Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è unanimemente riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c’è operazione in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell’esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In questo libro, per la prima volta, Bisignani decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti. Da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. Lui che non appare mai in tv, non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza da questo punto di vista è unica. Ecco come funziona il potere, quello vero, che non ha bisogno di parole e agisce nell’ombra.
Libro curioso nel quale non mancano completamente gli aneddoti che ci si aspetterebbe, seppure certo non destinati a sconvolgere i misteri del nostro paese, ma che quasi mai riesce a scrollarsi di dosso la brutta sensazione di essere un testo al servizio dell'intervistato più che del lettore. Dopo tutto i potenti sono tali anche perché sanno esattamente cosa vogliamo sentirci dire. Oppure no?
Bisignani, Luigi e Paolo Madron (2013). L’uomo che sussurra ai potenti: Trent’anni di potere in Italia tra miserie, splendori e trame mai confessate. Milano: Chiarelettere. 2013. ISBN 9788861904859. Pagine 624. 9,99 €
Comprato per curiosità e accidia, due consigliere non sempre affidabili, dopo aver letto un recensione positiva.
Io vi dirò invece che il libro è da evitare. Pagine e pagine di dialogo che nella più verosimile delle ipotesi sono avvertimenti in stile mafioso affinché chi ha orecchie per intendere intenda, nella più ingenua (che Bisignani vorrebbe accreditare) sono pettegolezzi più o meno innocui.
Poiché alla fine l’ho pur letto, tanto vale fare qualche considerazione.
La sensazione più importante che ho tratto dalla conversazione di Bisignani è che l’Italia, quella del potere che ruota intorno alla politica e all’imprenditoria e alla finanza, non soltanto a Roma ma anche a Milano e Torino e Genova e Siena e Napoli, sia dominato almeno dalla metà degli anni Settanta dalla casualità, o meglio dall’interazione largamente stocastica delle varie conventicole e clan, peraltro largamente intrecciate, dal momento che balza agli occhi in tutta evidenza che potevi essere al tempo stesso cattolico-papalino, frammassone, uomo dei servizi e colluso con la malavita organizzata. Questa mi sembra, per quel poco che vedo dal mio punto di osservazione e per quello che mi racconta qualche amico più introdotto di me, una costante.
L’altra faccia di questa medaglia, o forse la stessa faccia, è che sulla pianificazione o programmazione che dir si voglia – feticcio tanto venerato a chiacchiere quanto disatteso nei fatti – e sulla sua versione modernizzata del binomio mission/vision si costruiscono miti (quello degli ultimi due presidenti del consiglio Monti e Letta e dei loro ministri, tanto per non fare nomi), ma poi si opera a vista, con eterni rinvii seguiti da decisioni meramente tattiche, dettate da un’emergenza/urgenza figlia proprio degli eterni rinvii. Invocando lo stato di necessità e urgenza, quando basterebbe forse ricordare la nostra eccellenza calcistica nella combinazione catenaccio/titìc-titàc/contropiede fortunoso. Bisignani lo dice di Andreotti, ma la considerazione può essere facilmente estesa a tutta la classe politica, anche a coloro che da Andreotti si dichiarano lontanissimi:
Il suo più grande difetto è stato di essere un tattico e non uno stratega. Andreotti, pur appartenendo ormai alla storia, ha vissuto giorno dopo giorno nella cronaca. [1483: riferimento alle posizioni Kindle]
L’altra cosa abbastanza impressionante, ancorché ben nota, è che le persone prescelte per cooptazione da questa grande rete trasversale (che non è né curiale né massonica né malavitosa né filoamericana né berlusconiana né composta di grigi grand commis perché è tutte queste cose insieme) non possono essere difese con la protervia del potere ben nota a Esopo e Fedro:
Vacca et capella, et patiens ovis injuriae, socii fuere cum leone in saltibus. Hi quum cepissent cervum vastis corporis, sic est locutus partibus factis leo: ego primam tollo, nominor quia leo; secundam, quia sum fortis, tribuetis mihi: tum, quia plus valeo, me sequetur tertia: malo adfligetur, si quis quartam tetigerit.
