‘Als je thuiskomt, ben ik vertrokken.’ Dit waren de laatste woorden van S., de man met wie Matteo B. Bianchi zeven jaar samen was geweest en die op een dag, een paar maanden nadat ze uit elkaar waren gegaan, besloot zichzelf op te hangen in hun appartement.
De pijn waar Bianchi vervolgens doorheen gaat voelt als een labyrint waaruit hij niet kan ontsnappen. Tegelijkertijd, zelfs op zijn donkerste dagen, begint hij aantekeningen te maken. In het begin slechts fragmenten, scherven van een bestaan dat in duizend stukken is gebroken. Maar langzaam groeien de teksten uit tot een verpletterende memoir over overleven in de nasleep van een heftig trauma, het verliezen van een dierbare en het omgaan met gevoelens van spijt, schuld en schaamte.
Bianchi schrijft uiteindelijk het boek dat hij had willen lezen toen hij degene was die achterbleef. Zij die achterblijven is een verbluffend en prachtig geschreven verhaal over hoop en wanhoop, vasthouden en loslaten.
Cominciamo col dire che un diario come questo non può essere considerato sotto il genere romanzo. I frammenti di vita che rappresentano i giorni più dolorosi di Matteo B. Bianchi rimangono a galleggiare nella testa del lettore per un tempo indefinito. La scelta di raccontare la sua esperienza di sopravvissuto, dopo vent'anni dal suicidio del compagno, riesce a commuovere senza impietosire e a far riflettere su aspetti ancora poco considerati come l'importanza di un supporto per chi resta. Nell'epoca forse più florida per memoir e no fiction, questi due filoni risultano perfetti per descrivere queste pagine e fa un certo effetto affiancare la voce entusiasta del podcaster di Copertina a un evento così traumatico
“Capita a me come capita a tutti. Di non essere in sé per diversi mesi. Quando si torna in sé ci si può riaccogliere. Ci si può dare il bentornato a casa.”
Heidi Julavitz, Tra le pieghe dell’orologio
Ogni dolore ha bisogno dei suoi tempi per essere narrato. Perché narrarlo presuppone il metterci mano, il ritornare a sentire le ferite che sanguinano ancora. Matteo B. Bianchi ha impiegato vent'anni per narrare il dolore della perdita del compagno morto suicida a tre mesi dalla fine della loro storia. Una tragedia che ha devastato la vita dei sopravvissuti, di coloro che sono rimasti, che non hanno avuto il tempo di salvare l'amato. E all'inizio fa troppo male per parlarne. Si resta muti, inermi e inerti. Ci si trascina avanti a fatica, perché noi, al contrario di chi è morto, continuiamo a respirare, sentire il nosto corpo che continua a vivere quando il cuore è devastato dal dolore, anche lui morente, per essere più vicino a chi è morto. E nel tempo bisogna imparare a convivere con quel dolore, bisogna imparare a farci qualche cosa, perché non faccia più così male, perché non ci impedisca più di vivere.
Perché quando si è travolti da una tragedia irrimediabile, come investiti da uno tsunami che ha avuto la forza di farci continuare a vivere nonostante intorno tutto parli di morte, insieme al dolore bisogna fare i conti anche con il senso di colpa, con quel senso di impotenza per non aver impedito il fatto. E lo sanno bene tutti coloro che hanno vissuto questo tipo di lutto. Il lutto che avviene in seguito a una malattia è più clemente nei confronti di chi resta. Ma quello che avviene in seguito a una tragedia è di una crudeltà inaudita: non si è avuto il tempo di affrontare il pensiero della morte. Ci si è trovati di fronte al fatto compiuto. Senza diritto di replica. Senza possibilità di scampo.
“No, non l’abbiamo salvato. Non ne siamo stati capaci. Non abbiamo capito quanto grave fosse la situazione. Non abbiamo colto i segnali. Non abbiamo preso per vere le minacce. Non siamo stati in grado di capire quanto profondo fosse il suo malessere, e quando anche l’abbiamo intuito, non abbiamo saputo come arginarlo. Non siamo stati sempre presenti. Non siamo stati onnipotenti.
Potremmo fare i conti coi nostri limiti per sempre. In un modo o nell’altro continueremo a farlo. Ma se vogliamo continuare a vivere, un giorno dovremo avere pietà di noi e smettere di condannarci.”
