Leone di Forteschio è un cavaliere poeta che vaga per le desolate campagne di un’Italia sconvolta dalla guerra e dalla peste. Il suo destriero è mediocre, la maglia di ferro sudicia e si è pure fatto rubare la spada. Ma un cavaliere non può restare disarmato e la fortuna vuole che sull’uscio di una cripta in rovina trovi una vecchia lama arrugginita, un dono dall’Aldilà per colmare il vuoto del fodero.
Forte della sua spada tombale, viene assoldato dalla signora di Ranacchio per portare a termine un macabro condurre tre carri pieni di morti dal vescovo. Una missione pericolosa, perché si dice che in quelle zone i cadaveri abbiano cominciato a tirarsi in piedi, barcollanti e letali.
Leone diventa, quindi, condottiero di una funerea scorribanda composta da un cacciatopi, un cavaliere malaticcio, un prete negromante, un barbanicco dell’Est, un fastidioso scudiero e una dama armata di sette compagni riuniti in processione attraverso luoghi infestati dai redivivi e dagli scagnozzi di un arcidiacono sanguinario, dando vita a una canzone che persino i morti impareranno a cantare.
L'esempio lampante di come, a mio modestissimo parere, la scrittura immersiva portata all'eccesso sia un paradosso. Dettagli più o meno futili acquisiscono un ruolo centrale, elementi fondamentali come i personaggi (e il loro sviluppo) vengono messi da parte. Una narrazione fredda e distaccata che non suscita interesse ed empatia, l'esatto opposto di quello che dovrebbe fare la scrittura immersiva.
PS: piccolo pensiero personale e assolutamente soggettivo. Un romanzo dark (fantasy, storico o grim) non è necessario che contenga sozzura, battute di dubbio gusto e volgarità varie.
Una storia spassosa di ambientazione medievale (di fantasia). Ritroviamo la strega di "la stirpe delle ossa", sempre enigmatica e defilata. Qui l'autore si diverte inserendo personaggi improbabili, grotteschi a tratti e caricaturali, meno seri di quelli del libro precedente. Ci sono numerose citazioni, e siccome seguo il suo canale YouTube, ho compreso a cosa si sia ispirato per la stesura del romanzo. Non è nulla di impegnativo, direi che va bene per staccare la mente e godersi una roccambolesca avventura!
2.5 stelle Sono molto dispiaciuto e anche un po' contrariato.. avevo davvero apprezzato molto il primo libro di Manara.. un Low fantasy crudo e cupo.. questo riporta nel retro la scritta "Ritorna il grande dark fantasy italiano".. allora!!! Punto primo, non è un fantasy!! È un romanzo storico, in un Italia medievale, e solo i pochi villaggi coinvolti hanno dei nomi inventati, ma ogni altra cosa non è di fantasia, ma è un ritratto dell'Italia di quel tempo.. La vicenda è di fantasia, ma questo non lo rende un fantasy!! Manca del tutto dell'elemento fantastico, del sense of wonder o di creatività.. detto questo, non è nemmeno dark!! Cioè, ha un ambientazione cupa e tetra com'era giustamente quell'epoca, resa in modo ottimo dallo stile dell'autore che di storia ne sa tanto.. ma non ha nessun elemento oscuro, violento o dark.. c'è anche poca azione, molto scontata, per niente gore o macabra.. Se lo avessero chiamato romanzo storico fittizio non l'avrei preso e non ci sarei rimasto male.. Detto ciò, lo stile mi piace sempre tanto, ma la trama banale e sempliciotta, unito a un atmosfera molto cialtronesca non mi hanno fatto apprezzare per nulla questo romanzo.. ripeto, non è scritto male, affatto.. ma non posso dare un voto più alto per una trama così insulsa e spesso fagocitata da dettagli inutili..
