a specchio del cielo l'anima è una sostanza pallida e fredda, solcata di caldo sanguigno"
Questo libro mi ha parlato di me stessa più di qualsiasi altra cosa abbia mai letto fino ad oggi
La gioia di leggere un libro così coinvolgente da non aver la forza di abbandonarlo e lasciare che le parole di Lalla si spezzino. Incollata ad una sonora vivacità e ad una matura malinconia. La bellezza di sentirsi compresi da un’artista é una piacevole e commovente esperienza di silenziosa onestà.
Al di lá di questi apprezzamenti estremamente personali, é un libro leggero e passionale, semplice ma dai contorni originali. L’anima di una donna anziana che ripercorre i passi della sua giovinezza. Un capolavoro da me a lungo sconosciuto che da oggi terrò fra le mie più care e sincere letture
E’ un romanzo pubblicato nel 1979 quando la Romano aveva 73 anni ma ha tutta la vitalità della giovinezza. Il titolo è tratto dalla prima parte di un aforisma di Elias Canetti, "una giovinezza inventata, che diventa verità nella vecchiaia"; in effetti la giovinezza della Romano, messa a fuoco nella vecchiaia, si mostra più vera perché l’autrice ha acquisito l'esperienza per delinearla nettamente ma allo stesso tempo inventata essendo sfumate le sensazioni della Lalla giovane. Non è un'autobiografia è un romanzo vero e proprio in cui la narratrice sembra rivivere quegli anni di vita giovanile nella Torino della fine anni Venti; resoconto in cui trovano posto le lettere di gioventù, le poesie, i diari di una giovane e geniale studentessa, un "cardo selvatico" era chiamata da un suo professore. Ma il tema dominante del libro è senza dubbio l’amore, l’amore aspro di chi sente di aver chiesto troppo alla vita. Lalla Romano, una ragazza avvenente e sensibile, si sente attratta negli affetti dal suo caro amico Giovanni Oneglia ma negli istinti da Altoviti che spesso chiama A., "ho rivisto A. - egli è nella mia vita il simbolo vivo del mio errore: bellezza e vanità – non umanità – egli è vivo al modo dell’arte – sogno e materia povera – mi è indifferente e fatale" mentre di Giovanni scrive: "alla comunione si alzò e andò all’altare. Lo vidi tornare a capo chino e a mani giunte. Si inginocchiò e chiuse la faccia dentro le palme. Non avevo mai conosciuto uomini così devoti. Sapevo bene che lui era religioso, ma la maniera mi sembrò irreparabile. A modo mio lo ero anch’io, nel senso di credente: ma divisa, in allarme, forse perfino infedele, in fondo; o fedele solo nel fondo". La giovane Lalla, si rimprovera di non saper amare, "io so che sono una donna sbagliata", ma non è una donna sbagliata, forse è una donna scombinata come il pezzo di un puzzle che non si combina con il resto, vorrebbe cambiare forma ma non può. La bellezza tragica e ironica del libro è proprio questa - l’amore vissuto come un’attrazione dei sensi dolorosa e il tempo che non guarirà le ferite poiché è il paziente che non sarà più qui (come scrive il poeta).
È un’atmosfera ovattata quella che avvolge Torino alla fine degli anni Venti del Novecento, sembra quasi possibile sentire la nebbia sulla pelle mentre si attraversano piazze e portici, mentre si rientra la sera tardi nell’educandato nel quale vive Lalla, insieme ad altre giovani che – come lei – inseguono l’università e il sogno di una carriera.
Decisa a studiare filosofia, ma ritrovatasi suo malgrado iscritta a lettere (perchè, in fondo, è più importante ottenere una cattedra che seguire le proprie passioni), Lalla affronta le lezioni con sguardo disincantato, ma al contempo ingenuo; tutto sembra solo sfiorarla, quasi per un accidente, ma nulla pare essere in grado di affondare in profondità, di colpirla davvero.
La vita rimane ai margini della narrazione, la quotidianità viene ridotta a pensiero, l’unica azione possibile è un ripiegamento interno, in cui ciò che è davvero possibile osservare e conoscere rimane circoscritto nei limiti del proprio corpo, della propria mente. Lalla cerca di trovare delle risposte a un’esistenza che amplia costantemente i suoi confini, che la reclama, che le chiede di esserci, di amare, di vivere.
probabilmente ha ragione Natalia Ginsburg quando di questo libro scrive che c’è sempre – parafraso – «qualcosa di inconscio che sfugge». è vero, mi è sembrato talvolta che il coltello della scrittura abbia come temuto di sondare troppo a fondo, a rischio che si porti su qualcosa di troppo insopportabile, un dolore che non si ha il coraggio di provare… e però il suo lavoro l’ha fatto e mi dico soddisfatta. tristezza angoscia malinconia, questo libro dà il permesso di toccarle, di viverle, e a noi tristi in un certo senso ci libera. e come l’autrice afferma che, dopo aver letto Proust, ha temuto che il suo libro l’avesse già scritto lui, anch’io (mio malgrado) dico lo stesso – temo che il mio libro l’abbia già scritto Lalla Romano.