Ognuno ha i suoi tempi di elaborazione del lutto. Non per tutti arriva quel momento in cui ci si abbraccia interiormente, si ha più pietà di sé stessi, si smette di condannarsi e ci si dice "Va tutto bene, adesso. Sei nell'amore e l'amore è con te. Sempre. È andata così. Non avresti potuto far niente in ogni caso. Perdonati. Amati. Vivi nell'amore. Basta recriminazioni. Basta sensi di colpa. Non avresti potuto impedire il fatto. Non lo hai impedito. Non è colpa tua. Donati il perdono. Lascia che la persona amata possa riposare in pace anche dentro di te. Sii certa solo che l'amore non muore. Fiorisce. Risorge. Sempre. Come una Fenice dalle proprie ceneri."
Un libro che mi ha toccata nel profondo. Auguro a tutti di provare quello che ha provato Matteo, di attraversare il proprio dolore:
“Invece adesso (e mentre sto scrivendo questo libro!) quel giorno è trascorso senza che me ne ricordassi. So che suona come una contraddizione, ma per me non lo è. Significa che, come per molte altre cose che riguardano questa storia, ora il quotidiano prevale sul simbolico. Sento che il pensiero di S., il suo ricordo, è talmente presente e diffuso che perdono di valore le ricorrenze, gli oggetti che gli appartenevano, le tracce terrene del suo passaggio. Essermi dimenticato l’anniversario della sua morte non è una mancanza, è una conquista.”
Avrei voluto smettere di leggere. Era così doloroso immergersi in questo racconto straziante, specialmente perché so cosa si prova: un amico 10 anni fa ha fatto questa scelta tremenda ed è stato impossibile non ricordare come stavo, il senso di colpa di non aver capito e l'incapacità di leggere il malessere dietro ai sorrisi. Ma il romanzo è molto di più: è il racconto di un amore, la maschera pesante di facciata, ma anche la capacità di sopravvivere e andare avanti, di reinventarsi e di vivere e aprirsi al mondo in modo diverso. Mi è piaciuto moltissimo il passaggio sull'essere anonimi nel dolore, siamo tutti Matteo Bianchi.
L'intento del libro - ricordato ogni pié sospinto - è nobile, l'ego ipertrofico di Bianchi lo soffoca fin dall'inizio. C'è proprio un problema in Italia con questo genere di narrativa, sembra non si riesca a fare autofiction senza narcisismo, retorica, pesantezza: ogni due pagine qualcosa ti ricorda che stai leggendo un libro, se il tema è poi questo ti fa interrogare sull'etica che ci sta dietro. Non so se il figlio e l'ex moglie di "S." (che poi restituirgli un nome penso fosse il minimo) siano contenti del loro ritratto. È anche un'opera piena di contraddizioni, che come dice Bianchi sono normali quando un evento del genere ti è appena successo, ma dopo vent'anni andrebbero un pochino contestualizzate. Non mi è neanche piaciuto il modo che Bianchi ha di parlare e pensare alle donne: 1) riferirsi a Cher come "donna rifatta" 2) riferirsi a donne in gruppi di supporto come "stronze" 3) parlare di donne dipendenti da psicofarmaci come "casalinghe annoiate"
In conclusione, non basta avere un tema toccante e pesante di cui parlare per scrivere un buon libro. Anche se si parla a lungo delle intenzioni alla base.
“Se scrivo questo libro è anche perché avrei voluto leggere io allora un libro così, sul dolore di chi resta”
È il 1998 quando, dal nulla, S. (di lui non sapremo mai il nome per intero) si suicida.
Al capo opposto di quest'imprevedibile scelta c'è Matteo, che da un giorno all'altro si troverà ad affrontare l'inspiegabile perdita dell'amato compagno.
Con “La Vita di Chi Resta”, a più di vent’anni dalla morte di S., Matteo B. Bianchi sceglie di condividere con noi lettori la sua esperienza personale, esplorando il dolore, la confusione e il lutto che accompagnano una tragedia di questa portata.
La scrittura di Bianchi è sincera e toccante, e trasmette con grande efficacia il profondo legame che lo univa a S., oltre all'enorme vuoto lasciato dalla sua assenza.
L’opera tende una mano e offre una luce di comprensione e solidarietà a tutti coloro che stanno vivendo un momento di oscurità simile a quella vissuto da Bianchi: la sensazione di solitudine che spesso circonda chi è rimasto indietro – chi è “sopravvissuto” al suicidio di una persona cara – è un tema centrale in questa storia, così come il senso di colpa, che può pesare come un macigno.
