Ha passato la vita ad aspettare la sua grande occasione, facendo cento mestieri e non concludendo quasi niente. Così almeno si spiega la sua passione per le carte: un modo ormai quotidiano e inappellabile di tentare la sorte. O forse una scusa, perché Caterina, scendendo al Metropole tra i tavoli dei giocatori, potesse vederlo per salire poi nella sua stanza segreta, ad aspettarlo. Forse era Caterina il suo colpo di fortuna, il premio di tutte le partite, anche quelle perdute. Era bella, era giovane, era la seduzione e il perdono, aveva la pazienza e la venerazione della schiava. La purezza. O magari l'incarnazione dell'inganno? Cominciò a credere che fosse soprattutto un'occasione mancata quando, di ritorno da uno dei suoi viaggi inconcludenti, ebbe netta la sensazione d'averla perduta. Ora Caterina non scendeva più al Metropole, non gli passava davanti con quello sguardo pieno di promesse. Sembrava scomparsa, o piuttosto reclusa da quell'essere orrendo, quel motociclista sfigurato, il Tibiletti, a cui s'era promessa in sposa. O aveva ragione il dottor Trigona che sussurrava di una grave malattia di petto, la splendida Caterina chiusa in un sanatorio? O la Biotti, che con quell'aria intrigante alludeva a storie proibite, qualcosa di più di quella vecchia vicenda col Dionisotti? Tutti avevano strani sorrisi per lui. Come se ciascuno avesse voglia di consolarlo e al tempo stesso volesse nascondergli una verità.
Pierino Angelo Carmelo "Piero" Chiara (Luino 1913 – Varese 1986) è stato uno scrittore italiano, tra i più noti della seconda metà del XX secolo.
Piero Chiara was an Italian writer. He was born in Luino, on Lake Maggiore (northern Italy) into a family of Sicilian origin. Sought by the Fascist milice during World War II, he fled to Switzerland in 1944. He returned to Italy two years later, starting the activity of writer.His most famous work is La stanza del vescovo of 1976, which was turned into a film by Dino Risi soon afterwards. He died in Varese in 1986.
La prima volta che lessi Piero Chiara lo feci perché cercavo qualcuno che avesse scritto sul Lago Maggiore. Ero appena tornato da una vacanza a Verbania che mi avevano venduto un romanzo di Hemingway e un racconto di Malamud. Cosa mi piacque di Chiara non fu il lago all’interno de “La spartizione” ma la salace ironia. Qualora cerchiate il lago, non lo troverete neppure in “Una spina nel cuore” e purtroppo non vi troverete neppure l’ironia. Il romanzo è amaro e molto provinciale. Quella descritta da Chiara è una provincia che sta scomparendo, chi ha vissuto il novecento la riconoscerà, non senza nostalgia. Mi è piaciuta molto la definizione di Mauro Novelli in prefazione …dalle carte al bigliardo, dalle chiacchiere all’osservazione, dai giornali alla radio. Come sempre, il bar funziona da accademia e insieme da tribunale.
Sta parlando dell’ex cuore pulsante di ogni paese di provincia. Quello di Chiara si chiama Metropole ed essendo in un luogo di villeggiatura fa anche da affitta camere. Qualsiasi cosa accada nei dintorni, non è vera se non viene amplificata al bar. Proprio così, se oggi senza esser postato l’evento non esiste, un tempo senza esser discusso all’accademia e dibattuto in tribunale non si concretizzava. Il tempo di cui racconta Chiara sono gli anni trenta, il protagonista è un ventenne svogliato che si infila in una relazione amorosa convinto di poter gestirla a proprio piacimento. Mai supposizione si rileverà più distante dalla realtà, e la realtà verrà svelata come in un romanzo giallo. Il libro è ben confezionato, come accennato difetta della brillantezza a cui l’autore mi aveva abituato. Secondo Novelli dovrò cercarla altrove, questo romanzo fa parte della produzione finale di Piero Chiara, evidentemente meno propenso a divertire con i suoi personaggi. «Ogni parte di me capiva, veniva a sapere, si investiva di una realtà che solo la mente rifiutava, mentre una spina lentamente mi entrava nel cuore» Se vorrete assistere al modo in cui la spina penetra nel cuore del protagonista, non vi resta che spiarlo al Metropole, sul tram che percorre il lungolago e quando solo con sé stesso prende decisioni che gli sembrano risolutive e che invece non cambiano la sua condizione.
