Antonio Deltito è uno psichiatra, «un uomo alto e sgraziato» che ricorda, al narratore di questa storia, «la figura dell’imprenditore Ambroise Vollard, immortalata nel ritratto colmo di sfaccettature che gli fece Picasso». Altrettanto pieno di enigmi e sfumature sembra essere il disturbo psichico che improvvisamente comincia ad affliggerlo. Una serie di amnesie, un’alterazione nella visione dei colori, e sbalzi umorali gravissimi, sono solo i primi segni di un declino inarrestabile che porterà alla frammentazione della sua mente in «pezzi di vetro, scintillanti e amorfi». Durante uno dei molti ricoveri ospedalieri, però, Deltito fa una rivelazione: dice di sapere esattamente cosa lo affligge, ovvero la sindrome di Ræbenson, un disturbo che non compare in nessuna classificazione diagnostica, e sulle cui tracce, a detta dello psichiatra stesso, ci sono da tempo degli studiosi, i ræbensonologi, che hanno a cuore soprattutto che la malattia rimanga celata agli occhi del mondo: chi ne soffre sarebbe infatti incapace di morire di morte naturale...
Affascinante e inclassificabile tanto quanto lo strano morbo che illustra, La sindrome di Ræbenson è la straordinaria ed erudita opera prima di un giovane scrittore, psichiatra di professione, che sulla scia di maestri come Sebald, Borges e Nabokov porta il lettore a chiedersi cosa sia possibile conoscere veramente della mente altrui, e quale sia il significato ultimo, se esiste, del nostro passaggio sulla Terra.
Il piccolo cimitero ebraico di Pisa a ridosso di piazza dei Miracoli.
La patologia, cioè la sindrome di Ræbenson, comporta immortalità, nel senso di vita allungata oltre misura, un’enorme longevità, non la vita eterna. Che però si manifesta a suo modo grazie al fenomeno della trasmigrazione. Immortalità che vuol dire infelicità perpetua, un deserto di solitudine, come abbiamo già imparato, da Dracula in poi. L’unico modo per uscire da questa condanna è il suicidio (gesto anticonservativo). Altri sintomi: perdita di memoria, ricordi che trasmigrano; alto numero di parti gemellari, monozigoti; turricefalia, intesa come forma cronica del cranio che ricorda quella di una torre; crisi di panico; attacchi epilettici; svenimenti; amnesie; acuta propensione alla follia. Gente – e sembrerebbe che siano più uomini che donne - che vive molto più a lungo degli altri umani, ma non è immortale. Si tratterebbe di una differente specie umana esistente fin dall’epoca della glaciazione.
Modi di concepire il Vuoto.
Cos’è, dunque, mi sono chiesto, la sindrome di Ræbenson, è davvero un’epifania demoniaca? Una torre oscura e una prigione del dolore senza fine? O è, piuttosto, la maschera per celare una menzogna, un sistema per occultare una verità ai limiti del terrore? Non ho potuto più dormire.
Trattasi di malattia sconosciuta, quasi sicuramente inventata dall’autore Giuseppe Quaranta, che è uno psichiatra e scrive, in questo suo esordio narrativo, di psichiatria e psichiatri, psichiatra l’io-narrante e psichiatra il soggetto indagato, e scrive di cliniche psichiatriche e ricerche psichiatriche. Rimandi, incastri e scatole cinesi vanno a nozze. E forse, inventata o meno, man mano che si legge, si finisce col credere che la patologia esista davvero, sia reale, plausibile. E con lo scorrere delle pagine cresce la sensazione che sia epidemica, contagiosa, e in espansione. E forse - oltre tutto questo oscuro scrutare (scanner darkly) - è anche la lingua e lo stile che adotta, con l’uso massiccio del passato remoto, elegante, e un generale sapore antico, classico, che trasmette quel forte costante senso di angoscia alla lettura. Sembra quasi di leggere E.A. Poe. Se non si avesse invece quasi l’impressione di leggere W.G.Sebald, rafforzata da quelle foto sparse nel testo.
Modi di concepire la Disperazione.
Il romanzo aveva un titolo diverso prima di prendere questo che ha ora. Si intitolava “La malinconia dei coralli”. La spiegazione contenuta in queste pagine è la seguente: i coralli, invertebrati marini che “elaborano quello scheletro di calcite così caratteristico”, arrivano a sopravvivere centinaia, se non migliaia di anni: Ammesso che una coscienza esista in ogni specie vivente, e con essa tutta l’amarezza del vivere, spetta decisamente a loro il titolo di animali più malinconici del pianeta. Citazione che mi sembra rende bene tono umore e tema del libro. Più si vive più la coscienza si fa amara.