Questo libro ci ricorda quanto sia difficile per chi è in lutto trovare aiuto e comprensione, e come spesso la società tratti il tema del suicidio con silenzio e tabù, privando “chi resta” di un luogo sicuro per esprimere il dolore e le emozioni.
“La Vita di Chi Resta” è un tributo commovente a S., alla sua vita e alla sua persona, ma è soprattutto un tributo a chi sopravvive, a chi da un giorno all’altro si trova costretto a salutare un compagno di vita – famigliare, amico o partner che sia – per accoglierne un altro, crudele e subdolo, accompagnatore costante di chi è “rimasto indietro”: il senso di colpa – la brutale sensazione di non aver fatto abbastanza per aiutare la persona amata.
Troppo personale, troppo intimo per esprimere una valutazione. Questa volta non do stelle, mi astengo dal giudizio.
Der Italiener Matteo Bianchi erzählt in seinem autobiografischen Roman „Von dem, der bleibt“ vom Suizid seines Ex-Partners, der sich in der gemeinsamen Wohnung erhängte, obwohl die beiden zu dem Zeitpunkt schon getrennt waren. Aber es geht weniger um den Täter selbst, als vielmehr um die Hinterbliebenen, die zurückbleiben mit all dem Schmerz und den vielen Fragen, die solch eine Tat aufwirft.
Warum scheidet ein Mensch selbstbestimmt aus dem Leben?! Vor zwanzig Jahren stand Bianchi mit dieser Frage so ziemlich alleine dar, denn der Mann, der einst Frau und Kind für Bianchi verließ, hat sich durch seinen Freitod dafür entschieden, Bianchi mit dieser Frage im Ungewissen zu lassen. Ein Telefongespräch zwischen den beiden entpuppt sich als Abschied für immer: „Wenn du wiederkommst, bin ich schon nicht mehr da“. Bianchi versteht diesen Satz als lapidare Information, ein folgenschweres Missverständnis, dass ihn noch lange beschäftigen wird.
Noch immer gilt Suizid als Tabuthema, deswegen mangelt es auch an Hilfsangeboten, vor allem für Hinterbliebene. Als Medizinerin und nach langjähriger Tätigkeit im Rettungsdienst könnte ich fast selbst ein Buch über dieses Thema schreiben. Fast immer erwischt es die Angehörigen kalt und sie haben so gar nicht mit dem plötzlichen freigewählten Tod des geliebten Menschen gerechnet. Es ist für alle Beteiligten stets eine Ausnahmesituation, denn sowas wird auch nach Jahren und zahlreichen (unterschiedlichsten!) Suiziden nicht zur Routine. Es ist für mich das erste Buch, das literarisch die Hinterbliebenen in den Vordergrund stellt und nicht den Suizidanten und wie ich finde, eine großartige Idee des Autoren Matteo Bianchi.
Ein wahrer Albtraum entfaltet sich 1998 für Bianchi mit dem Suizid seines Expartners „A.“. Wie groß muss die Verzweiflung eines Menschen sein, wenn er als einzige Lösung seiner Probleme den Freitod sieht?!
Nach sieben Jahren Beziehung trennte sich Bianchi drei Monate zuvor von A. - hätte er es auch getan, wenn er sich nicht getrennt hätte?! Schuldvorwürfe plagen ihn und er denkt darüber nach, ob nicht ein Suizid auch für ihn eine Lösung wäre:
"Wenn dir eine solche Tragödie widerfährt, dann willst du nur noch Schluss machen. Dich von allen und allem entfernen, der Qual auf einen Schlag ein Ende setzen. Und genau das ist das Einzige, was du nicht tun kannst."
Zwanzig Jahre bastelte er an „Von dem, der bleibt“ und 2024 kommt es endlich zur Veröffentlichung des Buches. Bianchi möchte damit vor allem zu einer Enttabuisierung des Suizids beitragen und auf den Mangel an Hilfs- und Präventionsangeboten aufmerksam machen, denn lange wusste er selbst nicht, wohin mit sich und fühlte sich schrecklich einsam und ausgegrenzt als Hinterbliebener eines Suizid-Toten. Viele Streifzüge durch Psychiatrien und einige Therapien später hat Bianchi Leidensgenossen in einer Selbsthilfegruppe gefunden, die in der Lage waren, seinen Schmerz zu lindern. Er rechnet uns vor, dass statistisch gesehen, alle 40 Sekunden ein Mensch Suizid begeht (weltweit) - wie erschreckend, oder?!
