Dal libro d'esordio del 1946, Foglio di via, al testamentario Composita solvantur del 1994, la produzione poetica di Franco Fortini - qui interamente raccolta per la prima volta, compresa l'appendice di Versi primi e distanti che recupera testi composti tra il 1937 e il 1957 - attraversa oltre cinquant'anni. Un percorso compatto e coerente, pur nella sua evoluzione, fondato su una dinamica nella quale non si dà mai quiete e che aderisce solo marginalmente al momento elegiaco della tradizione lirica, preferendo alla tentazione dell'idillio o del "romanzo dell'io" immagini icastiche, anche duramente espressionistiche, scandite da ritmi decisi, talora persino di esibita asprezza, con una tensione sempre lucidamente etica. E una poesia, quella di Fortini, che non smette mai, infatti, di confrontarsi con gli eventi della storia. Dalla Russia all'Ungheria alla Cina, da Praga al Vietnam e da Stammheim all'Iraq, ogni luogo è una data, ogni paese un'allegoria: una storia collettiva che si insinua fin nel piano delle forme, plurime e quasi lussureggianti, che raccolta dopo raccolta concorrono a fare dell'opera di Fortini - "letterato per i politici, ideologo per i letterati", così egli si autodefinì - una presenza tanto unica, e tanto influente, nel panorama letterario italiano del secondo Novecento.
L’ostinato che a notte annera carte (titolo alternativo: Non è vero che non siamo stati felici) [febbraio 2015]
Partiamo subito da cosa questo libro non è: né un’edizione critica né commentata. Non offre la possibilità di valutare da vicino le trasformazioni nel tempo dei singoli componimenti, ma nemmeno la ricostruzione della compagine strutturale delle prime raccolte nella versione in cui apparvero originariamente; non ci sono note esplicative né introduzioni ai singoli libri, se non quelle che l’autore stesso volle inserire nelle diverse edizioni; e nemmeno ripescaggi di versi dispersi o dimenticati. Eppure, anche senza tutto questo, abbiamo in mano oltre ottocento pagine di poesia, e una sessantina di utili paratesti.
Insomma, non sarebbero bastate mille pagine per avere un’edizione commentata, nemmeno confidando nella capacità di sintesi e di selezione che il curatore, Luca Lenzini, avrebbe potuto con sapienza esercitare sulla base della sua lunga e sostanziosa frequentazione dell’opera di Fortini, alla quale ha dedicato di recente un secondo volume di saggi (Un’antica promessa. Studi su Fortini, Macerata, Quodlibet, 2013) quasi quindici anni dopo un primo interamente dedicato alla poesia (Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, Lecce, Manni, 1999). Non si tratta quindi, principalmente, di uno strumento di lavoro nuovo per chi vuole studiare la poesia di Fortini, ma è innanzi tutto un libro per chi vuole leggerla. Una proposta certamente opportuna, visto che da tempo latitavano dalle librerie anche gli ultimi frammenti del naufragio: l’ultima raccolta Composita solvantur (1994) e le Poesie inedite, curate da Pier Vincenzo Mengaldo (1997), talvolta ancora qua e là rintracciabili grazie alla tenuta commerciale della “bianca” Einaudi, non potevano dare che una visione del tutto parziale di un percorso ampio e complesso. È vero che coloro che si interessano alla figura di Fortini (esistono…) aspettavano da anni un secondo Meridiano, poetico, dopo i Saggi ed epigrammi, curati sempre da Lenzini nel 2003 (e per avere davvero Tutte le poesie, in un certo senso, bisogna aprire anche quel volume, dove compaiono appunto epigrammi ed altri testi in versi dell’Ospite ingrato…), però questo grosso «Oscar poesia» è un benvenuto invito alla sfida della lettura diretta, che si accosta felicemente agli altri che stanno ricomponendo il corpo della maggiore poesia italiana del secondo Novecento (Vittorio Sereni, Andrea Zanzotto, Giovanni Giudici…) e – in realtà – serve anche a chi Fortini lo studia, grazie all’importante introduzione di Lenzini, alla preziosa nota biografica e agli spunti bibliografici.
Fortini non è un autore che sembra parlare dall’eternità dei tempi, ma uno scrittore impastato di tutte le speranze, le tragedie, le stanchezze e le tensioni del Novecento, eppure con questo volume la sua voce tornerà a parlare, in modi inattesi, al presente. I suoi testi poetici, i suoi rovelli, le sue scelte e le sue antipatie continuano a conquistare, nel passare delle generazioni, nuove orecchie che intendono, altre menti che ascoltano, valutano, interpretano e traducono, accettano e rifiutano.
