I divoratori sono i giovani geni destinati a consumare, generazione dopo generazione, chi è loro più vicino e più li ama. Con questo libro, il suo riconosciuto capolavoro, pubblicato prima in inglese e poi riscritto in italiano nel 1911, Annie Vivanti, singolare figura di scrittrice e protagonista della vita pubblica letteraria, fortemente di genere (come oggi si direbbe), circondata dalla fama e seguita dai pettegolezzi, riconquistò, dopo un ventennio, il mercato librario italiano, per non lasciarlo più fino alla morte. È una saga al femminile di impronta nettamente autobiografica: si succedono figure di figlie, geniali, a loro volta madri, che divorano spiritualmente, sacrificando a sé chi diede loro la vita: Nancy, la poetessa, poi la figlia Anne-Marie, enfant prodige del violino, e infine il figlio di questa nel quale anche la musicista si annulla per produrre nuovo genio. E ciò che colpisce di questa scrittrice, è la suggestiva capacità di trascinare il lettore in ambienti che nascondono il loro sapiente esotismo, la loro dosata miscela di dramma e commedia avventurosa lievemente inebriante, nel vissuto dell’autobiografia. Finzioni e cose viste realmente, difficilmente distinguibili, confuse dal brillante profilo di una donna abilissima a fare di se stessa una narratrice e insieme anche un personaggio: il personaggio. Nei Divoratori palpita tutto l’ampio respiro di un mondo sospeso tra realismo e fantasia, che trascorre dai sogni dell’infanzia alle disillusioni ironiche di amori imperfetti, dalle segrete dolcezze dei sentimenti adolescenti alle miserie dei quartieri popolari, da Montecarlo a New York alla campagna inglese. Una storia in cui si riversano le tante storie di personaggi dall’anima teatrale, attori e comparse popolanti l’ampia commedia umana che per questa artista, che Carducci amò, figlia di un esule mazziniano e sposa di un patriota irlandese, era la vita.
Anna Emilia (Annie) Vivanti (Norwood, 7 aprile 1866 – Torino, 20 febbraio 1942) è stata una poetessa italiana. Visse ed operò all'interno di varie culture e fu scrittrice eccentrica, personaggio dagli interessi multiformi, protagonista della vita intellettuale e mondana di molti paesi. Figlia di Anselmo Vivanti, patriota mantovano di antico ceppo ebraico, e di Anna Lindau (scrittrice tedesca, sorella dei celebri letterati Paul e Rudolph, d'importante casata germanica), Annie Vivanti nacque il 7 aprile 1866 a Londra, dove il padre, seguace degli ideali mazziniani, aveva trovato rifugio politico in seguito ai moti di Mantova del 1851.
Cresciuta fra l'Italia, l'Inghilterra, la Svizzera e gli Stati Uniti, dopo aver vissuto esperienze stravaganti come artista di teatro la Vivanti esordì nel mondo letterario con la raccolta poetica Lirica (Milano, Treves 1890), pubblicata in Italia con la prefazione di Giosuè Carducci, che le dette subito un vasto successo di pubblico e legò il suo nome a quello del grande poeta italiano per il quale Annie nutrì un intenso sentimento che durò fino alla morte di lui. Nel 1891 pubblicò il primo romanzo, Marion artista di caffè concerto (Milano, Galli) ma dopo il matrimonio con l'irlandese John Chartres - celebrato in Inghilterra nel 1892 - la Vivanti trascorse quasi venti anni fra l'Inghilterra e gli U.S.A., scrivendo soltanto in inglese racconti (Perfect, 1896; En Passant, 1897; Houp-là, 1897; A fad, 1899), romanzi (The Hunt for Happiness, 1896; Winning him back, 1904) e opere teatrali (That man, 1898; The ruby ring, 1900). In Italia sembrò aver lasciato la letteratura, con l'unica eccezione del dramma La rosa azzurra, rappresentato in teatro fra il 1898 e il 1899, l'unico clamoroso insuccesso della sua fortunata carriera, mai pubblicato.