Absolut selbstkritisch hinterfragt er seinen Opferstatus und möchte vor allem eins nicht : eine weitere Moraldebatte anzetteln! Zur Überwindung seines Traumas und der damit verbundenen Schuldgefühle sieht Bianchi ein Zusammenspiel aus Hilfeannahme und Eigeninitiative von Nöten:
"Ist es möglich, einfach zu sagen: genug gelitten, jetzt fange ich wieder an zu leben? Bei mir war es so. Als würde man einen Schalter umlegen. Ich habe auf 'Ein' geschaltet, und die Lichter gingen wieder an."
War es nun ein Rückblick auf sein Leben oder vielmehr ein Tagebuch, ein Gedankenprotokoll oder eher ein journalistischer Recherchebericht, den Matteo Bianchi hier mit „Von dem, der bleibt“ verfasst hat?! Ich würde sagen, es war ein äußerst gelungener Mix aus diesen Dingen und ich bin dem Autoren dankbar, dass er sich die Zeit genommen hat (20 Jahre!) sich so intensiv mit seinen Erfahrungen als Suizid-Hinterbliebener auseinanderzusetzen. Denn ich denke, es gibt sicherlich viele Leser*innen, die dieses Buch brauchen und die es hoffentlich zur richtigen Zeit finden. Ich hoffe, ich habe durch meine ausführliche Rezension meinen Anteil dazu beigetragen, auf das Buch aufmerksam zu machen und wünsche mir, dass es den Weg in die richtigen Hände findet!
Se scrivo questo libro è anche perché avrei voluto leggere io allora un libro così, sul dolore di chi resta.
Un’opera strettamente personale come strettamente personale è il giudizio e l’impressione che resta a fine lettura. Ho letto pareri molto contrastanti e ci sta, penso che dipenda soprattutto dalle esperienze di vita che si sono fatte e po’ dal mood in cui ci si trova durante la lettura.
Mi ha ricordato per certi versi L’anno del pensiero magico della Didion nonostante le motivazioni che hanno portato alla produzione delle due “testimonianze” siano agli antipodi ma in entrambe le opere ho percepito l’esigenza di sublimare la lacerante esperienza attraverso la scrittura.
Cerco conforto nella letteratura. Trovo comunque solo materiali sulle vittime, non sui superstiti. Ma io sono uno di loro, è con loro che vorrei un confronto, un aiuto. Perché nessuno se ne occupa? Perché ignorano il dolore di chi resta?
Al di là dei riferimenti personali al privato dell’autore ho apprezzato molto il lato paideutico del libro, le opere letterarie citate, le serie televisive (sto già recuperando The Revenants) e i dischi, i riferimenti ad altri scrittori come Romain Gary e Pavese ma soprattutto a grandi professionisti come il prof Pompili che si occupano quotidianamente quasi nel silenzio generale di un settore fin troppo stigmatizzato.
Credo che leggerò altro dell’autore magari partendo proprio dal suo esordio più volte citato qui “Generations of love” per ritrovare il suo delicato stile in una veste più soft.
Solo chi ci passa attraverso capisce. Solo chi ci passa attraverso sa.
"La cassa d'acqua. Il particolare più straziante nel ricordo, che non rivelo a nessuno, che ho sempre tenuto per me. C'era una cassa d'acqua accanto all'ingresso, sulla destra. Sei bottiglie avvolte nella plastica. S. ha appeso la corda li sopra. Nel momento dello strappo, degli spasmi, avrebbe potuto allungare un piede, appoggiarlo sulla cassa, e si sarebbe salvato. Era li, a pochi centimetri da lui. La sfiorava letteralmente. Non ha voluto salvarsi. Neanche all'ultimo secondo. Neanche potendo. "
"Quando torni io non ci sarò già più." Sono le ultime parole di S. a Matteo, pronunciate al telefono in un giorno d'autunno del 1998. Sembra una comunicazione di servizio, invece è un addio. S. sta finendo di portare via le sue cose dall'appartamento di Matteo dopo la fine della loro storia d'amore. Quel giorno Matteo torna a casa, la casa in cui hanno vissuto insieme per sette anni, e scopre che S. si è tolto la vita. Mentre chiama inutilmente aiuto, capisce che sta vivendo gli istanti più dolorosi della sua intera esistenza.