Fortini non è mai stato uno scrittore che parlava a tutti: i suoi scritti hanno sempre postulato l’esistenza di un lettore disposto a riempire i vuoti e a lasciarsi sfidare. Ad esempio, nei primi anni Sessanta del miracolo economico e delle speranza del centro-sinistra si lanciava contro il Progressismo Generalizzato e Riformista al punto da voler apparire il più astratto, il meno impegnato e impiegabile, il più “reazionario” degli scrittori: «Vorrei che a leggere una mia poesia sulle rose si ritraesse la mano come al viscido di un rettile.» Ma nella stessa occasione poteva indicare tra i compiti dello scrittore: «non negare mai la propria parola, dove ci sia possibilità vera di recare offesa salutare agli offensori e giusta ingiustizia agli ingiusti.»
Di qui una poesia spesso non cordiale, che annovera tra i suoi protagonisti la verità e la speranza, ma anche la negazione e la violenza. La continua correzione, la contesa (interna ed esterna) senza riposo sono la sua vera cifra, che trova sfogo stilistico nei “ma” e nei “non” della sua poesia. Lo mostra ad esempio un testo eloquente fin dal titolo: Prima lettera da Babilonia, dove la capacità di costruire versi al futuro, di promessa e di speranza, rielaborando la postura del profeta, sperimentata in altri casi, viene negata puntualmente, senza tregua, con l’abbattimento di tutti i messaggi profetici di liberazione, per mezzo di un’ossessiva ripetizione: “non è vero”. Eppure – potenza del “non” – nemmeno il dovere di guardare in faccia, senza fughe consolatorie, la sofferenza e lo sfruttamento della storia è tutta la verità. «Non è vero che non siamo stati felici» recita uno dei suoi incipit più folgoranti, che conduce infine all’immagine di un tempo non misurabile, senza confini certi, nemmeno quelli della morte, dove viventi che mai poterono incontrarsi fisicamente dialogano e costruiscono, nella «gioia».
Perché è fondamentale il movimento della doppia negazione, ma anche il lavoro sul plurale: «non è vero che non siamo stati felici». La poesia di Fortini è stata anche un protratto esperimento di poesia al plurale: dagli esordi forse troppo ambiziosi (il primo Fortini memorabile, quello che secondo Calvino riusciva «a gridare senza schiudere i denti», è, nella prima raccolta, nel Coro di deportati, nel Canto degli ultimi partigiani, nel “lamento dei profughi” di Basilea 1945; è nell’anafora pulsante di «Noi non crediamo più…» in Varsavia 1939) fino alla richiesta finale di proteggere le «nostre verità»; con ampie zone di ripiegamento e attraversando anche tutte le pieghe di un’imagery personale fortemente connotata.
Poesia del noi, naturalmente («[…] Non abbiamo tempo | per disegnare le foglie e gli insetti | o sedere alla luce candida | lunghe ore a lavorare»); ma anche del voi, negli appelli ad interlocutori possibili e sperati:
«Non per l’onore degli antichi dèi né per il nostro ma difendeteci!»,
persino nelle forme di piccoli esseri:
«Voi nei sistemi strani che le disperazioni levano dentro il folto arduo del mondo e ora nella stanza calma dell’antenato che sono o divengo
immobili indifesi ragni esili pendete»;
per non parlare degli essi, da individuare chiaramente e combattere.
Attraverso queste e molte altre spie, questa raccolta complessiva offre un territorio da esplorare che si può esperire, nelle sue dialettiche e spire, come unitario. Ma va ricordato che è un’unità che mostra il percorso di Fortini attraverso le raccolte principali, quale lui stesso iniziò a ridisegnarlo dalla fine degli anni sessanta, attraverso la seconda edizione di Foglio di via (1967), e di Poesia e errore (1969), confermate in un volume, fino a quel momento riassuntivo, del 1978. La chiave di volta nell’auto-interpretazione è quindi intorno ai quarantacinque anni, intorno a Una volta per sempre (1963), e alla sua eloquente sezione decisiva, Traducendo Brecht. Di lì in avanti lo scarto tra singoli libri e revisione successiva è minimo: si aggiungono a cadenza decennale Questo muro (1973), Paesaggio con serpente (1984), Composita solvantur (1994). Per la comprensione storica della prima parte dell’attività poetica è necessario guardare anche altrove, perché Fortini rifiutò in larga parte – salvo parziali e tardivi recuperi – quasi tutto il primo decennio di versi (la prima poesia pubblicata su rivista è del 1935), e risistemò, con aggiunte e tagli, sia l’esordio ufficiale sia soprattutto il secondo libro: nella seconda edizione si sottolineava la volontà di «mettere in evidenza alcuni aggregati di temi o motivi». Tuttavia Tutte le poesie non si chiude con l’ultima raccolta pubblicata nello stesso anno della morte: una sorta di ampia appendice prevede le traduzioni (anche in questo caso attraverso la scelta dell’autore stesso, Il ladro di ciliegie (1982) e i due accennati recuperi (il proprio: Versi primi e distanti, 1987, e quello di Mengaldo, Poesie inedite).