Di recente ho letto la biografia di Madame du Deffand scritta da Benedetta Craveri, e in precedenza, qualche anno addietro, avevo letto una raccolta di lettere della stessa nobildonna a Voltaire, di cui fu amica per lunghi anni, sino alla morte di lui; uno degli argomenti prediletti della marchesa è quanto siano brutti i libri contemporanei, e quale sollievo le apporti viceversa leggere una nuova opera del vecchio philosophe. Madame du Deffand, soprattutto dopo essere diventata cieca, soffriva d’una noia micidiale, oltre a patire crisi frequenti di vapori, come molte signore del suo tempo: anche la Contessa d’Almaviva, nelle Nozze di Figaro di Mozart, come spiega Susanna al Conte, ha i soliti vapori/ e vi chiede il fiaschetto degli odori (ma non appena il Conte, con interessata galanteria, le dice di tenere per sé il fiaschetto, evidentemente prezioso, dopo averne fatto annusare il contenuto alla padrona, Susanna spiega che questi non sono mali da donne triviali); ma un buon libro le dava un po’ di consolazione: qualche classico del Seicento e tutto ciò che le mandava Voltaire. Non essendo francesista, non saprei se i giudizî della marchesa sulla prosa del Settecento siano affidabili (sulla poesia mi sembra che praticamente collimino con quelli, addirittura, di Marc Fumaroli); come lettrice, però, me la sono sentita ma semblable, ma sœur: ché davvero faccio fatica ormai a trovare un libro di narrativa odierno che sia anche solo moderatamente piacevole; la letteratura di oggi mi sembra in gran parte grigia, noiosa e insipida: uomo del Novecento per nascita e per cervello, trovo piacere quasi solo nei libri del mio secolo – e di quelli precedenti. Appena cominciata a leggere La sindrome di Ræbenson di Giuseppe Quaranta, però, mi è venuto in mente, al posto di Madame di Deffand, il compianto Luigi Veronelli. Amatore anch’egli del Settecento, e segnatamente del Settecento francese, sconfortato dalla cattiva cucina di tanti ristoranti, al riguardo citava l’ingiunzione affissa, secondo quel che si favoleggia, fuori dal cimitero di San Medardo a Parigi per ordine di Luigi XV, allo scopo di vietarvi le riunioni di certi giansenisti fanatici dove sarebbero avvenute guarigioni taumaturgiche: “De par le Roy, défense à Dieu/ de faire miracles en ce lieu”; ma il tal oste, seguitava Veronelli, il miracolo invece lo faceva: ché cucinava benissimo. E difatti Giuseppe Quaranta, nel campo incolto e brullo della narrativa italiana (orrido campo, direbbe l’Amelia d’Un ballo in maschera), il miracolo lo fa anche lui: e pubblica uno splendido romanzo. Altro che défense de faire miracles! È, diciamolo subito, anzitutto un libro pieno di cose, di idee, di letture; un libro che, a giudicare dalla tessitura, forse ha richiesto una lunga gestazione; un libro, certamente, che conquista il lettore fin dalle prime pagine. Soprattutto, però, è un libro pieno di storie. Uno dei difetti peggiori dei narratori nostrani odierni è quello di non saper più narrare: spesso indulgono sino allo sfinimento su vicende fragili, esili, meschine, come se l’indugiarvi a passi tardi e lenti donasse alla prosa chi sa quale sublimità; Quaranta invece racconta: e i racconti gemmano, ricchi e avvincenti, dalla vicenda principale. Questa concerne una malattia misteriosa: talmente misteriosa che non compare nemmeno nella letteratura medica; ma se ne occupa una specie di confraternita segreta, sfuggente, che lascia rade tracce labili. Uno psichiatra ritiene di soffrirne; si toglie la vita; un amico e collega segue il filo della sua follia per indagare se vi sia in essa un metodo, se davvero una patologia come questa esista e si possa descrivere. Una patologia inquietante: chi ne soffre trascina una vita sempre più angosciosa e trasognata, cercando la morte che però sembra sfuggirgli; ne sorgono diverse domande: che cos’è la coscienza, che cos’è la persona, in che modo può sopravvivere? Sottotraccia, però, mi sembra che balugini una questione viepiù radicale: l’uomo riesca davvero a concepire, ad accettare l’idea della vita eterna? Non, si badi, della sopravvivenza d’un’anima disincarnata, d’un ombra che fluttui tra ombre, vuota, impersonale o appena individuabile: ma della vita eterna dell’uomo risorto in carne ed ossa; un concetto che moveva al riso gli areopagiti arringati da San Paolo, pacificamente a loro agio con la presenza d’un ἄγνωστος Θεός, cui avevano eretto anche un’ara, eppure scandalizzati dalla resurrezione della carne. Si sente scandalizzato anche l’uomo d’oggi da questo potente anelito d’una seconda vita; non riesce a capirlo; si può azzardare, anzi, che non sa salpare, dopo il δεύτερος πλοῦς della metafisica platonica, per una terza navigazione sul legno della croce; e allora, paradossalmente, paventa la vita e corteggia la morte. Solo che l’autore qui non introduce questi temi di peso in modo esplicito: li lascia serpeggiare, sottili e inquietanti come tracce oniriche tra le pieghe dell’indagine, tutta medica e terrena, sulla sindrome di Ræbenson, tanto rassomigliante, nel nome, al cognome di Bernard Berenson (storico esegeta, si sa, della Resurrezione di Piero della Francesca, la cui menzione qui appare, implicita ed esplicita, fra i temi ricorrenti dell’opera); ed emergono accanto, quasi fiorendo per caso, altre inquietudini tra il sogno e la vita oltremondana: apologhi von den Hinterweltlern come quello, che sembra venire dalle pagine di Chesterton o di Graham Greene, dell’adultera che si trova condannata a rivivere perpetuamente il suo adulterio, in quella stanza odiosa d’albergo, con quell’uomo che non ama più: chi ha detto che non si può, o non si può più, scrivere narrativa d’ispirazione teologica? Questa è una felice teologia in filigrana; di fatto, una delle più belle descrizioni dell’inferno che mi sia capitato di leggere, se all’inferno si può accostare l’idea di bellezza. Un altro tema sviluppato dal Nostro con grande sensibilità è quello della memoria e della conoscenza delle vite altrui: frammentaria, labile, fuggevole; la nostra natura cerca di afferrare, di trattenere questi brandelli che però scivolano via o cambiano volto, e spesso risultano anche inaffidabili, intrecciati come sono a falsi ricordi, a false rappresentazioni, a falsi resoconti. Le indagini stesse del protagonista si tingono di metafisico, ad esempio nella scena dell’inseguimento del corpulento possessore d’un libro cercato da molto tempo, con una corsa fra viuzze di Lucca che sembrano uscite da una tela di De Chirico (e l’episodio rievoca certe vecchie pellicole di spionaggio: ma rivissute con un’ombra d’autoironia); la metafisica prende al contempo colori terragni: un mondo scaleno e fluttuante. Difficile in effetti rendere in prosa ordinata le sensazione suscitate da questa lettura, dove oltretutto pullulano anche suggestioni letterarie, assimilate però a fondo, e quindi prevalentemente sottacquee. In un panorama letterario come quello attuale, così povero e bigio, un romanzo ricco e stimolante come questo è il benvenuto.