Da quegli istanti sono passati quasi venticinque anni, durante i quali Matteo B. Bianchi non ha mai smesso di plasmare nella sua testa queste pagine di lancinante bellezza.
Nei mesi che seguono la morte di S., Matteo scopre che quelli come lui, parenti o compagni di suicidi, vengono definiti sopravvissuti. Ed è così che si sente: protagonista di un evento raro, di un dolore perversamente speciale. Rabbia, rimpianto, senso di colpa, smarrimento: il suo dolore è un labirinto, una ricerca continua di risposte - perché l'ha fatto? -, di un ordine, o anche solo di un'ora di tregua. Per placarsi tenta di tutto: incontra psichiatri, pranoterapeuti, persino una sensitiva. E intanto, come fa da quando è bambino, cerca conforto nei libri e nella musica. Ma non c'è niente che parli di lui, nessuno che possa comprenderlo.
Lentamente, inizia a ripercorrere la sua storia con S. - un amore nato quasi per sfida, tra due uomini diversi in tutto -, a fermare sulla pagina ricordi e sentimenti, senza pudore. Ecco perché oggi pubblica questo libro, perché allora avrebbe avuto bisogno di leggere un libro così, sulla vita di chi resta. Ma c'è anche un altro motivo: "In me convivono due anime" scrive, "la persona e lo scrittore". La persona vuole salvarsi, lo scrittore vuole guardare dentro l'abisso. Per vent'anni lo scrittore che c'è in Matteo ha cercato la giusta distanza per raccontare quell'abisso. E quando si è trovato nel punto di equilibrio, da lì, da quella posizione miracolosa, ha scritto queste parole, che, seppur lucidissime, sgorgano con la forza e la naturalezza dell'urgenza. Ciò che stiamo consegnando nelle mani di chi legge è un dono, sì, ma un dono di straordinaria gravità. Eppure, ognuna di queste pagine contiene un germe di futuro, la testimonianza di come, persino nelle pieghe di un dolore indicibile, la scrittura possa ancora salvare.
Matteo Bianchi -cui io ho avuto l'onore di incontrare-, affronta un dolore lancinante che non tutti sono in grado di portare con se, e sopratutto non tutti sono in grado di metterlo per scritto.
Le pagine scivolano via, scorrono, il libro passa in fretta , ma le parole restano impresse nella tua mente. Non è una lettura facile, ho ceduto tante volte, ho chiuso il libro perchè non concepivo e non concepiró mai, e mi chiederó costantemente cosa farei io, come reagire io al suo posto, cosa riuscirei a fare, Cosme sarei se fossi al posto del sopravvissuto.
Ha fatto male tant'è che per non prolungare tutto l'ho terminato in qualche giorno, non perchè io abbia vissuto la stessa esperienza, io non sono Matteo, io so di essere S., so di avere un Matteo nella mia vita , e molto spesso ci ho provato, a farla finita ma non è mai andata troppo bene, e ancora oggi con tutto ciò che vivo no vi nego che lo penso spesso, anche troppe volte. Ho visto sempre tanti pensieri, tanti libri di gente che prova a mischiare parole per metterle su un foglio di carta provando a far capire come si sente una persona suicida, non ho mai visto invece un libro che narri di chi prova a restare, che non è che un continuo della lotta di chi non è più riuscito a farlo.
La vita di chi resta è in conclusione un libro che mostra il lato umano di una persona e apre uno spiraglio sopra una voragine che, come un buco nero, può essere in grado di annichilire tutto ciò che le gravita intorno. Una lettura toccante e dolorosa, ma anche portatrice di speranza.
Ciao Matteo sappi condividiamo la sopravvivenza tramite la scrittura.