Di biografie autoreferenziali ne esistono, ma questa è roba forte. Per la serie: chi vuole capisca, chi si annoia ci saluti. L'autrice racconta la sua storia come fosse allo specchio, dimenticando il lettore che si danna per cogliere passaggi incomprensibili, o forse sentendosi tanto più intelligente perchè ciò accade. Noiosissimo, un tedio inconsolabile, lo finisco solo per darlo via. La vita di una ragazza del secolo scorso, a cui pure di cose ne sono successe, non mi era mai sembrata così poco interessante.
Lalla Romano rievoca il periodo dell’università a Torino, dove giunse dalla provincia di Cuneo nei primi anni venti del secolo scorso. Il titolo come spiegato nella quarta di copertina si riferisce a un aforisma di Elias Canetti: Una giovinezza inventata che diventa verità in vecchiaia, che a distanza di cinquant’anni non può che essere vista nel senso favolistico del termine, affidandosi alla memoria e alle poche tracce rimaste. La scrittura è, come in altri romanzi, precisa e stringata, pochi tratti per descrivere efficacemente una situazione, un personaggio anche se questa volta mi è sembrata a tratti fredda e distaccata, in altri momenti pervasa da lirismi fin eccessivi. Migliore la prima parte, con l’arrivo di lei a Torino, i primi giorni nel convitto femminile in collina e all’università, le visite ai parenti, le giornate alla scoperta di una città a lei ancora sconosciuta. Una galleria di luoghi e personaggi molto “sabaudi” ben delineati, tra antichi palazzi e dimore austere. La giovane Lalla non si fa certo intimorire dall’essere una di provincia, ignara ancora di molte cose, distinguendosi con il suo carattere schivo e forse spigoloso ma anche spavaldo e sbarazzino tanto che un suo professore la definirà affettuosamente “un cardo selvatico” (e infatti vista in una immagine dell’epoca dà quella impressione…). Si iscrive a lettere, ma si interessa di filosofia e di matematica, segue corsi di pittura e si diletta di poesia, sempre alla ricerca della verità e della bellezza, mai soddisfatta dei risultati ottenuti. Quando il racconto recupera le lettere a suo tempo scritte – a una compagna di studi in Francia, al suo unico vero amico, ai professori con cui disquisisce di filosofia e di poetica – diventa purtroppo più frammentario ed intellettualista, pagine ricche di slanci e aneliti giovanili ma un po' da “prima della classe”. Lo stesso dicasi della narrazione delle sue frequentazioni, corteggiata e omaggiata in più di un’occasione, fino al suo primo (?) amore per una persona che di lì a poco definirà fatua. Molta gioia di vivere e di scoprire, pur con la serietà morale di una ragazza della sua epoca e classe sociale, mentre la politica – sono i primi anni del fascismo – rimane sullo sfondo e mai in primo piano. Confesso che dopo aver divorato, come mi capita con i suoi romanzi, la prima parte, ho finito quasi per arenarmi nell’ultima. Questione di gusti e impressioni personali che nulla toglie alla grandezza letteraria della scrittrice piemontese. Questa volta tre stelle
Memoir pazzesco, sperimentale nello stile. A brani narrativi si alternano frammenti di pensieri dell'autrice che è difficile capire se sono stati davvero scritti dalla lei universitaria o rimaneggiati dalla lei anziana. Questa ambiguità tra resoconto degli eventi della giovinezza e manipolazione dei ricordi nella narrazione è la costante nella scrittura del memoir, e Romano ne è perfettamente consapevole, come dichiara tramite la citazione di Canetti posta in apertura: "Una giovinezza inventata, che diventa verità nella vecchiaia". Andare quindi alla ricerca della perfetta "accuratezza storica" è un esercizio privo di senso, perchè narrare di sè è sempre in parte, inevitabilmente, romanzare. Le parti che più mi hanno coinvolta e fatta sentire in comunione con l'autrice (che peraltro spesso mi ha fatto detestare i suoi modi da borghesotta repressa) sono quelle sul desiderio. Le lettere immaginate o spedite ad un amato che è più oggetto del desiderio che concreto oggetto d'amore, ideale su cui la giovane Romano proietta significati che l'uomo superificiale e vanesio di cui è presa non possiede. Il suo egocentrismo non è mai di troppo. è sempre una scoperta squisita leggere di una donna che si pone come soggetto desiderante, che posa gli occhi su un uomo e lo "fa a pezzi" rimirandoselo senza farsi scrupoli. Ho apprezzato anche moltissimo le parti sul senso di inferiorità che le donne umaniste provano - influenzate dall'ambiente accademico e sociale che le svaluta in quanto donne e poi in quanto studiose di materie umanistiche "inutili" - nei confronti degli uomini scienziati e matematici.