C’è una nuova epidemia che sconvolge le menti e i cuori: la sindrome di Ræbenson. I sintomi sono: numerose amnesie, un’alterazione nella percezione della visione, l’iride che cambia colore, una sorta di turricefalia, una grande longevità e l’impossibilità di morire. Uno psichiatra, voce narrante della storia, prende spunto dalle tracce di malattia che ritrova in un collega suo amico, Antonio Deltito, per indagare sulla sindrome e allo stesso tempo offrirci uno spaccato dell’animo e delle fragilità umane. Qual è la paura più grande dell’uomo? Morire. E cosa succederebbe se ciò non fosse possibile, se ogni elemento di vita vissuta si sgretolasse come polvere senza lasciare alcuna traccia, gettando un velo di anonimato in chi lo ha vissuto? Il baratro del nulla si spalancherebbe sotto i suoi piedi, creando ansia, disagio, svuotando l’essere della propria identità, inghiottendolo nel buio fino alla presa di coscienza finale: “ Io non so cosa sono”. Solo attraverso il ricordo si legittima una coscienza dell’essere. Quella che all’inizio sembra esser solo una psicosi sconosciuta si rivela un male di vivere profondo, che non intacca solo il malato, ma si espande nelle vite degli altri, del protagonista e di chi lo affianca, creando dubbio, confondendo il lettore, portandolo di fronte ad uno specchio ad interrogarsi sulla propria esistenza, sulla natura della propria felicità/infelicità e sul suo essere più profondo. E’ per questo che la voce narrante non ha un nome. Un’identità che potrebbe essere chiunque, chi scrive, chi legge, chi vive… L’esordio di Quaranta è potente. Finalista del Premio Calvino 2023, lo scrittore sfrutta la sua professionalità di psichiatra e la sua conoscenza di grande lettore per offrire a noi uno scritto consapevole, di ampio respiro, misurato e colto ma allo stesso tempo intrigante e denso. Tante vie silenziose proprio come in un labirinto, perché questo libro è proprio questo: “un labirinto, come edificio costruito per confondere gli uomini”. Le parole di Borges e l’omaggio silenzioso a Lui, autore di cui si sentono tutti gli influssi sullo scrittore, tracciano le strade che il lettore può percorrere nella sua mente ritrovando se stesso o perdendosi, tessendo una tela infinita.
Viene prima l’inconscio senziente o il linguaggio? Si interroga McCarthy in Stella Maris. Le storie esistono in sé o solo quando vengono misurate, ovvero raccontate? Sembra interrogarsi (in un gioco di rimandi apparentemente casuale, ma con l’inconscio* non si può mai dire) Quaranta nella Sindrome di Raebenson. La lettura a tratti intrecciata di LSdiR e SM (sovrapposizione non casuale, poiché di entrambi sono debitrice a Quaranta che però per me ha un altro nome – un nick con cui lo conosco e mi è caro da anni**, in una mise-en-abime a tratti similare a quella di LSdiR, ma corro troppo, proprio come il narratore) continua a pormi interrogativi sull’inconscio. Là McCarthy usa gli sturmenti della fisica quantistica, qui Quaranta quelli della psichiatria. In entrambi i casi si tratta di costrutti teorici, destinati – come direbbe Poincaré (cit) a cadere come gli imperi. La trama la salto che altrimenti che piacere c’è a leggerlo? ma grosso modo narra le vicende intrecciate di due psichiatri, Antonio Deltito e il protagonista (di cui non svela il nome, se non un indizio, potrebbe chiamarsi Bianchi o Neri). Il primo inizia ad accusare degli strani sintomi che il secondo si mette a studiare, grazie anche alle tracce lasciate da Deltito stesso. Il morbo di Raebenson sembrerebbe una forma patologica contraddistinta – a parte le stranezze della visione verde, i crani turricefali, e l’impossibilità presunta di morire – dal trasferimento di particelle di memoria (i raeben) che passano da una persona all’altra. Gli archi narrativi sono due (da quando mi sono appassionata alla fisica quantistica vedo tutto in un sistema di doppie possibilità, onde/particelle, stringhe infinite, etc.) ma da bravo letterato, Quaranta fa un gioco di prestigio: la mano destra segue un arco narrativo complesso, che mette insieme narrazione diretta e indiretta, memoir, flash back e ricordi, mantenendo sempre la freccia del racconto; la mano sinistra dissemina indizi di “verità” che non vediamo. La realtà è sotto ai nostri occhi, ma fino alla fine siamo distratti dalla narrazione. I raeben che caratterizzano la patologia, i frammenti di inconscio, sono sparsi a piene mani nel libro: le tante citazioni che inframmezzano la narrazione con una nonchalance mai pedante o cattedratica cos’altro sono se non raeben? La letteratura ci/si tramanda, ci riunisce in una comunità morbosamente legata da ricordi comuni (attingiamo alle stesse fonti), non perisce mai (continuiamo a rileggere i classici, ci buttiamo sui contemporanei), non si estingue. La riflessione sull’inconscio diventa conscio appena si cristallizza con le parole, che gli autori forgiano con maggiore o minore maestria. La differenza è proprio lì: maggiore è arte, minore è violenza.
Cosa rimane di questo romanzo-fiume, non per la lunghezza ma per gli intenti e per gli spazi che apre? Il piacere della lettura (si sentono le buone frequentazioni di Quaranta) e il desiderio di leggere ancora di mondi che chiedono di essere narrati. E la consapevolezza che potremmo essere tutti (noi comunità dei lettori) dei raebensoniani.