Una cosa che mi lascia ultimamente spesso basito, è come molti autori italiani che col primo romanzo avevano osato con crudezza e oscurità, poi virino su un approccio più pulito e leggero,di certo di più facile approccio alle masse, spacciandolo per dark e grimdark perché fa figo, perdendo però, per mia sola opinione personale per carità, di originalità e di capacità di osare!! Forse sarà anche colpa degli editori che puntano più a un target giovane e leggero.. Peccato
Dopo aver narrato le gesta di Riccardo da Malarocca, torna Lorenzo Manara con il secondo romanzo che si immerge nei putridi acquitrini dell'Italia medievale. Leone di Forteschio è un cavalier poeta che vaga per le paludi marce in cerca di gloria. Fiammetta, la signora di Ranacchio, gli assegna il compito di portare i carri pieni di morti al cospetto del vescovo, perché le terre di Ranacchio son ormai piene di sepolture, l'odore della morte si sente ovunque ma l'arcidiacono non vuole saperne di smettere di mandare carri pieni di defunti, anche se non c'è più spazio per seppellirli. A seguire Leone per le terre sudicie e ammorbate ci sarà un'intera schiera di "non morti" che poco a poco prenderanno a cuore la sua canzone, storpiata e usata come inno per insorgere contro l'oppressore. Leone è un protagonista davvero umano e con il quale è facile empatizzare. Sbaglia molto, viene frainteso, a volte si arrende troppo presto ma cerca di rialzarsi, ogni volta, dal fango in cui è caduto (e non solo metaforicamente). Il libro è scritto con stile scorrevole e limpido, i personaggi sono memorabili. Ma la cosa che mi è piaciuta di più è il senso profondo del titolo. Leone si trova a comporre pochi versi di fretta, perché è in pericolo di vita, e non ne è soddisfatto. La canzone parla di sangue e di morti, mentre lui avrebbe voluto narrare di ben altre cose, più nobili, come i capelli lucenti della signora di Ranacchio... Eppure, anche se i versi che ha composto non gli garbano, il popolo li ama. Il popolo li canta, ne fa il proprio inno, e li rende strumenti di sacrificio supremo contro il tiranno. Ecco quindi che l'artista deve fare pace con la propria arte, anche se non è del tutto soddisfatto. Perché, in fondo, se piace al popolo, ha comunque raggiunto il suo scopo. Questo non è l'unico concetto profondo nascosto in questo libro. Vi consiglio di leggerlo per scoprire altre sfumature di un passato che credevamo perduto e che, grazie alle suggestioni dell'autore, ora possiamo rivivere.
Questa è la domanda che ricorre per tutto il romanzo e il motivo è presto detto: pare che i morti abbiano ricominciato a camminare sulla terra.
Con questo macabro presagio ci immergiamo in un'ancor più macabra avventura, con il povero Leone di Forteschio, cavalier poeta, che si ritrova a guidare un convoglio di tre carri strabordanti di cadaveri per risolvere una disputa legale.
Alla scrittura asciutta e concreta di Lorenzo Manara, che già avevo apprezzato in "La stirpe delle ossa", si aggiunge un protagonista decisamente più amabile del signore di Malarocca*, cosa che mi ha permesso di procedere ancora più spedita con la lettura. Non posso farci niente, amo i personaggi ottimisti, che cercano di vedere del buono anche nella più tragica delle situazioni.
Un'altra novità è la componente romance, che è molto (MOLTO) leggera, ma porta una ventata di zucchero che ho apprezzato.
Carina anche la rivelazione che... non dico niente per non rovinare la sorpresa, ma mi sono piaciute le implicazioni psicologiche sottese a tutto il discorso delle leggende e delle forze soprannaturali che hanno guidato Leone per buona parte della storia.
*nota: non è necessario aver letto "La stirpe delle ossa": si tratta di due storie separate, ma essendo ambientate nello stesso mondo si trovano tanti elementi che chi ha letto il primo apprezzerà sicuramente.