Bauli di famiglia, vecchi armadi, cesti di vestiti, ognuno dei quali è custode di ricordi, del susseguirsi delle mode e delle stagioni. Vestiti odiati, amati, usurati o più semplicemente passati di moda che come una seconda pelle ci appartengono e ci definiscono, che sopravvivranno al nostro corpo, continuando a raccontare la nostra vita anche dopo di noi. Tessuti naturali e sintetici, colori sgargianti o sobri, tra la trama e l’ordito si depositano scampoli di una storia, personale e collettiva, che raccontano i momenti che più ci hanno segnato: i primi amori, l’impegno politico, i viaggi. Con un’ironia arguta e una profonda sensibilità cosmopolita Jane Sautière apre le ante del suo guardaroba per regalarci un memoir raffinato e originalissimo e ripercorrere le tappe di una vita in bilico tra Occidente e Oriente, dove convivono i ricordi lontani di una fattoria bretone, l’infanzia – a piedi nudi – in Iran, lo spaesamento e la spensieratezza della giovinezza in Cambogia, il fascino fugace di un vestito rosso per le strade di Parigi.
“Aprire un libro come si apre un armadio. Meglio: aprire un armadio come si apre un libro. Scrivere un vestito perduto, dimenticato, farlo uscire da quel guardaroba così oscuro, guardare ciò che è stato nel suo ordinario e nel suo straordinario.”
Con uno stile raffinato e una sensibilità rara, Jean Sautière ripercorre attraverso la memoria dei vestiti una storia che è personale ma anche collettiva. Il viaggio reale e sentimentale che incrocia mondi diversi e contrastanti è il suo: nata in Iran, vissuta prima in Cambogia e poi in Francia; ma la relazione con gli abiti è la stessa che ci contraddistingue come umani: “abitare, habitus, esserci.” Gli armadi si aprono come uno scrigno di ricordi, l’evocazione degli umori di un’epoca, un percorso di desideri e di rimpianti e insieme una riflessione sui modi umani di inventarsi...Questo e tanto altro racconta questo viaggio in punta di penna e fruscio di tessuti, qualcosa di intimo e di essenziale, qualcosa che appartiene a tutti noi e in cui è inevitabile riconoscersi.
“La nostra specie si è vestita perché ha perso la pelliccia? O è il contrario, la nostra pelle è diventata glabra perché abbiamo cominciato a vestirci? Non importa, non abbiamo pellame sulle spalle, niente squame, sete, crini, né piume né peluria, ancor meno cuoio spesso come corteccia, e neppure conchiglia, figurarsi carapace. A questa assenza supplisce il vestito e diventa prolungamento del nostro corpo.”
La nostra storia, come la storia dei nostri vestiti (e gli altri elementi dell’abbigliamento: scarpe, sciarpe, cappelli, biancheria intima...) rappresenta un frammento dell’impossibile conservazione della vita singola, la “minuscola eternità” che ciascuno di noi rappresenta, una concretezza fantasmatica in faccia alla definitiva scomparsa.
Questa deliziosa, originale lettura ha sollecitato la mia memoria con un incredibile tocco magico: dagli armadi della mente sono riemersi i vestiti e le situazioni in cui sono stati indossati. E il loro valore affettivo, le persone che li hanno visti e toccati, le emozioni, i sentimenti, la vita e le vite che hanno rappresentato. E infine la loro perdita, il congedo definitivo, verso il probabile imminente oblio.
Bello bello sembra scritto per me Nei miei armadi un tale fiume di vestiti che se dovessi morire solo dopo averli consumati tutti, mi avvicinerei alla nozione di eternità
Li compro perché sono belli, perché mi piacciono, a volte non li provo neanche, di certo perché non è necessariamente questione di indossarli