>>>><<<< BAR CALCATRAZ - Eskimo colpevole
Era l'estate del 1989 quando decidemmo che quell'inverno avremmo indossato un eskimo innocente dettato solo dalla povertà. Non immaginavamo che reperirlo sarebbe stato tanto difficile. Nel mio immaginario era la risposta al montgomery della Stone Island da pseudo paninari. Un misto lana sobrio da abbinare magari ai jeans e ad un paio di Clark per disegnarsi questo look alternativo da "Vent'anni dopo al punto di partenza". La nostra ricerca si trascinò infruttifera nei mesi di settembre e ottobre. Un giorno arrivai a casa e trovai sul mio letto un telone verde semi informe e solo il biglietto che vi era appoggiato sopra, vergato con l'inconfondibile calligrafia di mia madre, mi rivelò di che cosa si trattasse: è passato Marco e ti ha lasciato l'eskimo. Dunque l'aveva trovato, e la sera, quando gli telefonai per sapere i particolari lo sentii trattenere a stento la soddisfazione. "Erano gli ultimi due" mi disse. Li aveva pagati probabilmente tre volte il loro reale valore, acquistandoli da un rivenditore di indumenti militari usati, e ora benediceva pure la buona sorte. Guardandolo ...L'eskimo che porta addosso mio fratello ancora e tu lo porteresti e non puoi più... mi sembrava la copertura per il cassone di un’Ape Piaggio 50, mancava solo il "sette" ricucito alla meglio da mani inesperte o magari rappezzato con una toppaccia multicolore comprata al mercato rionale. La sera successiva lo indossammo entrambi con un accordo preventivo e facemmo il nostro ingresso trionfale al bar abituale. Il bar "Calcatraz" è una struttura di due stanze divise da una tenda ondulata in similpelle rossa rigida. La divisione semovente, in origine concepita per separare la sala biliardi da quella del bancone bar, da anni non svolge più il suo compito, sgangherata e bloccata da ogni sorta di ostacolo mai rimosso: palline da calcio balilla, accendini, palette da coppetta gelato, cicche tante quante si trattasse del primo binario di una stazione ferroviaria, e così via. Le mie riflessioni da "apino 50" le avevo risparmiate a Marco che probabilmente si aspettava di far colpo sugli amici e pregustava i loro commenti stupiti come la donna che pagava il cinema a Francesco e non le era toccato farlo mai. Senza che la tenda rossa ondulata potesse impedirlo, le nostre sagome furono proiettate contemporaneamente ai viziosi della sala biliardo e ai perditempo, ubriaconi della sala bar. Ci guardarono tutti con uno sguardo ben lontano dall'ammirazione, finché il più alacre ruppe gli indugi apostrofandoci: "Ma le canne da pesca dove le avete lasciate?" e suscitò uno scroscio di risa da Benny Hill Show. https://www.youtube.com/watch?v=BeKTz...
Ambientato in un paesino tra le valli e i laghi del Comasco negli anni del “fascio”, “Una spina nel cuore” ci racconta l’amore ossessivo e tormentato di uno scapolo adulto del luogo, che si trascina per tedio al bar fra una partita di carte e l’altra, per la giovane Caterina, una delle ragazze più ambite del paese. Fra personaggi ambigui e memorabili, pensieri tormentati, sogni e speranze, le pagine trasudano perversione, erotismo, quasi un fascino malato generato dalla brama e dall’ambizione, anche malinconia per come tutto, poi, alla fine pare sfumare per colpa del destino. Una storia che ricorda da vicino quella narrata dal grande Buzzati nel magistrale “Un amore”, senza tuttavia raggiungere lo stesso coinvolgimento emotivo. Lo stile raffinato e il lessico ricercato, però, ci raccontano di un autore di altri tempi, che sa scrivere, e alla grande. Da provare.
Lui: un giovane mascalzone di provincia. Lei: una bocca di rosa di provincia, che non tace la sua natura e la sua acquiescenza di donna, desiderata dagli uomini, ma non sfruttata perché a tutti dona amore, con amore e attraverso esso comprende la loro natura. Lui: diventerà un uomo che poco capirà una donna come Caterina e tenterà di 'salvarla' da se stessa. Lei: offesa da quella che credeva indifferenza mentre era solo ignoranza, sposerà e morirà assieme ad un altro, tragicamente, come in un patto d'amore, questo sì. Il tutto raccontato da Chiara, con questa sua scrittura completamente tonda, in grado di farti 'ascoltare' lo sciabordìo delle onde di un Lago, come il mio, schiuma che si frange su piccoli moli e una moto di notte disperata che romba sotto le finestre di un'alcova. Una storia di provincia, forse non ce ne sono più così.
Un romanzo con i classici ingredienti delle storie di Piero Chiara: il lago, il paese di provincia, gli anni 30, il bar dove si gioca a carte tutte le notti, il “cazzeggio” e le chiacchiere come attività preferita, il tempo immobile… Il protagonista e voce narrante è appena tornato da un periodo di “lavoro” all’est, forse in Friuli, un incarico statale terminato con una sospensione dal servizio a tempo indeterminato per scarso rendimento. Passa le giornate giocando a poker al bar dell’albergo Metropole, che nonostante il nome altisonante è una locanda di paese, e riallaccia svogliatamente la relazione con Caterina, una contadinotta dei dintorni che aveva conosciuto prima di partire. Caterina diventa la sua personale spina nel cuore, la candida rosa con molte spine nascoste, le personalità che rivela, come tanti veli lasciati cadere uno dopo l’altro. Ragazza ingenua o molto scaltra, preda degli uomini che la circondano o predatrice a sua volta, calcolatrice beffarda o vittima, schiava dei vizi altrui? Chiara racconta una storia con una buona dose di sesso in una maniera molto dolce e delicata dove indaga la psiche femminile per arrivare all’universo maschile.