Emozionante e destabilizzante! Questo romanzo è un'autobiografia del dolore, una sorta di confessione a cuore aperto dello stesso autore e, al contempo, un racconto di sopravvivenza al dolore stesso. Matteo B. Bianchi, infatti, narra in queste intense pagine, il tumultuoso percorso affrontato verso la gestione del lutto che lo ha colto improvvisamente quando, ormai tanti anni fa, il suo ex fidanzato decise di togliersi la vita. Un fulmine, un boato, un terremoto che lo ha costretto a fare i conti con sé stesso e con il resto del mondo. L'autore racconta il suo malessere e la sensazione di essere incompreso da chiunque; racconta delle parole che gli mancavano per comunicare le sue emozioni; le maschere di cera che indossava e che, puntualmente, si scioglievano lasciando spazio ad un'amorfa e apatica disperazione. Bianchi affronta la difficile tematica del suicidio da un punto di vista personale, facendosi accompagnare dal lettore lungo il percorso di consapevolezza e accettazione. 'La vita di chi resta' è un romanzo lancinante, ricco di un dolore che vuole uscire ma che, per motivi indefinibile, stenta a farlo, trascinando l'autore in una sopravvivenza spiazzante. E' un romanzo, tuttavia, che comunica speranza e positività; non mira a raccontare, in termini consolatori, una tragedia, nè a veicolare messaggi di comprensione verso coloro che si ritrovano ad affrontare una situazione simile. E' un romanzo di espiazione, di confessione, si liberazione e di ripartenza. E' un libro che si divora e che lascia senza fiato. Super consigliato!
Una storia struggente, che Matteo B. Bianchi racconta senza cadere nello strazio gratuito, né nella pornografia del dolore. La forma frammentaria, quanto mai efficace in questo caso, aiuta l'autore a ricostruire progressivamente sé stesso e S. sulla pagina, fino a comporre un mosaico complesso e completo per il lettore. Più forte e incisivo nella prima parte, nella seconda metà la concentrazione si sposta anche sul dialogo con chi ha vissuto esperienze simili, quasi come se l'autore tendesse una mano verso chi condivide il suo dolore. Per dimostrare che "la vita di chi resta" prosegue, può ripartire, senza che questo significhi dimenticare.
Non mi sento di dare nessuna stella perchè non si può giudicare la storia tragica di una persona che ha perso una persona in maniera tragica. Ogni persona davanti ad un evento tragisco reagisce in modo diverso, magari un'altra persona avrebbe avuto delle reazioni diverse quindi perchè dovrei giudicare con delle stelle una situazione intima e personale? Onestamente non me la sento. Non mi sento meanche di giudicare la scrittura perchè in questo contesto non avrebbe senso. Il libro deve essere letto perchè è molto forte ma fa riflettere su tante cose.
“Prima o poi scriverai di questo momento. Anche se adesso ti può sembrare assurdo pensarlo, dentro di te sai che succederà. Siamo scrittori. Scrivere è il nostro modo di elaborare le esperienze, di fare fronte alla vita.”
“Se scrivo questo libro è anche perché avrei voluto leggere io allora un libro così, sul dolore di chi resta.”
Vent’anni dopo il suicidio del suo ex compagno, Matteo B.Bianchi raccoglie i frammenti lucidi e singhiozzanti del suo strazio. I suoi pensieri, le sue domande, le risposte (parziali) che ha incontrato per via, i tentativi di elaborare un lutto indelebile, le testimonianze di chi, come lui, questo dolore ha attraversato. Perché non si tratta di superare un dolore, ma di passarci attraverso.
Matteo ha la scrittura. A essa affida il compito dell’impossibile, inaudito racconto. A capitoli brevi e intensi. A strappi e a morsi. A cuore aperto e dilaniato. Ma senza autocommiserazione, senza compiacimento nel rimestare il torbido e l’opaco. Con schiettezza, con verità, con malinconia, con pause e buchi inevitabili. Una rielaborazione affidata al talento di tradurre in scrittura l’indicibile e l’inenarrabile.
Perché qualcuno decide di suicidarsi? E perché non ci si prende cura di chi gli sopravvive? Ecco alcune delle domande che restano incistate nella carne e nutrono la sofferenza incessante dell’anima. Ascoltando se stesso, ma anche qualcun altro, Matteo B.Bianchi tenta di rispondere. Impossibile non ascoltarlo, impossibile restare indifferenti, impossibile non essere coinvolti in un paesaggio interiore così umano e che solo la magia della letteratura può rendere vivo, toccante e vero.
Un romanzo che parla di perdita, ma anche di ricostruzione, con la delicatezza di chi sa cosa significhi affrontare il vuoto e il peso delle assenze. Matteo Bianchi ci porta dentro una storia che ha il sapore di un dialogo intimo, con una scrittura che scorre fluida, quasi come se ogni parola fosse stata scelta per farsi capire senza appesantire.
