«In questi racconti abitati da melodrammatici fantasmi d’antan, da Passioni misteriose e da riunioni di famiglia in cui è ospite la Morte, la Ortese capovolge le coordinate della realtà come nelle fiabe romantiche di Tieck e di Chamisso, e fa circolare nelle storie l’inverosimile con una naturalezza assoluta. In uno scenario ancora ottocentesco di salotti pieni di “buone cose di pessimo gusto”, la Ortese mette in scena un suo teatro dei burattini dove Amore e Morte bevono il tè in tazze di porcellana e lo scugnizzo-monaciello e la sua amante-madre possono rinchiudersi in un armadio per dirsi la loro passione. Sotto le sue mani i morti tornano a vivere, il Gran Verme diventa un servo da commedia degli equivoci e la morte è sconfitta dall’Amore».Giuseppe Montesano
Born in Rome in the year 1914, Anna Maria Ortese grew up in southern Italy (primarily Naples) and in Lybia, the fifth of nine children of a soldier's family often short on money. Like many poor girls of her generation, Ortese left school at age thirteen, initially with the idea of studying (and then, teaching) music in mind; until the discovery of literary romanticism, particularly the writings of Edgar Allan Poe and Katherine Mansfield, and her need for creative self-expression made her turn to writing.
She eventually studied with Massimo Bontempelli, proponent of the "magical realism" she herself would soon make her own as well, and in 1937 published her first collection of short stories, entitled "Angelici Dolori." Her work garnered her native Italy's most prestigious literary prizes (most notably, the 1953 Premio Viareggio for the collection of stories "Il Mare Non Bagna Napoli" – published in English under the title "The Bay Is Not Naples" - and the 1967 Premio Strega for the novel "Poveri e Semplici"), and she is considered one of the foremost Italian writers of the 20th century.
I was drawn, just now, to reading these two early short stories--submitted to literary contests and published in journals--by Ortese mostly because just having just recently finished her semi-autobiographical novel, La porta di Toledo, I was curious to see how close she came there in the descriptions of her protagonist's early works of literature to describing her own actual early works of literature. Of course the oneiric flavor that haunts most of Ortese's writing is here, but it's like each text is itself a dream within a dream, at least two steps away from what we poor mortals call reality. Of course the flavor of the writing is quite familiar, even between these early efforts and the late work of the Toledo, but they are wholly seperate dreams, seemingly in the minds of distant dreamers.
As for the two tales, I preferred the second, "Il fantasma," to the "Monaciello." Probably because the latter was more specifically and obviously dreamlike. The figure of the little monk seems richer in Neapolitan folklore than this tale of a slightly spoiled outsider or bad-boy beloved by what Italians call the "bambina-madre," or the child-mother (basically a little girl who plays at being a mother). The bad boy in me resented the narrator's attempts at civilizing the creature--who I wanted badly to be more than a mere orphan, to be something sacred and mystical, deformed and supernatural, as folklore suggests.
"Il fantasma" dealt surprisingly directly with Death in the form of a servant character, susceptible to the charms of music. Much more intriguing as a tale.
con protagonista un personaggio del folclore napoletano, “il monaciello di napoli” si configura per me tra i libri di conforto. si tratta una lettura leggera, tenera, arricchita da una scrittura scorrevole ma non banale, dolce nelle immagini che crea.
Una Ortese ancora un po' acerba che si sta preparando per quel suo grande capolavoro che sara' Il cardillo addolorato, ma sempre struggente, stilisticamente bello ed intrigante.Avrei preferito un Monaciello un poco piu' lungo pero', mi ha lasciato con la voglia di sapere il seguito della storia!
— quando la passione ci agita, noi crediamo che il fragore angoscioso di quelle onde debba necessariamente raggiungere gli astri: non riflettiamo ch'è invece sì piccolo, sì lieve nel gran mondo il rumore di un'anima.