*inconscio che è pane quotidiano per l’autore, psichiatra di professione, una occupazione che sicuramente contribuisce a guadagnargli quel minimo di meritata attenzione da parte di quei potenziali lettori che non siano già stati catturati dalla bellissima copertina. La follia non è mai stata così poco seducente come in questo romanzo-romanzo (una tipologia narrativa a cui non siamo più tanto abituati in una epoca di noioserrima auto-fiction ombelicale), perché Quaranta non usa i facili trucchi della follia-come-elemento di-originalità-e-malìa ma utilizza lo sguardo, gli strumenti, la diagnostica dello psichiatra come elementi narrativi con una abilità costruttiva non indifferente. Potrebbe parlare di, boh, architetti, ma non conoscendo quel mondo sceglie quello che gli sta attorno (e forse dentro, ma non mi spingo a psicanalizzarlo). **disclaimer- la conoscenza risale ad almeno una dozzina di anni su un meraviglioso social libresco oggi moribondo che ha portato alla conoscenza nel mondo reale. Ma come Quaranta ben sa, quando si tratta di libri non ho amici, da qui il timore di leggerlo. Timore superato, questa è stata la terza lettura, avendo avuto il piacere di leggerlo anche in bozza 😊
"Le classificazioni sono come gli imperi, il loro domani è incerto."(*)
Si supponga per assurdo che esista una categoria di umani non discendente diretta dell'homo sapiens ma che con essa si sia sempre confusa. Si supponga che la discendenza di questo bizzarro ceppo si distingua per alcune caratteristiche somatiche peculiari, cranio turricefalo, linea di sangue con presenza gemellare, predisposizione genetica alla catatonia o alla depressione che spesso sfocia nella morte per suicidio. Ma si supponga che la caratteristica più peculiare di questa categoria di umani sia la possibilità di vivere o recepire ricordi (ræben) non propri o non vissuti direttamente, sciolti nell'etere come energia e recepiti solo da coloro che sono predisposti all'ascolto su altro tipo di frequenza.
«la prova dell’esistenza di una sorta di campo ræbensoniano – qualcuno ebbe l’ardire di nominarlo così – in cui i ricordi stazionano non sotto la forma di una traccia di memoria, ma di energia. In questo modo possono essere captati da chi abbia frequenze adatte, fino a creare una spaventosa fusione tra gli uomini e le donne». «Lei non immagina quale universo brulica in un singolo pensiero».
Si supponga inoltre che questi esseri non siano compatibili con la morte. Si supponga che tale categoria di umani sia stata scoperta da un consesso di psichiatri che hanno sempre tenuto nascosto la loro scoperta fino a che uno di essi, forse per riabilitare la memoria di un collega facente parte di tale categoria (Ræbensioniani), renda di dominio pubblico la cosa con effetti collaterali non prevedibili.
Ebbene leggendo, si pensa che l'ipotesi non faccia parte di una dimostrazione per assurdo ma ci si chiede se in realtà la categoria del lettore, che come dice Pennac vive molteplici vite, non sia in realtà una sorta di Ræbensoniano non dotato dell'immortalità. E che la frequenza energetica sia il pensiero condiviso a fronte della lettura di molteplici menti a costituire una sorta di coscienza collettiva che in un certo qual modo abbia la possibilità di propagarsi all'infinito. Ad esempio.
Ammesso e non concesso che categorizzare sia una forma di conoscenza efficace. "Si diceva: io non so cosa ho. Ed era talmente viva l’idea che qualcosa di estraneo alla propria natura gli avesse giocato un brutto tiro, che nemmeno per un attimo pensò che forse era meglio dire a sé stesso: io non so cosa sono."
Un libro coltissimo per citazioni e scrittura che sollecita la riflessione su molteplici fronti. L'autore credo sia uno psichiatra, sicuramente è un lettore sopraffino.
Consigliato a tutti i lettori che sono soliti andare agli appuntamenti che non hanno mai preso.
A leggere la quarta di copertina, si potrebbe avere l'idea di avere fra le mani una storia 'Kafkiana', 'surrealista', 'magica' o 'weird'. Niente di tutto ciò. La sindrome di Raebenson è un romanzo denso, che sa essere molto 'classico' e molto sperimentale allo stesso tempo. In controtendenza rispetto a certe mode scellerate, la scrittura è ariosa, piena: Giuseppe Quaranta non ha paura degli aggettivi e delle subordinate (sa che sta scrivendo un romanzo e non un post su Facebook), né di prendersi il tempo necessario per costruire un'atmosfera tesa, a tratti morbosa, se non angosciante. Ma è un'angoscia esistenziale, quella in cui, pagina dopo pagina, La sindrome di Raebenson getta i lettori, che via via devono confrontarsi con domande sulla vita, la morte, la malattia, l'identità, le relazioni.
E se la scrittura, dicevo, è ariosa, una bella scrittura come quelle 'di una volta' (e, con i tempi che corrono, essere un po' all'antica è l'unico modo per essere futurista), la bellezza del romanzo sta nella sua struttura, nella sua trama che si sfilaccia, si scompone, si dirama in diversi rivoli narrativi che ricordano un po' Eco e un po' Bolaño (che combinazione!), ma che dimostrano la grande maturità dell'autore.
Molti di questi rivoli narrativi (e, secondo me, il bello è proprio questo) non sfociano in nessun mare definitivo. Il protagonista del romanzo comincia a studiare una patologia molto rara (la 'sindrome' del titolo), della quale un suo collega, Antonio Deltito, afferma di essere affetto. Deltito rivela anche che una specie di setta, i 'raebensonologi', spiano tutti i soggetti affetti dalla patologia. La storia di Deltito, dei suoi figli, dei raebensonologi e di una piccola folla di altri personaggi, però, fa da controcanto ai ricordi personali della voce narrante, specie quelli legati alla sua infanzia traumatica in seno a una famiglia disfunzionale. Si saprà come è andata a finire con i raebensonologi? Si saprà cos'è poi successo a questo o a quello? Sapremo mai tutta la verità sulla storia familiare del protagonista? No. Perché? Perché il protagonista, nonché voce narrante del romanzo, non ci sta raccontando questa storia per rivelarci qualcosa, ma semmai per celarsi, a noi e a sé stesso, dietro le parole, le catalogazioni scientifiche, la scoperta di una nuova (e forse immaginaria) malattia mentale.