Un nuovo capitolo della sua vita si aprì dopo il 1900, anche a seguito di un difficile periodo vissuto a cavallo fra i due secoli, quando la figlia Vivien - nata nel 1893 - cominciò ad affermarsi come enfant prodige del violino ed in breve divenne una acclamata celebrità internazionale. Dall'esperienza del successo di Vivien, Annie trasse motivo per un suo rilancio in letteratura, prima col racconto The true story of a Wunderkind (1905) e poi con l'opera sua più celebre, The devourers, scritta e pubblicata in Inghilterra nel 1910 e poi riscritta in italiano col titolo I divoratori (1911) con cui, dopo vent'anni, tornò a dominare il mercato editoriale italiano. Da questo momento in poi, fino alla fine degli anni trenta, Annie Vivanti conobbe un successo ininterrotto con romanzi come Circe (1912), Vae Victis (1917), Naja tripudians (1920), Mea culpa (1927); raccolte di novelle (Zingaresca, 1918; Gioia, 1921; Perdonate Eglantina, 1926); drammi (L'Invasore, 1915; Le bocche inutili, 1918); opere per l'infanzia (Sua altezza, 1924; Il viaggio incantato, 1933); réportages di viaggio (Terra di Cleopatra, 1925). Le sue opere furono accompagnate sempre da un notevole successo internazionale di pubblico e di critica, furono tradotte in tutte le lingue europee e recensite da grandi nomi della cultura quali Benedetto Croce (che le dedicò due saggi critici nel I e nel VI volume della Letteratura della nuova Italia) e Giuseppe Antonio Borgese in Italia, George Brandes, Jaroslav Vrchlický, Rado Antal e Paul Heyse in Europa.
Durante la Prima guerra mondiale, la Vivanti si impegnò a difendere la causa italiana sulle colonne dei principali giornali inglesi e nell'immediato dopoguerra abbracciò la causa delle nazionalità oppresse principalmente in chiave antibritannica, avvicinandosi sempre di più a Mussolini e al nascente fascismo. Contemporaneamente sostenne col marito - attivista sinnfeiner - la causa dell'indipendenza irlandese, impegnandosi su varie testate giornalistiche europee e facendo da assistente alla delegazione irlandese a Versailles nel 1919, dove strinse un rapporto d'amicizia personale anche con Zagloul Pascià d'Egitto.
La creaturina nella culla aprì gli occhi e disse: - Ho fame.
Io sono NERA.
Per le vicende narrate, certo. Perché quando un libro parla alla nostra anima si vorrebbe che non finisse mai, certo. Ma non solo.
Non ho scoperto Annie Vivanti a scuola, né all'università, né nelle antologie, né nei manuali di letteratura, né in quegli pseudoconvegni con titoli altisonanti come "rifrazioni", "microcosmi", "legami" sulle donne nell'arte. Non l'ho scoperta nemmeno tramite qualche influencer o booktoker, che sicuramente fanno un lavoro migliore di tanti esperti di marketing. Era un semplice estratto in una rivista di enigmistica, tra tanti cruciverba senza schema. Un estratto che però, periodicamente, mi tornava in mente.
E che piccola perla, questo romanzo. Che scrittura accattivante, con una prosa agile ma scrupolosa, con una penna vigorosa e delicata allo stesso tempo, con figure retoriche che arrivano dalla sua esperienza poetica e che impreziosiscono una narrazione unica nel suo genere. Non ho mai letto niente del genere, niente che sia stato scritto così.
E non posso fare a meno di pensare a quanto la Anna del liceo, mortificata dai D'Annunzio, dai Gozzano, dai Boito, dagli Svevo della letteratura italiana, sarebbe stata felice di leggere una scrittrice come Annie Vivanti, che non rientra in nessuna corrente tradizionale, che parla della vita come la vivono le donne e in particolare le artiste, che tratteggia l'infanzia e la maternità in tutta la sua assurdità ed innocenza meglio di tanti maschi letterati (questa è una componente che ho osservato in tante altre grandi scrittrici), maschi che nel suo libro quando sono pessimi rivelano tutta la debolezza del loro sesso e quando sono benintenzionati non riescono a comprendere le loro compagne e le abbandonano a loro stesse. La storia narrata e i suoi personaggi sono di una contemporaneità sconcertante. Se avessi prestato più attenzione alle lezioni di semantica all'università, forse adesso sarei in grado di esprimere un alto giudizio critico. E se la lettura di questo romanzo non mi avesse scosso nel profondo, ora potrei scrivere un commento pacato, motivato da osservazioni oggettive e sostenuto da una conoscenza approfondita del contesto storico e letterario in cui si inserisce. Ma non posso essere oggettiva su un libro che mi ha fatto piangere, per ben tre volte, scattare in piedi dal nervoso e meravigliata per la sua liricità. L'ho adorato, posso solo dire questo.