I capitoli brevi sono il punto forte: ti ritrovi a divorare pagine su pagine, quasi senza accorgertene, e la struttura ben costruita dà ritmo e coerenza a una narrazione che sa quando fermarsi e quando accelerare.
Un libro che si legge in un soffio ma lascia un segno profondo, perché racconta qualcosa che appartiene a tutti noi: il tentativo di dare un senso alle assenze e trovare il coraggio di restare.
Ho atteso per anni l’uscita di un nuovo libro di Bianchi. La mia attesa non è stata ripagata. Lui stesso - citando Lidia Yuknavitch - dice che “le cose che ci succedono sono vere. Le storie che raccontiamo a riguardo sono scrittura”. Ebbene quello che gli è successo è vero e tremendo. Ma, in questo libro, si è limitato a riportarlo. Non c’è scrittura. C’è solo una sequela di pensieri, a volte anche scritti male, ripetitivi e che finiscono per annoiare chi legge. Mi dispiace tantissimo, perché questo libro è una grande occasione sprecata.
Troppo intimo, troppo personale, intenso, doloroso per costringerlo in una valutazione. Un libro di cui non si può dire “bello”, né “mi è piaciuto”: a dire il vero, è difficile parlarne in assoluto. Ci si limita a leggerlo, a viverlo come un’esperienza.
Quizá lo que mas puede llamarte la atención de este libro, es que el autor prácticamente se desnuda para contarnos su historia, su propia vida, una parte muy dolorosa de su vida… Creo que nunca puedes llegar a imaginarte como va ser tu vida cuando te ocurre algo parecido ni siquiera después de leer su experiencia. Un libro que habla de como vivió, después de encontrar a su ex pareja muerta en su piso, un libro para que se hable mas de los suicidas y también de los que se quedan. Aparte del dolor que se filtra por las paginas, hay mucho mas en esta historia corta, hay una respuesta, una búsqueda…sin tratar de endulzar la realidad ofrece de forma normalizada las emociones, y cuando acabas la novela lo único que puedes hacer es comprender su gran esfuerzo y su valor.
Sarò sincera: per me si tratta di lucrare sul dolore. La scrittura può essere terapeutica, ma se si decide di affidare un testo del genere alla stampa (peraltro dopo oltre vent’anni dell’evento…) bisogna avere le spalle abbastanza grosse per tollerare le critiche. La mia impressione è appunto che Bianchi, ormai “guarito” dal dolore provato per il suicidio dell’ex compagno, avvenuto nel 1999, abbia sfruttato l’inevitabile curiosità che si sarebbe creata intorno al suo testo, a causa del tema, per vendere molte copie. Un memoir del genere dopo vent’anni non ha senso. Inevitabilmente il dolore è affievolito, se non addirittura scomparso e il lettore percepisce chiaramente che la sofferenza che si è cercato (invano) di trasmettere è palesemente artefatta, uno stratagemma letterario per conquistarsi empatia. Nel mio caso tutta la falsità delle sue parole mi è giunta forte e chiara. Un conto è pubblicare un diario scritto in contestualità dell’evento (mi viene in mente “come d’aria” che ha giustamente vinto lo Strega), un altro è tornare sull’argomento dopo venticinque anni e metà di vita vissuta. Non metto in dubbio che per Bianchi sia stato all’epoca un dolore indicibile. Forse gli sono mancate le parole per ricordarselo per bene. La scrittura è mediocre. Una sfilza di frasi secche, sentenze, io ho avuto l’impressione che cercasse la frase d’effetto (quella da sottolineare), senza trovarla mai, quindi andava avanti, pagina dopo pagina, con questo intento. Bocciatissimo. Non leggerò mai più niente di suo.
Non assegno le stelline perché mi pare brutto valutare uno scritto così intimo e personale. L'ho apprezzato per il coraggio di esporsi e per il nobile intento di aiutare gli altri raccontando la propria esperienza. Non riesco nemmeno ad immaginare cosa possa voler dire sopravvivere quando una persona cara si è suicidata, peggio ancora se lo ha fatto in casa tua e tu sei stato il primo a trovarla. È indubbiamente un'esperienza che lascia degli strascichi molto pesanti, tanto che l'autore ha dovuto aspettare vent'anni prima di riuscire a parlarne pubblicamente. Il libro di per sé mi è piaciuto, ma presenta degli scivoloni di stile che mi hanno fatto un po' arricciare il naso. Ad esempio mentre parla di Cher si riferisce a lei come "donna rifatta" con un epiteto che non ha nulla a che fare con quel contesto. Un insulto gratuito e immotivato. Davvero non poteva fare a meno di scriverlo? Allo stesso modo quando parla di dipendenza da psicofarmaci sostiene che sia una cosa da "casalinghe annoiate". Ma solo le donne sviluppano questo tipo di dipendenza? E poi che superficialità è questa? Non conosco Matteo Bianchi perché non l'avevo mai sentito nominare prima di leggere questo libro, ma ho la sensazione che sia un po' misogino.