Il risultato finale è malinconico, stranamente magnetico. Un romanzo che si legge non per vedere come va a finire, ma per immergersi negli abissi della vita.
Di questo posso dire, però, che ho amato la luce, l'intensità dello sguardo, la capacità di creare scenari possibili e imprevisti, di riguardare l'ordinario con lo straordinario. E ti aspetteresti che a questo corrisponda una lingua un po' barocca, pretenziosa, manierista. Invece no. La parola è limpida e delicata, caratteristica di pochi. Questa lievità del dire me lo ha fatto apprezzare molto. Bravo Giuse, complimenti.
Mi ha colpito tantissimo. Un respiro internazionale, come è stato detto. Per prima cosa, la struttura. Tende a seguire inizialmente le vicende di uno dei due protagonisti, Antonio Deltito (l'altro è il narratore, o forse sono la stessa persona?), in un crescendo infernale e allucinatorio. Poi nelle parti successive la storia si amplia, coinvolgendo epoche e geografie diverse. Ingloba tesi differenti, opinioni di esperti (affascinante la parte con il biologo Bloise), splendide riflessioni speculative, in un crescendo di vertigine e audacia fino al delirio interpretativo vaticinato dall'esergo. È un libro inoltre dalla ricca densità tematica. La sindrome invade bruscamente la vita dei poveri rabensoniani, forse partendo proprio dai due protagonisti. Mescola tra loro i ricordi (o i raben, come vengono chiamati), finendo per annullare o disperdere le identità in una specie di superorganismo, un'entità maligna, come viene suggerito da una nota finale, la cui potenza simbolica è difficilmente afferrabile. Sono curiosa di leggere qualche interpretazione. Lo definirei forse un romanzo che parla di identità e di memoria. Chiuso il libro ci chiediamo cosa abbiamo letto, chi dei due protagonisti è stato colpito davvero dalla sindrome: il narratore, incapace di provare emozioni, tutto ripiegato su se stesso e teso a inseguire una fama immortale, che crollerà come un castello di sabbia, o Deltito, per il quale una vita senza morte non sembra avere significato. Molto piacevole inoltre l'apparato iconografico, che bilancia visivamente parti più speculative. La prosa è asciutta, elegante, piena di energia concettuale, ogni passo di questo libro infatti esplode in più direzioni, apre la mente a molti pensieri, e lascia un vago senso di perturbamento. Per lettori che pensano. Da rileggere
La sindrome di Ræbenson è una patologia neurologica rarissima e tu dirai che idea originale! L'ha già fatto la Niffenegger ne La moglie dell'uomo e poi ci sono Le memorie dello squalo, Memento etc. Si ok va bene ma quello che stupisce di questo romanzo è che quando la storia si spinge in una zona in cui è un attimo cannare -penso a quanti autori famosi hanno buttato via idee geniali perché hanno voluto strafare o non sono più riusciti a gestire la direzione che le loro storie avevano preso (Memorie dello squalo, Rabbia di Pahlaniuk, quello schifo di Inception) - il romanzo di Quaranta resta centrato, senza sbavature né eccessi pirotecnici.
La scrittura può apparire fredda e distaccata, e all'inizio pensavo potesse essere un problema ma col passare delle pagine ho trovato che il mood linoleum e disinfettante si addicesse molto al protagonista che, ricordiamoci, è un dottore che diagnostica una malattia. L'autore con stile scarno e, direi, professionale, evita inffati smancerie, scene strappalacrime e ammiccamenti al lettore, per concentrarsi sul costruire una storia interessante, plausibile e intrigante.
Non leggo quasi mai contemporanei, non ne sono attratto e quelle poche volte che ci inciampo poi mi incazzo. Questo, diciamolo, l'ho letto solo perché me l'ha imposto la morosa ma alla fine, come sempre, ha avuto ragione lei.
Copertina bellissima, romanzo ben riuscito. Bravi tutti!
Un libro che unisce metafisica e psichiatria, metodo scientifico e irrazionalità. Come il protagonista, forse alter ego dell'autore, che tenta di essere la voce fuori campo della narrazione, ma come anche tutto il mondo, siamo pian piano trascinati in questa epidemia di raebensonismo: da conoscevo un tale che ne era affetto, ad essere circondati di casi, dal cercare informazioni nonostante siano di difficile reperimento all'esserne sommersi sui giornali - nonostante non siano davvero utili alla comprensione ma meri fatti di cronaca-, fino a chiedersi se non abbia contagiato anche noi, il narratore, il lettore. Ci permette di avere uno sguardo interno sulla malattia mentale, sui rapporti con chi ne è affetto, quando si cerca di capirlo mentre i due mondi percettivi si fanno sempre più lontani e il ponte che permette la comunicabilità si fa sempre più impervio e filiforme. L'angoscia e lo straniamento di una pandemia sconosciuta, che tocca la parte che più rende individui umani, la psiche, si affianca a una analisi sulla memoria come fattore definente una persona e la sua mutabilità, una grande capacità di sfociare nell'onirico rende bene lo stato trasognato degli affetti. La formazione medica, psichiatrica, dell' autore è ben evidente nello scritto e aiuta l'aspetto realistico. Lo stile, in contrasto al minimalismo imperante, è molto ricco, con un lessico curato e talvolta barocco che ben si amalgama alla narrazione, straripante di riferimenti culturali, letteraria sia espliciti che impliciti, capaci di fare fiori il testo con collegamenti che inevitabilmente il nostro cervello vagando è portato a fare: rendendolo così un testo interattivo e mutevole in base al lettore. Un libro che non dà risposte ma domande, e forse è la cosa più importante da offrire a un lettore, che altri non è che un questuante alla ricerca di nuove strade e di nuovi pruriti cerebrali.