Risale ad ormai quattro anni fa la mia lettura dei Racconti americani di Annie Vivanti, recensendo i quali avevo formulato un giudizio sospeso sull’autrice: pur assegnandole un ruolo minore nel non esaltante panorama della letteratura italiana dei decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, avevo trovato nei suoi racconti un indubbio talento narrativo ed una certa capacità di analisi dei vizi e delle virtù della media ed alta borghesia, classe sociale cui la scrittrice apparteneva e che formava l’oggetto principale dei suoi prodotti letterari, riservandomi di approfondire la conoscenza di questa autrice proprio attraverso la lettura de I divoratori, considerato il suo romanzo più importante. Un dato solo apparentemente tecnico, da porre subito in evidenza, in quanto a mio avviso contribuisce non poco al tono della prosa del romanzo, è la genesi peculiare della sua edizione italiana. The Devourers esce infatti a Londra, in inglese, nella primavera del 1910: Annie Vivanti, che sotto l’egida di Carducci aveva ottenuto una ventina d’anni prima una certa notorietà con il volume di poesie Lirica e con il romanzo Marion artista di caffè-concerto, ha abbandonato l’Italia dopo aver sposato nel 1892 l’uomo d’affari, giornalista e politico irlandese John Smith Chartres: vive tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, pubblicando alcuni romanzi e molti racconti al tempo non tradotti nella nostra lingua, tra i quali quelli raccolti nei Racconti americani. In vista della pubblicazione italiana del romanzo, che avverrà nel 1911 ed a cui Vivanti attribuisce grande importanza, la scrittrice non lo traduce, ma lo riscrive, e così facendo – memore forse delle sue ascendenze liriche carducciane - accentua, come vedremo, quello che ritengo uno dei molti punti di debolezza del romanzo: l’uso di una prosa che sovrappone, ad elementi strutturali di stampo realista, una infiorettatura aulica del tutto superflua, il che colloca il romanzo entro una cornice stilistica che definirei, mutuando il termine dall’architettura dell’epoca ed utilizzandolo in senso negativo, eclettica. I divoratori segnò quindi il ritorno letterario di Annie Vivanti in Italia, ed ebbe un grande successo di pubblico, facendo dell’autrice una scrittrice popolare, che nei seguenti trent’anni – si trasferirà definitivamente nel nostro Paese negli anni ‘20 – darà alle stampe altre opere, alcune delle quali dedicate a temi importanti come gli stupri di guerra e il colonialismo britannico. Lo spunto tematico alla base de I divoratori è squisitamente autobiografico. Nel 1893 Vivanti e Chartres hanno infatti avuto una figlia, Vivien, che ben presto si rivelerà una prodigiosa violinista in erba. Annie asseconda il genio della figlia, gestendo, in qualità di mamma-agente, la carriera della figlia, che ancora bambina tiene concerti in tutta Europa e suona tra gli altri per i reali d’Italia e Gran Bretagna. Già nel 1905 Vivanti ha dedicato a sua figlia un racconto, dal lungo titolo The True Story of a Wunderkind told by its mother Annie Vivanti, uscito su una rivista londinese, nel quale ha riversato le sue angosce di madre di una bambina prodigio. Nel romanzo lo spunto è analogo, essendo centrato sui genitori dei genii, la cui vita è inevitabilmente divorata dalla personalità artistica dei figli e dalle loro esigenze. Figura centrale del romanzo è Nancy, nella cui vicenda non è difficile riconoscere alcuni aspetti di quella dell’autrice. Nancy infatti è figlia, come Annie, di genitori anglo-italiani, anche se nel romanzo è il padre, già morto di tisi quando il racconto inizia, ad essere inglese. La madre di Nancy, Valeria, appartiene alla buona borghesia milanese e, appunto vedova da poco e con la piccola di pochi anni, è ospitata nella villa di famiglia dei suoceri, gli Avory, nello Hertfordshire. Nancy cresce circondata dall’affetto dei ricchi parenti, in particolare da quello della zia Edith, che ha pochi anni più di lei, e ben presto rivela delle straordinarie doti poetiche, al cui sviluppo la madre sacrifica le possibilità di rifarsi una vita. Tornata in Italia, a quindici anni pubblica un volume di liriche, divenendo per un certo tempo una delle