Non volevo leggerlo questo libro, pensavo non avrei retto l'argomento. Ma questa cornetta ha continuato a chiamarmi e allora mi sono deciso a rispondere.
Ho scoperto che è un romanzo che si legge tutto d'un fiato.
Matteo B. Bianchi ci racconta il periodo più buio della sua vita e lo fa a frammenti. E solo così sono riuscito a respirare tra un capitolo e l'altro. I piu difficili da leggere erano proprio quelli di poche righe.
Lo ha scritto per i sopravvissuti come lui. Ma io ho ci ho visto un campanello d'allarme. Perché spesso diamo le cose, le persone per scontate e solo quando capitano le tragedie ci rendiamo conto di quello che abbiamo perso. Ecco, questa cornetta ci avvisa (tra le altre cose) di renderci conto adesso di quello che ci circonda.
Con questa storia, che potrebbe essere un film di Ozpetek ma che purtroppo è vera, Matteo ci fa riflettere senza impietosire.
Il suo ex ci viene presentato solo con la sua iniziale. Sappiamo poco di lui. E mentre leggevo, la mia mente non faceva altro che immaginarsi il loro primo incontro, in cui S. sorridendo stringeva la mano di Matteo e gli diceva il suo nome, per intero.
Non è facile formulare un parere preciso su questo libro. Credo, in effetti, che qualsiasi analisi risulterebbe fuori luogo. Questo perché Bianchi non ha scritto un romanzo e neppure un saggio. Non c’è poesia, non c’è un’impostazione definita, non c’è ciò che ci si potrebbe aspettare da una storia che nasce da un dramma così grande e profondo (perdere qualcuno che decide di togliersi la vita). La sensazione è quella di aver letto un taccuino del dolore, che porta alla luce. Entrambi (dolore e luce) sono così personali che non si possono - se si è esterni - descrivere, spiegare. Semplicemente, sono. E ci vengono raccontati con una inaspettata “leggerezza”.
Non so se ho il diritto di aggettivare questa storia, per quanto dolorosa, come meravigliosa. Ma lo è, del tutto. Ho trovato la sua scrittura magica, penetrante e coinvolgente. Leggetelo se siete dei superstiti, ma anche se non lo siete. Lo regalerò sicuro ad una persona che ha vissuto un trauma simile. Leggetelo per capire anche un minimo cosa si prova.
Non so dire se il valore di questo testo sia di carattere letterario, emotivo, o entrambi. Sconsiglio però di leggerlo o ascoltarlo in pubblico: il rischio di aggirarsi per strada o al supermercato con gli occhi lucidi è molto alto. Toccante.
Il tema di questo libro è il suicidio del compagno dell’autore, che dopo tanti anni di convivenza decide di accomiatarsi dal mondo. Un tema difficile da raccontare e anche difficile da leggere. Tra le pagine si trova il modo unico e personale che ha cercato l’autore, uno dei sopravvissuti a vivere con la consapevolezza di un gesto così tanto romanzato in arte quanto tema spaventoso e posi discusso nella “vita reale”. Proprio per questo all’inizio si trova spaesato con un dolore che si fa sentire in diversi modi, che ha diverse forse, frammentato come i capitoli che si leggono. Lettura difficile emotivamente ma necessaria per chi cerca di avvicinarsi al dolore altrui sentendosi spettatore, e sono davvero grata di aver letto una così dolorosa testimonianza da questa persona meravigliosamente imperfetta, che ha scelto a sua volta di vivere, e che è dedicata a chi come lui, è un sopravvissuto.
Un suicidio vicinissimo, sconvolgente. Solo molti anni dopo, il racconto - fatto anche a beneficio d’altri - della vita di chi resta, in cerca d’equilibrio.