I don't really know how to comment on this book, because I don't really think I got it. Romano's style is very elegant and it reminds me of the prose of the 19th century. In addition to that, there are so many references to classical literature and culture and in the book several characters are intellectuals and academics, famous in the 20th century but now unknown to the not-experts (like me). It's impossible to read this fictional diary without being in a quiet place and ready to focus on the words that Romano chose. This happens because every word is important and the metaphors are quite complex. However, at the end of the book, the considerations made by the protagonist become rather monotonous and repetitive. I really enjoy instead the descriptions of the city, Turin, and the mountains and I really love the society she describes, but it's a bittersweet feeling: I am really fascinated by the cultural and academic world of the early 20th century but I don't really appreciate that Romano mentioned only in few details the fascist regime, because, in my opinion, it isn't something that can be ignore.
Inventare – etimologicamente – significa trovare qualcosa che prima non esisteva. Cosa significa, quindi, inventare una giovinezza? Significa creare una spiegazione ai perché di ieri che sono germogliati oggi: “Io non potrò trovare un’espressione qualsiasi perché io mi risolvo tutta nel palpito delle cose che si muove perpetuamente.”
Significa rendere reale un periodo della vita avvolto da un’aura mitica e ancestrale, spesso caratterizzato non da fatti ricordati, ma da frammenti e malinconie.
Significa dare ordine ai ricordi e a quella vita che “è un seguito di meravigliosi appunti”.
Uscito quando la Romano aveva 73 anni, Una giovinezza inventata è il diario di una giovinezza vissuta ma capita solo a posteriori. È il tentativo di ricostruire le proprie radici attraverso un racconto lirico, ma oggettivo e disincantato, degli anni di formazione e dell’incontro della scrittrice con Torino, il mondo, la filosofia, l’arte, gli uomini e l’amore.
Una giovinezza inventata è un insieme di frammenti ricchi di significante che veicolano un significato a volte oscuro, altre chiarissimo, raccontando un pezzo di vita e facendo luce su una storia d’altri tempi che, in fondo, è sempre la stessa: quella della crescita e dell’incontro con l’altro.
Il tutto è reso unico e straordinario da una scrittura leggera, frammentaria, impalpabile. Le descrizioni della Romano sono piccole pitture espressioniste, dove gli oggetti riflettono l’inesprimibile e quel senso di solitudine e inadeguatezza che da sempre sembra accompagnare la scrittrice.
Una giovinezza inventata è un romanzo sospeso nel tempo. Un libro che “inventa” ciò che tutti siamo stati: giovani.
Ho amato le descrizioni della città di Torino contenute nel libro (forse di parte in quanto mia città natale). Le atmosfere sono magiche e ovattate, di una realtà d’altri tempi. Non accadono grandi avvenimenti, è più il racconto degli anni universitari dell’autrice, ma è interessante la narrazione in quanto presentata in un certo modo. Non darei 5 in quanto non si tratta certo di una lettura indimenticabile, ma ci si affeziona alla protagonista, alla malinconia della narrazione, e anche il finale dolceamaro è perfettamente in linea con le sensazioni evocate durante la lettura.
Volevo leggere questa autrice da tanto tempo e questo era uno dei titoli che mi intrigava di più. Ne ho amato le atmosfere, lo stile, quello che ci viene raccontato ma purtroppo non ne ho apprezzato il come.
Non ho apprezzato molto come questa giovinezza ci viene raccontata, mi sono sembrati spezzoni, come se l'autrice si ricordasse man mano quello che era successo in quegli anni.
Quindi leggerò sicuramente altro perché questo titolo non mi ha soddisfatta.
Letto per motivi di studio nel tentativo di immergermi nel clima culturale torinese di fine anni Venti-inizio anni Trenta e conoscere da vicino Lionello Venturi, Felice Casorati e tanti altri protagonisti. Bellissimo romanzo!