giovani poetesse italiane più acclamate. Sembra destinata ad una fulgida carriera letteraria, ma gli impegni mondani prima e l’accendersi dei primi sentimenti amorosi poi la distolgono continuamente dalla scrittura di un progettato romanzo che avrebbe dovuto riportarla sotto i riflettori della celebrità. Ben presto sposa un affascinante napoletano, Aldo Della Rocca, che si rivela essere un volgare ed inetto cacciatore di doti e con il quale ha una figlia, Anne-Marie. Caduta in ristrettezze economiche, cui non possono più far fronte i parenti, la famiglia tenta la fortuna a Montecarlo e quindi ripara a New York, dove cade in miseria. Ogni volta che la situazione sembra disperatamente senza uscita, una circostanza inusitata risolleva le loro sorti, sinché Aldo abbandona moglie e figlia. Ancora una volta Nancy riesce a risollevarsi, grazie ad un improbabile aiuto, mentre la piccola Anne-Marie rivela straordinarie doti di musicista. La vita di Nancy cambia radicalmente: abbandona definitivamente le sue prospettive letterarie per dedicarsi completamente alla carriera della figlia, il cui talento è confermato da un famoso maestro di Praga: Anne-Marie per alcuni anni miete successi in tutta Europa, sinché, giovane donna, sente il richiamo dell’amore e lascia sola la madre per andare a vivere con il marito. Poco tempo dopo, un pianto sale da una culla, ed il ciclo sembra ricominciare. Accanto a questa linea narrativa principale il romanzo propone altre storie nella storia, che coinvolgono i membri delle due famiglie d’origine di Nancy, come quella dell’amore crepuscolare tra il cugino Nino ed una grande attrice teatrale giunta ormai al tramonto artistico e della bellezza o quella della giovane zia Edith, costretta dalla tisi a rifugiarsi a Davos, oppure ancora la vicenda dello strano lavoro svolto da Aldo Della Rocca a New York per una ricca moglie tradita. Una prima considerazione sul romanzo deriva dalla sua ambientazione, come detto sopra ampiamente autobiografica. Si ritrovano qui, come nei Racconti americani, le culture di riferimento di Annie Vivanti: italiana, britannica e statunitense, oltre a quella tedesca, ma come nei racconti non mancano gli stereotipi, soprattutto nei confronti dell’Italia e degli italiani. Significativa in questo senso è la caratterizzazione del marito di Nancy, Aldo Della Rocca, che rappresenta ”il sangue di molte generazioni di lazzaroni napoletani – begli animali indolenti, paghi di essere sdraiati al sole – incrociato ed alterato dal sangue dell’economico nonno bottegaio che vendeva coralli e verdure del Vesuvio in via Chiaia”. Agli occhi della anglo-milanese Vivanti, Aldo è non solamente il classico meridionale fascinoso ed imbroglione, che gesticola in continuazione mentre parla, ma sconta anche, per l’altoborghese scrittrice, la tara di discendere da una stirpe di bottegai, il che lo rende economo sino alla tirchieria nei confronti della famiglia. Probabilmente questo ed altri accenti sul carattere degli italiani – ad esempio l’insistenza sullo stupore di un vecchio zio milanese di Nancy che, recatosi in visita dagli Avory si stupisce che gli inglesi non mangino mai né maccheroni, né risotto né cappelletti al sugo - cui non corrisponde una analoga marcata stereotipizzazione dei personaggi inglesi o statunitensi, sono ascrivibili al fatto che il romanzo fosse destinato originariamente al pubblico inglese, e in particolare nelle intenzioni dell’autrice ad un pubblico vasto e di bocca buona, che in qualche modo esigeva di riconoscere in un personaggio italiano i nostri tratti tipici. In un romanzo che si basa quasi esclusivamente sulle relazioni tra persone nel chiuso di un ambito familiare tipicamente borghese, scarne sono sia le intromissioni di personaggi estranei a tale cerchia, sia l’attenzione che l’autrice rivolge all’ambiente fisico in cui le vicende narrate si svolgono. I pochi personaggi delle classi subalterne che assumono un certo ruolo nel romanzo, quali Fraülein Müller e Bemolle, l’assistente musicale della piccola Anne-Marie, vivono solo in funzione dei bisogni dei loro padroni, apparendo quindi anch’essi decisamente stereotipati (da libro Cuore è in particolare il costante