Un altro esordio del Premio Calvino di qualità! Giuseppe Quaranta ha scritto un esordio che sfida il lettore in tutti i sensi, sia a livello narrativo che a livello iconografico (all’interno vi sono delle immagini che l’autore sa usare in maniera sebaldiana, e qua mi fermo per non anticipare troppo). Oserei dire che è dai tempi di “Hamburg” di Marco Lupo che non si leggeva un esordio dal respiro internazionale.
Anche quest'anno (nel 2023 era toccato allo splendido "Ferrovie del Messico" di Griffi) lo inizio con un autore italiano della nuova generazione, l'esordiente Giuseppe Quaranta. Lettura appena terminata, e il romanzo è talmente denso e particolare che mi ci vorrà qualche giorno per esprimere un giudizio definitivo. Le prime sensazioni sono davvero molto positive: avevo spesso sentito accostare quest'opera a Borges; devo dire che a me ha ricordato moltissimo Buzzati (soprattutto quello dei "Sessanta racconti", fra i quali cito "La peste motoria" e "Sette piani" come riferimenti possibili) sia nello stile volutamente asettico, analitico e un po' datato (ma in questo caso non è un difetto, è tutto perfettamente funzionale al racconto), sia nelle tematiche, riconducibili "all'atroce senso delle cose inumane" di cui è permeata la quotidianità. Comunque il libro è consigliato e l'autore è sicuramente da tenere d'occhio.
La Sindrome di Ræbenson è un morbo i cui sintomi cominciano a colpire Antonio Deltito, amico del narratore protagonista, durante una serata qualsiasi tra amici. Amnesie, alterazione nella visione dei colori, sbalzi umorali e a quanto pare...l'incapacità di morire di morte naturale. Questo libro si presenta a metà tra un romanzo e uno studio con l'inserimento di una serie incredibile di nozioni che Giuseppe Quaranta (anch'egli medico psichiatra) snocciola con una semplicità incredibile rendendole però facilmente accessibili senza mai appesantire la narrazione, anzi, rendendola ancora più intrigante.
La sua prosa è una prosa che profuma di Sudamerica. L'autore che mi è venuto in mente più di una volta è stato Ernesto Sabato e il suo "Sopra eroi e tombe". Sì, la sparo grossa ma la sensazione era proprio quella. Avete presente no? Quando leggete alcuni autori ci sono sensazioni sottopelle che te li fanno riconoscere anche nel libro successivo. Come un piccolo brivido. L'universo onirico e surreale creato da Quaranta mi ha proprio fatto riprovare quel brivido sudamericano, quello che ti fa perdere le tracce e ti fa dubitare della realtà in una sorta di allucinazione perenne.
È un libro indefinibile e unico che ti fa riflettere su una infinità di temi (amicizia, identità, libero arbitrio, morte), ti lascia con tante domande e ti saluta marchiandoti per sempre con una sorta di insolita sensazione di malinconia. Quella malinconia che ti può trasmettere un ricordo lontano ormai sbiadito o forse totalmente perduto. La malinconia delle cose mai vissute. La malinconia di una vecchia lettera ritrovata sul fondo di un cassetto. Insomma, un altro tipo di brivido, di quelli che però si incollano per sempre.
“Tutti concepiscono a un certo punto dei loro giorni che se c’è qualcosa che rende vivi è sentire di avere dei ricordi, niente li violerà. Noi resteremo una traccia, per quanto flebile, irripetibile.”
Il principio di base di ogni romanzo psicologico è che il lettore debba trovare quanto vi è narrato un minimo conturbante o disturbante, perché ogni romanzo psicologico che si rispetti scava nella nostra coscienza e nel nostro inconscio, traendone fuori ciò che, volendo o non volendo, vi abbiamo seppellito. Più di altre tipologie, questo è il romanzo che pone una sfida seria al sé. Giuseppe Quaranta va oltre, inventando un disturbo, la sindrome di Ræbenson appunto, che più che una malattia è quasi uno stato della mente che sfocia nel fantastico. Perché i ræben, cluster di memoria che ciascuno di noi immagazzina nel proprio cervello, vagano di malato in malato, dando quasi vita ad una illusione di immortalità. Ma chi potrebbe vivere con i ricordi di un altro? E chi soprattutto potrebbe vivere perdendo i propri ricordi? Siccome questa sindrome non è nota al classico DSM, il protagonista anonimo del romanzo si mette alla ricerca di informazioni e ne scopre una setta di malati che intendono perpetuare la segretezza della sindrome, forse per poter continuare a vivere la propria illusione di immortalità e specialità. Perché alla fine, come pensa l’altro protagonista del romanzo, Antonio Deltito, tutti i malati di malattie rare pensano in fondo di essere speciali.
Un romanzo con una scrittura davvero buona. Mi ha lasciato quella sensazione di "forse se lo rileggo scoverò quelle connessioni mancanti", una sensazione però che non è del tutto certa. Magari alla fine il gioco è tutto qui, lasciarsi cullare da uno stile pulito, brillante, e venire ingannati su chi davvero è il protagonista, di chi sono i ricordi perduti.
Quando sono comparsi i primi sintomi, nessuno aveva la minima idea di come si sarebbero svolte le cose. A raccontarci la storia è uno psichiatra senza nome, un io narrante che cerca di tramandare gli avvenimenti e le sue scoperte: i primi sintomi mostrati dal suo amico e collega Antonio Deltito sono una serie di amnesie, quindi alterazione nella visione dei colori, sbalzi d'umore, e un declino che sembra semplicemente inarrestabile. Durante uno dei molteplici ricoveri, Deltito si decide a confidarsi con l'amico, rivelandogli il nome della malattia da cui è affetto, che gli impedisce addirittura di morire di una morte naturale: la sindrome di Ræbenson.
Non so precisamente che cosa mi aspettassi da questo romanzo, ma di sicuro non era il mondo che vi ho effettivamente trovato all'interno.