Il libro nel suo insieme permette non solo di leggere unitariamente la traiettoria poetica di Fortini, ma anche di valorizzare le direzioni diverse che esistono: il Fortini maturo e maggiore non cancella del tutto il ventaglio di possibili che aveva dispiegato a partire dai primi esperimenti fiorentini.
D’altra parte, persino la raccolta testamentaria, dopo il testo più citato, che inizia riprendendo i primi versi della prima raccolta, che cita in sé il titolo più riassuntivo («Di bene un attimo ci fu | una volta per sempre ci mosse») e che conclude esortando alla protezione e al rilancio delle «verità», prevedeva ancora un’appendice di «light verses e imitazioni».
APPENDICI
Molto chiare...
Molto chiare si vedono le cose. Puoi contare ogni foglia dei platani. Lungo il parco di settembre l’autobus già ne porta via qualcuna. Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi, il lavoro imperfetto e l’ansia, le mattine, le attese e le piogge.
Lo sguardo è là, ma non vede una storia di sé o di altri. Non sa più chi sia l’ostinato che a notte annera carte coi segni di una lingua non più sua, e replica il suo errore. È niente? È qualche cosa? Una risposta a queste domande è dovuta. La forza di luglio era grande. Quando è passato, è passata l’estate. Però l’estate non è tutto.
(con questa poesia si chiudeva Paesaggio con serpente, pubblicato da Einaudi nel 1984)
[Franco Lattes nasceva a Firenze il 10 settembre 1917: è passato un secolo]
[26 ottobre 2017] Da Traducendo Brecht a Traducendo Milton scompare del tutto l'io esibito del lettore-traduttore-scrittore, che fissa parole mentre batte e scompare un temporale. Rimane solo il risultato, la conseguenza del rapporto con il poeta del passato: ed è uno schizzo a margine, facendo altro, tutto sintassi nominale: un frammento di quadro da antico maestro, che ha un sommovimento soltanto nell’ultimo verso, che è lasciato aperto:
Traducendo Milton Gli alberi i freddi fitti alberi grandi e anche arbusti ma tutti verdi bianchi con palme e frecce diramate e fili in vetta al bosco visi svelti gli alberi lieti di gelo e rotondi, guaìne scuoiate di agro latte e le pasture dilatate di gràmini e scintille i rivi accesi di spade vivaci e la ventilazione delle cime…
[4 novembre 2017] ...e d'altra parte Paesaggio con serpente iniziava così:
I lampi della magnolia
Vorrei che i vostri occhi potessero vedere questo cielo sereno che si è aperto, la calma delle tegole, la dedizione del rivo d’acqua che si scalda.
La parola è questa: esiste la primavera, la perfezione congiunta all’imperfetto. Il fianco della barca asciutta beve l’olio della vernice, il ragno trotta.
Diremo più tardi quello che deve essere detto. Per ora guardate la bella curva dell’oleandro, i lampi della magnolia.
[19 dicembre 2017] Ah, ma avevo nominato due poesie che si intitolano Traducendo..., riportando solo la meno conosciuta! Rimediamo subito:
Traducendo Brecht
Un grande temporale per tutto il pomeriggio si è attorcigliato sui tetti prima di rompere in lampi, acqua. Fissavo versi di cemento e di vetro dov’erano grida e piaghe murate e membra anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando ora i tegoli battagliati ora la pagina secca, ascoltavo morire la parola d’un poeta o mutarsi in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi mi dico, odia chi con dolcezza guida al niente gli uomini e le donne che con te si accompagnano e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici scrivi anche il tuo nome. Il temporale è sparito con enfasi. La natura per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
"L'anatra palmata la vedi come va tutta oleata nel laghetto? Il ragazzo Norberto odora il ferro della ringhiera.
Somiglia a molte altre questa sera. In cima agli alberi dove fina fina la nebbia comincia i suoni della città si riuniscono e girano al largo. Un merlo va che nel becco ha uno stecco e un'erbolina.