Accanto al protagonista, forse alter ego dello scrittore stesso che rievoca una storia giovanile, una galleria di ottimi comprimari, anzi co-protagonisti: Dionisotti, il signorotto del paese, un Don Rodrigo dalla faccia di Mussolini, che aveva approfittato di Caterina sedicenne; Sberzi, l’oste del Metropole che copre gli incontri notturni in camera del protagonista con Caterina (per poi salire a sua volta...) fino al Tibiletti, lo “sfigato” del paese che ad un certo punto tra lo stupore generale, accetta di sposare la ragazza senza farsi domande, prendendola com’è. Invece il protagonista continua ad indagare, a carpire le confidenze (e anche altro) delle poche amiche di Caterina, scoprendosi innamorato senza saperlo, e la trama diventa quasi un giallo, alla scoperta di relazioni nascoste, tra innocenza e corruzione di provincia. Da Una spina nel cuore è stato tratto l’omonimo film di Alberto Lattuada che, dai pochi spezzoni visti in internet, sembra essere un prodotto di bassa qualità, molto commerciale che si inserisce nel filone dei film erotico – soft degli anni 80. Non così il romanzo di Chiara che consiglio agli appassionati dello scrittore e delle storie di provincia. Tre stelle e mezzo.
Le zone del lago Maggiore splendidamente raccontate dal Piero in racconti e romanzi fondamentali per una volta vengono dimenticate. “Una spina nel cuore” è ambientato nel comasco e nel valtellinese, ma c’è un tram che collega piccoli paesi, un bar con il biliardo, il Metropol, dotato anche di qualche stanza al piano superiore e una serie interessante di vite lontane dalla provincia di cui si parla tra un bicchiere e l’altro che, ovviamente, sono sempre migliori, più fortunate e avventurose agli occhi di chi rimane. Siamo in una appiccicosa provincia del nord, ma potremmo essere ovunque. La trama, forse, è un po’ da San Valentino con una Lolita di paese misteriosa e forse non così introversa come sembra, un vitellone ammalato di malinconia e tanti piccoli personaggi di contorno con dei nomi che fanno impazzire, ognuno un mondo: il Tibiletti, il Dionisotti, il dottor Trigona e l’Adelaide. Tutte le volte che leggo qualcosa di Piero Chiara penso all’ambiente dei comici (non solo) milanesi e alla voglia di emergere con le poche armi a disposizione. C’è chi ha voglia di scappare dalla provincia, dalla famiglia, da una certa mediocrità, ma tutti provano a farlo con spettacoli di arte varia. Roba minima, direbbe Enzino. Uno strumento musicale, una storia personale da raccontare e un senso dell’umorismo sui generis porteranno lontano? Il Metropol è come il leggendario Derby Club di via Monterosa. Leggendo Chiara si capisce davvero come funziona la malinconia dei comici. Nei suoi bar, nelle piazze e nei capannelli più o meno improvvisati tutti noiosi ma vivi grazie alla scrittura - in “Una spina nel cuore” ci sono le fermate del tram - c’è la voglia di diventare qualcuno e un cicinin di esistenzialismo che spesso ha la meglio. Come i soldati di Mediterraneo di Salvatores i personaggi di Chiara “non hanno ancora capito se vogliono metter su famiglia o perdersi per il mondo”. C’è spesso la fuga nelle opere del Chiara. Finale amaro che forse fa venire voglia di scappare ancora più lontano. Dal nostro bar o dalla provincia o da un lavoro smpre uguale. Difficile percepire il tutto solo come una storia d’amore di profincia. Infatti, ora vorrei leggere “Vedrò Singapore” opzionato e mai girato da Renato Pozzetto. Taaac.
Lui: un giovane mascalzone di provincia. Lei: una bocca di rosa di provincia, che non tace la sua natura e la sua acquiescenza di donna, desiderata dagli uomini, ma non sfruttata perché a tutti dona amore, con amore e attraverso esso comprende la loro natura. Lui: diventerà un uomo che poco capirà una donna come Caterina e tenterà di 'salvarla' da se stessa. Lei: offesa da quella che credeva indifferenza mentre era solo ignoranza, sposerà e morirà assieme ad un altro, tragicamente, come in un patto d'amore, questo sì. Il tutto raccontato da Chiara, con questa sua scrittura completamente tonda, in grado di farti 'ascoltare' lo sciabordìo delle onde di un Lago, come il mio, schiuma che si frange su piccoli moli e una moto di notte disperata che romba sotto le finestre di un'alcova. Una storia di provincia, forse non ce ne sono più così.