Ed anche per questo bisogna fare i complimenti a Quaranta, che ha scritto un'opera prima complessa ed articolata, densa e ben studiata, ben congegnata; un romanzo ricchissimo, di personaggi e di storie, di idee e medicina e filosofia e metafisica, di riferimenti ad altre opere ed altri pensatori, in cui ha inserito sapientemente anche l'utilizzo di altri media (fotografie, radiografie, dipinti), per creare un amalgama di colori e parole che donano ancora più spessore alla lettura. Con uno stile ed un tono ricercati e algidi, ci sembra quasi di leggere un romanzo austriaco dell'800, che scava nella realtà e nei concetti così poco realistici da essere assolutamente credibili.
Ragionando sull'identità dei tanti personaggi che incontriamo nella storia, ci ritroviamo a ragionare su ciò che rende una vita degna di essere vissuta e ciò che la rende insostenibile, sull'importanza della morte per dare valore e senso alla vita, sull'idea di persona e sulla nostra stessa identità, inserendoci anche nella narrazione stessa, con la nostra coscienza e la nostra conoscenza. I concetti di identità e memoria (e le loro instabilità) si mescolano fra loro, e la loro connessione si fa al tempo stesso più forte e più labile, in un vortice vertiginoso e perturbante.
Una lettura davvero particolare, che spicca per arguzia nel panorama letterario italiano.
Una storia che non presenta molte facce ma una lenta e continua evoluzione... Da romanzo psicologico e introspettivo acquista, man mano, un'aura fantascientifica e distopica che, sul finale, sembra diventare semplicemente un differente livello della realtà. P.S. i capitoli finali cambiano tutta la chiave di lettura. Ancora ora, se ci penao, mi sembra di cogliere continuamente altri aspetti. Come se fossero i diversi livelli (layer) di un programma di fotoritocco
Giuseppe Quaranta: La sindrome di Ræbenson. Atlantide ed.
Doveva essere la classica serata tra colleghi su una terrazza con vista sulle cupole della città eterna, con chiacchiere che sfioravano temi di lavoro e gossip. Quando Vittorio Berra, uno psichiatra delle Molinette di Torino, era andato via, qualcuno aveva commentato il fatto che avesse pianto per tutta la sera, praticamente davanti a tutti, riferendo della recente separazione dalla seconda moglie. Antonio Deltito era sembrato cadere dalle nuvole e aveva chiesto di chi si stesse parlando. Non ricordava nulla dell’episodio appena raccontato. E non rammentava nulla neppure del collega, nonostante avessero tentato di riportargli alla mente dettagli piuttosto precisi: come poteva non aver notato quella cravatta a strisce gialle e verdi? Per Deltito era come se Berra non fosse mai esistito. Buio assoluto. Era tornato a casa piuttosto scosso dall’episodio, assalito dal dubbio che la sua memoria si stesse sgretolando…
«Aveva cominciato a parlarmi dei ræbensonologi da qualche anno, solo che non li chiamava così […] Li chiamava studiosi. Talvolta al cinema non facevamo in tempo di finire di vedere un film che si alzava dalla poltrona, pronto a tornare a casa per rispondere alle loro mail […] dichiarò che si interessavano certamente a lui, ma anche e soprattutto ai suoi parenti. La sua famiglia era oggetto di studio perché molto longeva».
📝Giuseppe Quaranta, classe 1982, pugliese d’origine (è nato e vissuto a San Marzano di San Giuseppe, nei pressi di Grottaglie, in provincia di Taranto), medico psichiatra - professione che esercita attualmente a Pisa -, esordisce con un romanzo complesso, audace, seducente per i temi trattati, che non a caso ha raggiunto nel 2023 - candidato con il poetico titolo La malinconia dei coralli - la fase finale del Premio Calvino. Che patologia ha sviluppato lo psichiatra Antonio Deltito? Soffre davvero di una forma di immortalità tramandata dai suoi avi, la sindrome di Ræbenson?
La sindrome di Ræbenson è una riflessione sulla natura umana e sulla sua fragilità, sulla malattia mentale e su quanto possa essere labile il confine tra salute e patologia, soprattutto quando si tratta di psiche. Ma è soprattutto una esplorazione metafisica del concetto di essere, di identità, attraverso l’analisi clinica - si direbbe - di un paradosso: una immortalità possibile, non voluta, anzi temuta, aborrita, perché pagata con un prezzo altissimo: la dispersione delle memorie, dei ricordi, ovvero della sostanza stessa su cui poggia quel continuum che percepiamo necessario per conservare l’integrità mentale, la nostra irripetibile individualità…
Cos'è veramente questa sindrome? cosa rappresenta e cosa ci voleva comunicare l'autore? Non parrebbe essere un'allegoria per dare un nome alla sofferenza causata dalla morte di altri e alla non morte nostra? La paura di vivere troppo o troppo poco, del non avere un vero controllo su ciò? La scienza ci salva e ci affonda nello stesso momento. Penso che una storia che faccia sorgere più domande di quelle a cui abbia risposto, è un grande racconto.
La prima parte mi ha ricordato molto "Follia" di McGrath, ma dalla seconda parte in poi il romanzo prende tutta un'altra piega e acquisisce unicità e originalità tanto da non capire se è tutto vero o meno. Questo è grazie ad un lavoro sublime di scrittura incollocabile tra fiction e realtà e mi ha fatto davvero molto pensare soprattutto a quello che leggiamo online e che pensiamo sia vero. Questo romanzo ha messo in discussione la mia capacità critica nel mondo della realtà scientifica e devo dire che rimanere con quel dubbio oppressivo di non avere certezze su cosa sia reale, possibile e impossibile è alienante e magnifico nello stesso momento. Sentimento che ha attanagliato anche la voce narrante fin dall'inizio.
Ma alla fine viene da chiedersi: è davvero importante che tutto sia come è stato provato e detto, o è più un simbolismo della grande lotta dell'uomo per raggiungere l'immortalità contro quella paura di una fine non fine che ci porta, fin dalla notte dei tempi, a cercare spiegazioni (religiose, scientifiche, poetiche) e soluzioni? Forse, risposta non ci deve essere.