pensiero di Bemolle per la povera mamma, sola in uno sperduto paesino dell’Appennino). Una notevole eccezione, tra i personaggi minori del romanzo, è rappresentato da Nunziata Villari, la grande attrice ormai al tramonto che si aggrappa al suo amore per Nino, conscia che sarà ormai l’ultima delle numerose avventure sentimentali della sua vita. Forse anche attraverso questo personaggio, la cui vicenda appare a prima vista inessenziale nell’economia del romanzo, si insinua sottotraccia un accenno autobiografico. Vivanti scrive infatti I divoratori attorno ai quarant’anni, età in cui all’epoca una donna di classe sociale elevata veniva già considerata vecchia (le donne proletarie invecchiando giocoforza molto prima…), ma soprattutto scrive il romanzo in un’epoca in cui la giovane Annie, vissuta tra molti scandali ed amanti, tra i quali Carducci, e per la quale a Londra un uomo si è suicidato, ha già lasciato il posto alla moglie devota ed alla madre premurosa, che accompagna e protegge la figlia nella sua celebrità. Di fatto, a mio avviso, Vivanti assegna a Nunziata Villari il compito di descrivere il tramonto di ciò che era stata sino a qualche anno prima, ed a Nancy quello di mostrare ciò che era diventata. Significativamente, infatti, le due si incontrano casualmente in un palco teatrale napoletano, quasi per un emblematico scambio di consegne. Quanto agli ambienti visitati nel romanzo, se l’Italia è poco presente, limitandosi essenzialmente ad alcune vie di Milano ed a puntate sul Lago Maggiore ed a Roma, se l’Inghilterra è condensata in qualche breve cenno alla dolcezza della campagna dell’Hertfordshire, una attenzione relativamente maggiore viene riservata dall’autrice ai numeri alti delle avenues periferiche di New York dove Nancy e famiglia devono rifugiarsi a causa della loro povertà: sono di fatto queste le uniche pagine in cui emerge il fatto che il mondo non termina nelle case, nelle ville e negli alberghi dove vivono i ricchi protagonisti, che quando non muoiono di tisi o sotto un tram sono soliti passare ”giornate incantevoli: giornate di tennis e di golf, di croquet e di garden-parties, con le belle ragazze dello Squire e gli impacciati figli del Vicar”. Del resto l’ambientazione elitaria del romanzo emerge, a mio modo di vedere, anche nella scelta del suo tema portante, che non è – si badi bene – genericamente relativo al conflitto generazionale, ma al rapporto tra figlie geniali e madri. Nancy è un genio della poesia, ed allo sviluppo del suo genio Valeria, la madre, sacrifica come detto la possibilità di risposarsi; a sua volta al genio musicale di Anne-Marie verrà sacrificata la scrittura del romanzo che avrebbe dovuto rinverdire la celebrità di Nancy, e molto probabilmente anche alla creaturina che vagisce nella culla alla fine del romanzo Anne-Marie sacrificherà il suo talento artistico. È quindi nelle famiglie ricche e raffinate che nascono genii, e sono questi ultimi a divorare i genitori. Più in basso nella scala sociale, sembra dirci Vivanti, non vi sono le condizioni culturali perché problemi simili possano porsi. A scusante di questa visione fortemente classista dell’autrice va tuttavia evidenziato ancora una volta il carattere autobiografico del romanzo. Proprio a proposito di ciò è comunque doveroso rifarsi ad una annotazione del curatore del volume, Carlo Caporossi, che sottoscrivo e che dona ad un’opera che complessivamente giudico poco più che mediocre un sottile fascino quasi metaletterario: egli nota infatti che il gioco di Vivanti con il lettore è molto sottile, in quanto ella, a differenza di Nancy, ha in realtà scritto il romanzo che le ridarà notorietà, e questo romanzo è proprio quello che il lettore sta leggendo. In altri termini, Vivanti non si è fatta divorare da Vivien. A parte queste sottigliezze, le mie perplessità sul valore de I divoratori sono accentuate anche da alcuni altri elementi strutturali del romanzo. Innanzitutto per il suo essere stato indubbiamente concepito come libro fatto per vendere. Ne sono testimoni inequivocabili i numerosi colpi di scena che costellano la vita di Nancy, che servono sostanzialmente per trarla d’impaccio quando sembra che nulla possa più salvarla