Una vacca, una capra e una timida pecora andarono a caccia nei boschi insieme a un leone, e catturarono un grosso cervo. Il leone, che aveva deciso di farne le parti, disse: “Poiché io sono il leone prendo la prima parte, e anche la seconda, perché sono il più forte. Inoltre, visto che valgo più di voi, mi spetta anche la terza parte. Infine, che nessuno osi contendermi la quarta parte, altrimenti ne subirà le conseguenze”.
Allora occorre inventarsi ex post, cioè a decisione assunta nelle segrete stanze, una procedura di selezione adamantina e inattaccabile (ma finta) e un curriculum vitae di tutto rispetto (tipo: igienista dentale multilingue). Mi raccontava un vecchio amico, a proposito di un grand commis di cui si parla anche in questo libro (anche se come di un «talentuoso sciupafemmine») che aveva avuto occasione di conoscerlo, non ancora venticinquenne, a un corso post-universitario in materia di sviluppo economico. Il nostro stava sempre in ultima fila, con un gruppetto di romani di buona famiglia (il mio amico e altri frequentavano il corso dopo aver vinto una selezione e con una modestissima borsa di studio), ostentando di non temere gli esami (temutissimi dagli altri, perché comportavano l’allontanamento dalla scuola e la decadenza dalla borsa). Suscitava anche scalpore che il nostro (e anche qualcuno dei suoi amici per la verità) fosse stato ammesso prima di laurearsi e fosse dunque, formalmente, un osservatore. Dunque il nostro difficilmente può aver ottenuto da quel corso un diploma di merito come tecnico della programmazione economica, come millanta la sua biografia, anche perché – racconta orgogliosamente il mio amico – «quell’anno soltanto io ottenni il massimo dei voti».
Insomma, uno resta con l’impressione che il problema non sia soltanto quello che nel nostro Paese la mobilità sociale intergenerazionale è bloccata (questo è purtroppo ben noto), ma anche quello che i meccanismi di promozione sociale non passano attraverso il merito e neppure il censo o l’appartenenza di classe, ma attraverso la cooptazione della rete dei gruppi di potere esistenti.
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Bisignani dice la sua anche a proposito del caso ENI-Petromin, di cui ci siamo occupati recensendo L’intrigo saudita di Donato Speroni (in corsivo le domande di Madron, in tondo le risposte di Bisignani):
Craxi però non si è mai fidato di Gelli. Craxi diffidava di Gelli e lo considerava colluso con i suoi antagonisti nel partito, Claudio Signorile e Fabrizio Cicchitto. Ad aumentare la sua diffidenza c’era anche la convinzione che parte dell’intermediazione per il contratto petrolifero tra l’Eni e la Petromin, l’ente petrolifero saudita, fosse finita in Italia per finanziare operazioni editoriali. Sulla famosa tangente Eni-Petromin la magistratura indagò senza venirne a capo. Io seguii la vicenda poiché Stammati, come ministro del Commercio con l’estero, autorizzò il pagamento dell’intermediazione. Anche Andreotti cercò in tutti i modi di vederci chiaro, ma resta ancora oggi un mistero, a parte alcune provvigioni finite nelle tasche di dirigenti secondari dell’Eni. Ma che coincidenza. Sia Stammati che il presidente dell’Eni Mazzanti iscritti alla P2. Mazzanti, presidente socialista del gruppo, non ha mai voluto esplicitamente dire, forse per paura di gravi ritorsioni, che quella mediazione interessava invece la casa reale saudita. [3115-3122]
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Infine, a proposito della sua breve permamenza recluso al carcere di Opera durante l’inchiesta Mani Pulite, un quadretto degno del Don Raffaè di Fabrizio De André:
[…] Ho però un bel ricordo di Giuseppe. E, appena uscito, andai subito a trovare la sua famiglia. Chi è Giuseppe? Il detenuto napoletano che mi portava il cibo. Senza che gli avessi chiesto nulla, oltre al pasto d’ordinanza cucinava per me degli spaghetti di Gragnano, condendoli con il miglior sugo di pomodoro che abbia mai assaggiato. [1781]
Vale la pena leggerlo per alcuni succosi retroscena su fatti e personaggi noti. Non ci si aspetti, però, di avere approfondimenti sulla storia italiana recente: troppo di parte con Andreotti e P2. Opinione personalissima: ho trovato antipatico l'intervistatore