Un esordio molto ambizioso, pieno di riferimenti letterari (e non solo) e scritto sicuramente bene (anche se, soprattutto nella prima parte, ho avuto la sensazione che i dialoghi fossero la parte più debole del romanzo, come se le varie voci dei personaggi finissero per confondersi un po' tra loro). La mia valutazione è data da un gusto puramente personale; se vi piacciono i romanzi alla Sebald, questo libro farà sicuramente per voi; per quanto mi riguarda, l'ho apprezzato ma non mi ha conquistato.
È vero che l'ho letto in condizioni proibitive, di estrema stanchezza ma non mi ha preso, non mi ha lasciato nulla. Eppure qualche buona intuizione c'è ma non viene mai percorsa fino in fondo (vedi l'incontro tra Antonio e Beatrice, la scena della pesca con il padre, il furto del libro, i gemelli Deltito...), viene troncata sul nascere, restano come diamanti nel fango perché, secondo me, è soprattutto l'organicità della storia a non funzionare. Nonostante le belle citazioni letterarie, alcune idee (come ad esempio l'invenzione della sindrome di Raebenson) e una scrittura nel complesso buona e a tratti elegante, devo ammettere che è stato solo una perdita di tempo, una mancata occasione ma Quaranta è un autore molto interessante.
“Non c’è cosa più perseguitata nel mondo che il silenzio. Tutto cospira contro di lui. Si ha sempre qualcosa da aggiungere a margine di tutto.” (Citazione)
• Zona di confine dove la letteratura incontra la clinica, dove il rigore della ricerca medica si intreccia con l’indagine sull’identità e sulla follia. Testo che mette in tensione due registri, quello scientifico fatto di case report, rimandi a manuali, confronti con colleghi, e quello narrativo più lirico ed esistenziale che trova il suo fulcro nella figura ambigua e affascinante di Antonio Deltito reperto vivente della propria malattia.
• Deltito resta sospeso tra lucidità e delirio, tra ironia e tragedia "Si diceva: io non so cosa ho. Ed era talmente viva l'idea che qualcosa di estraneo alla propria natura gli aveva giocato un brutto tiro, che nemmeno per un attimo pensava che forse era meglio dire a sé stesso: io non so cosa sono".
• Il libro è disseminato di riflessioni che trascendono il caso clinico interrogando il senso stesso dell’esistenza "La maschera che indossiamo è la scelta della nostra rappresentazione agli occhi del mondo. Forse la vecchiaia, con il suo corteo di corruzione, non è altro che questo lento calare del velo, dell'immagine fittizia che siamo soliti portare".
• È nelle sospensioni liriche che la scrittura di Quaranta trova il suo respiro più autentico coniugando introspezione e visione. "Non c'è cosa più perseguitata nel mondo che il silenzio. Tutto cospira contro di lui. Si ha sempre qualcosa da aggiungere a margine di tutto. Deve essere un affare molto increscioso il compito di chi sa ascoltare la voce dei morti, di chi intende ancora la loro lingua".
• Lo stile è uno dei punti di forza del romanzo. Colto, stratificato, a tratti barocco dimostra una padronanza non comune della lingua tuttavia non mancano i difetti: alcuni 'spiegoni' appesantiscono la narrazione e rallentano il ritmo, certe esibizioni di cultura (mia sensazione soggettiva) rischiano di colorare la prosa di autocompiacimento. È un rischio nei libri di scrittori molto preparati, ma un difetto molto meno grave di tanti altri che si possono incontrare (non qui).
• La sostanza rimane senza dubbio di grande interesse.
" La nostra amicizia era di un tipo particolare, escludeva le confidenze, e più volte mi sono domandato se a stabilire quel riserbo reciproco fui io o lui: le nostre intenzioni si confondevano. Forse è in questo il presupposto dei più solidi legami"
"Talvolta avevo l'impressione di essere legato al mondo attraverso pochi sottili fili, a cui riservavo ogni premura. Se si fossero rotti mi sarei arenato per sempre in qualche deserto dell'esistenza"
• Il libro mette in scena il paradosso della follia simulata, più destabilizzante della follia reale e si interroga con coraggio su cosa significhi essere, o fingere di essere, malati, soli, diversi. Un romanzo che richiede attenzione e mette al bando la superficialità.
• L'autore non cerca la "trasparenza" della lingua, costruisce invece una prosa colta, stratificata, quasi da saggio filosofico. Non c’è mai un tono neutro o semplicemente narrativo, anche quando racconta un dettaglio esistenziale sembra sempre spostarlo su un piano di riflessione generale, universale. Questo crea una scrittura che aspira a una dimensione meditativa e che si rivolge al lettore non solo come fruitore di una storia ma come interlocutore di un pensiero.
• I concetti rimangono per lo più astratti, teoretici e i termini usati appartengono al lessico filosofico e psicologico. Tutto ciò dà forza, profondità e gravità al romanzo ma è anche uno dei suoi rischi, quando la riflessione prende il sopravvento sulla narrazione e rallenta il ritmo.
• I passi che ho preferito sono quelli di respiro poetico quando cioè l’autore si affida all’immagine e il testo si accende comunicando per via evocativa.
• La scrittura di Quaranta non teme la lentezza anzi la rivendica. Si attarda, indugia, ripete, approfondisce. Questo stile deliberatamente rallentato è coerente con i temi dell’attesa, della malattia, della solitudine.
L’autore fa di mestiere lo psichiatra e lo si può ben notare, nel testo, soprattutto dalla facilità che ha nell’utilizzo della terminologia medica. A tratti lento, a tratti interessante. Ancora una volta è possibile notare come la filosofia sia parte integrante della psicologia e psichiatria e viceversa.
La potenza di una prosa di rara bellezza e anche commozione coniugata a una storia di cui non vedo molto il punto.
La valutazione in realtà è tra due e tre, mi prenderò del tempo per pensarci e capire quale sia la strada migliore, e che cosa mi abbia effettivamente lasciato questa storia.