dalla miseria più nera: vince somme consistenti alla roulette, incontra per caso persone conosciute anni prima che si incaricano immediatamente di aiutarla, sino a giungere all’inverosimile e unicamente strumentale vicenda del Selvaggio, il ricchissimo imprenditore che si innamora di lei a distanza e sarà il deus ex machina dell’ascesa artistica di Anne-Marie. Vi è poi l’accennato eclettismo della scrittura che a mio avviso si risolve in uno stridente contrasto tra il buon ritmo di molte pagine, di cui è un esempio l’incipit: “La creaturina nella culla aprì gli occhi e disse: - Ho fame” ed altri passi, nei quali ad esempio la Primavera, ”alta, flava e inghirlandata”, fa capolino tra le siepi per scappare inseguita dal vento, oppure il lettore scopre che ”l’aurora dell’anima di Nancy, avvivata da presaga fiamma, urgeva a più rapido mattino”, periodo che, con pochi aggiustamenti, avrebbe potuto trovare più degna collocazione sul basamento di un qualche monumento postrisorgimentale: L’aurora d’Italia, avvivata da presaga fiamma…. Qui indubbiamente urge e tracima l’allieva del Carducci, al quale peraltro il romanzo riserva un deferente omaggio, essendo il poeta morto proprio durante la sua stesura. L’acme della deferenza è comunque raggiunto nel corso delle visite dei due genii alle sovrane italiche: la giovane Nancy da Margherita e, anni dopo, la piccola Anne-Marie da Elena. Anche in questi passi Cuore ed il Carducci di Alla Regina d’Italia sono molto vicini, ed ancora una volta spetta al povero Bemolle diventare quasi un personaggio deamicisiano, quando, dopo l’incontro regale, pensa ”che stenderebbe alla tremula stretta della sua vecchia madre una mano che il tocco d’una regina aveva consacrato”. In conclusione, credo di poter dire che I divoratori non è certo un caposaldo della letteratura di inizio ‘900: non lo è per la letteratura anglosassone, che autori di ben altro spessore esprimeva in quegli anni, ma neppure per la asfittica letteratura italiana del periodo, colmo com’è di una vacua ambientazione elitaria e di personaggi bozzettistici che ne fanno una sorta di prodotto secondario della Belle époque. Vivanti voleva colpire il suo pubblico borghese e vendere, e ci riuscì, sacrificando però ai colpi di scena gratuiti e ad un certo carduccianesimo di ritorno gran parte del buono che si trova nei suoi precedenti racconti. Visto che questo è considerato il suo capolavoro, mi asterrò dalla verifica diretta dell’eventuale maggiore importanza di altre sue opere.
Ero molto curioso di leggere questo romanzo, che è considerato il capolavoro di Annie Vivanti. Scritto originariamente in inglese e successivamente riscritto in lingua italiana, I divoratori consente di scoprire un'autrice che unisce uno spirito amabilmente anglosassone all'ineliminabile sentore d'epoca. Gradevole anche per un lettore d'oggi, per quel pizzico di cinismo e di sano realismo che sfuma lirismi e rappresentazioni oleografiche. La prima impressione è di essere accompagnati nella lettura da un discorso brillante, quasi precursore del moderno chic-lit, che allontana la Vivanti dalle abitudini letterarie cupe e lacrimose di molte autrici e autori italiani dell'Ottocento e del primo Novecento. Non mancano gli elementi tragici, non è assente il dolore, ma sempre rasserenato, in qualche modo, da una scrittura che non vuole ammantarsi solo di veli neri. La vita finisce per prevalere sul lutto, il dramma sul melodramma. Bella la rappresentazione di Davos, città in cui vita e morte viaggiano in simbiosi, in cui il racconto della Vivanti non sfigura di fronte alle splendide pagine di Thomas Mann, belle le scene della realtà di Montecarlo, ancor meglio quelle che raccontano le esperienze americane della protagonista, divoratrice a sua volta divorata e incapace di vivere una realizzazione autonoma.
I found this book to be a good read and totally different from books written today. Not better, not worse, just different. Annie Vivanti has an almost lyrical writing style and it is high are in itself. The story was well written and easy to follow (except maybe too many characters in the beginning.) I bought two more books from Annie because of reading this book.
