Tutte le mattine prima dell’alba, una donna esce dalla casa cantoniera giù al fiume, percorre dodici chilometri di un binario morto e si sdraia subito dopo la curva troppo stretta, aspettando il treno «che le faccia rotolare la testa giù dall’argine e nel fiume». Tutte le mattine, un uomo percorre quegli stessi dodici chilometri per riportare a casa la moglie, sdraiata sui binari subito dopo la curva troppo stretta. Nella sua mente si attorcigliano i fantasmi di un tempo andato, la famiglia, un figlio, un fratello. La vita e la morte, la colpa e l’espiazione. E lungo il fiume, cacciatori di frodo si nascondono: il paesaggio attraversato da Augusto è una tetra parentesi, quasi indifferente, che racchiude una tragedia familiare dai toni biblici, gli echi del Piave, le ombre del miracolo economico del Nord-est e una nuova resistenza. La storia di una dannazione, una corsa a perdifiato verso l’inferno, o forse un vademecum su come diventare cacciatori di frodo, clandestini del pensiero nell’epoca della banalità.
È un libro notevole con una particolarità: è scritto con la tecnica del flusso di coscienza. Ultimamente anche Remo Rapino (con il suo “Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio”) ci ha provato vincendo il Campiello nel 2020 e ottenendo molto più successo di Cinquegrani, ma a me “Cacciatori di frodo” è piaciuto di più.
Protagonista è un uomo del nordest italiano, Augusto, benestante proprietario di un inceneritore per lo smaltimento di pneumatici. Tutti i giorni sua moglie cerca di ammazzarsi aspettando il treno che le faccia rotolare la testa giù dagli argini e nel il fiume. E tutti i giorni lui percorre dodici chilometri suppergiù di binario morto per andare a recuperarla. Tutti i giorni, da quando il loro piccolo di diciotto mesi è caduto dalla finestra. Dodici chilometri di pensieri e ricordi, considerazioni e scoperte di verità nascoste. Che lui stesso, che la sua stessa mente gli ha finora nascosto.
Un flusso di coscienza esiziale e catartico al tempo stesso, di poco più di cento pagine. Pagine fitte, piene. Non solo perché gli a capo si contano in tutto il libro sulla punta delle dita, e non solo perché i periodi possono durare pagine intere. Ma anche e soprattutto perché ogni pagina contiene una cifra, un barlume, un’espiazione, un rimorso, un contrasto, un rifugio, una rabbia, un motivo per cui il protagonista è adesso l’individuo che è.
Con uno stile consapevole e apprezzabile, Alessandro Cinquegrani, oggi professore di critica letteraria all’Università Ca’ Foscari, dà vita a un fiume, ordinato e musicale, di parole che gridano per le ingiustizie di cui il protagonista si sente vittima, che ha visto perpetrare attorno a lui, che lo hanno da sempre circondato. Un fiume, come quel Piave dei fanti il 24 maggio, che scorre nei suoi pensieri e li accompagna nel loro fluire ininterrotto scandendone corso e velocità
All'inizio l'ho odiato, pensando che non sarei mai e poi mai riuscita a finirlo. E confesso che tutte quelle ripetizioni poi ho preso a saltarle ma c'è comunque qualcosa di brillante nel romanzo. Leggendo mi sono chiesta più volte come avrebbe mai potuto finirlo, e alla fine mi ha sorpresa.
Una scrittura nuova. Le ripetizioni rendono l'angoscia e la trasmettono. Un libro che forse rileggerei a patto di essere sicura di essere immune da tutta l'ansia e l'angoscia che trasmette.