La mia storia d'amore con Annie Vivanti ha inizio in modo un po' inusuale. Quando li trovo compro, spesso e volentieri, i vecchi Almanacchi della Bemporad. In uno di questi, "Almanacco della Donna Italiana 1922", c'era un racconto di Annie Vivanti. Ammetto la mia ignoranza, non la conoscevo, ma il racconto mi piacque talmente che andai a leggermi tutta la sua biografia e scoprii una vita interessantissima e a tratti tragica. Mi sono quindi imbattuta ne "I divoratori", e l'ho... divorato. Merito anzitutto di un prologo e di un incipit folgoranti, che devo per forza di cose incollare qui: PREFAZIONE C'era un uomo che aveva un canarino; e disse: "Che caro canarino! Se potesse diventare un'aquila!" Iddio disse: "Nutrilo del tuo cuore, e diverrà un'aquila". Allora l'uomo lo nutrì del suo cuore. E il canarino divenne un'aquila, e gli strappò gli occhi. C'era una donna che aveva un gatto; e disse: "Che caro gattino! Se potesse diventare una tigre!" Iddio disse: "Dàgli a bere il tuo sangue, e diverrà una tigre". Allora la donna gli diede a bere il suo sangue. E il gatto divenne una tigre, e la sbranò. C'era un uomo e una donna che avevano un bambino. E dissero: "Che caro bambino!... Se potesse diventare un genio! " E dopo questa prefazione, l'incipit. "La creaturina nella culla aprì gli occhi e disse: - Ho fame." Ecco, in quell'"ho fame" è racchiuso il romanzo intero. Perché si tratta di un romanzo incentrato sul divorare. Non si tratta di un divorare fisico, no. E' un divorare puramente mentale e spirituale, peraltro visto da una prospettiva quanto mai scomoda e attuale: i figli che divorano la vita dei genitori. Nello specifico si parla, qui, di donne: Nancy e Anne-Marie, madre e figlia. Nancy, fin da bambina, ha manifestato uno spiccato talento per la poesia. E' una ragazza di buona famiglia, viene assecondata in tutti i modi e pubblica una raccolta di liriche molto apprezzata in giovane età. La via per il successo nei salotti della Belle Epoque sembra spianata. I casi della vita, in primis un amore sbagliato, le tarperanno prematuramente le ali. Incinta di Anne-Marie e in difficoltà economiche, Nancy perderà di vista la sua strada. "Farò, scriverò", inizierà a parlare al futuro e, infine, giungerà a non scrivere più nulla, completamente incapace di una realizzazione. Questo perché la nuova nata, Anne-Marie, la assorbirà completamente. Rivelatasi un genio del violino, la bambina verrà avviata a una precoce carriera sotto gli occhi di una madre che la vedrà, lentamente, commettere tutti i suoi stessi errori fino a un finale che sembra lasciar continuare la spirale all'infinito. Un romanzo, insomma, in cui il genio e il talento fagocitano non soltanto chi li possiede ma anche e soprattutto le vite di chi sta loro intorno, in cui i figli sono divoratori inconsapevoli e in cui le donne cessano di esistere nell'attimo in cui diventano madri, poiché la maternità le annulla. Parzialmente autobiografico, il libro spicca per il modo in cui riesce a trattare un tema "spinoso" senza risultare mai pesante o gratuitamente provocatore. Annie, che nasce poetessa, riesce anzi a inserire pagine di notevole lirismo e numerosi spunti di riflessione, coniugando a essi intrecci amorosi, un girovagare da romanzo di avventure e una buona introspezione psicologica. Le righe si ammantano di un velo di grazia che non nasconde il dolore né la crudeltà ma impedisce al romanzo di scadere nel morboso. Annie apre, infine, una bella finestra sulla vita durante la Belle Epoque, nelle classi sociali abbienti come in quelle meno facoltose. I vari luoghi in cui è ambientata la narrazione (la campagna inglese, l'Italia, Montecarlo, New York), sono pennellati sapientemente e risultano protagonisti delle vicende quasi quanto i personaggi. Un romanzo di gusto retrò ma al contempo incredibilmente moderno che, se non rientra nei capolavori della letteratura italiana, ho comunque amato profondamente e di cui non posso che consigliare la lettura.
Un libro che contiene una idea potente e forte e che riesce a catturare il lettore. Molti 'scrittori' contemporanei dovrebbero imparare da qui. Potete trovare questo libro gratuitamente in versione elettronica sul sito www.liberliber.it e www.gutenberg.org. Buona lettura!