"L'ingresso nella nostra cultura del pensiero francese; i progressi della scienza che mirava con un impetuoso colpevole entusiasmo a demolire le credenze nell'irreale che era tanta parte della nostra vita; e infine i provvedimenti di Santa Chiesa che mettevano in guardia i fedeli contro questi <>, tutto questo complesso di motivi [...] infliggevano un grosso colpo a quella innocente masnada". Così scrive Anna Maria Ortese nel suo volumetto dal titolo "Il Monaciello di Napoli", apparso per la prima volta in varie puntate nel 1940 sul mensile <> e, a seguire, fra il '41 e il '42, "Il Fantasma". Due simboli di un passato soffocato, come lascia intendere la stessa Ortese, dall'arroganza razionalistico-illuminista prima, positivistico-scientista poi e non ultimo da una certa Chiesa istituzionale postunitaria che per molto tempo ha teso a demonizzare tutto ciò che di veramente spirituale si conservava nelle cosiddette culture "subalterne". E così i monacelli, gli spiriti della notte, i fantasmi e tutta una serie di figure che tormentavano e consolavano l'uomo sono di colpo spariti, lasciando spazio al nostro disilluso, piatto e inconsolabile vivere. Nonostante ciò, negli anni '40, in pieno regime fascista, una scrittrice dalla prosa finissima riesce a farsi bambina, forse anche per sfuggire all'orrore di quel triste periodo storico, e ritrova nell'armadio dei suoi pensieri, ben nascosto al mondo, il dispettoso monaciello Nicola al quale lei faceva da madre, o tale voleva sentirsi, accudendo amorevolmente l'indomito lare, in una casa enorme, infestata anche dalla presenza di alcuni fantasmi, come quello dello zio Alberto, morto di tifo durante la Prima Guerra Mondiale, ma soprattutto morto di un amore non corrisposto che, però, gli fece partorire nella tomba due figli, morti anch'essi come lui: Ines, la piccola sognatrice, che attendeva da decenni ormai la nascita del suo sposo re, ed Ariele, il musicista <<...generato dalla divina Madre il cui linguaggio non ha risposta>>. L'autrice, come una nonna d'altri tempi, narrando al nipotino immaginario le oniroidi vicende vissute nella dimora paterna quando era quasi un'adolescente e già orfana di madre, conduce il lettore in un mondo perduto e lontano, di cui lei avverte ancora il bisogno narrativo e invita tra le righe gli altri a riguadagnarlo, per non rischiare di perdersi nell'arido intellettualismo scientista che affliggeva l'uomo del suo tempo ed ancor più quello del nostro tempo, privo com'è di ogni forma di vitalismo demoniaco (in senso socratico s'intende) che possa indurlo a meravigliarsi di tutto e a consolarsi con gli spettri del proprio orizzonte interiore, anziché fuggirli quando la realtà gli riesce ostile, perchè non muoia vivendo, ma impari a vivere sognando. Per fortuna dalle mie parti qualcuno ancora li vede i monacielli e continua ancora a sognare i morti.
Due racconti brevi - Il monaciello di Napoli e Il Fantasma - legati dal filo conduttore delle creature che vivono ai margini della società, da atmosfere cupe, da un’umanità viziosa, grottesca, condannata. Fanno pensare ai dipinti di Bruegel il Vecchio. Il primo racconto lega un Monaciello del folclore napoletano (uno gnomo/spiritello/bambino dispettoso) a una bambina/madre che se lo prende a cuore ed ha il tono dell’elegia malinconica, delle possibilità perdute. Il secondo racconto ha per protagonista un’altra bambina, alle prese con Morte stavolta, e parla dell’importanza della memoria (e dell’arte).
Una scrittura onirica, eterea, incipriata, che, se ne "Il monaciello di Napoli", primo racconto, si lascia attraversare dalle suggestioni del folklore partenopeo, ne "Il fantasma", diventa quasi evanescente, al punto di perdersi. Ho preferito Ortese nella sua versione più sociale, come nelle scritture de "Il mare non bagna Napoli".
Questo è stato il mio primo approccio con la prosa di Ortese e ne sono rimasta deliziata. Voce fuori dal coro, il secondo racconto mi è piaciuto più del primo.
Il libro è una raccolta di due racconti: Il monaciello di Napoli e Il fantasma, due povere creature che vivono ai margini della società, inseriti in un’atmosfera cupa e raccontati con una scrittura peculiare. Il mio voto complessivo è di tre stelle perché il primo racconto è gradevole, mentre il secondo invece è più lento e pesante da leggere.
Il volume contiene due racconti, il primo (il cui titolo è proprio “Il monaciello di Napoli”) del 1940 e il secondo (intitolato “Il fantasma”) pubblicato a puntate tra il ‘41 e il ‘42.
Il primo mi è piaciuto davvero molto poiché ha proprio le sembianze di un vecchio racconto di una persona anziana, tra realtà e finzione, una storia da raccontare seduti in poltrona mentre si sorseggia una bevanda calda dinanzi al caminetto acceso. Il secondo, invece, l’ho trovato poco accattivante. Ci ho messo diverse pagine per poter entrare nel senso della storia e nel complesso lo ricollego più a un esercizio di stile piuttosto che a un tentativo di raccontare qualcosa.
(Tre stelle perché Ortese è Ortese e ha una capacità di farti vedere le cose straordinaria, un’eleganza nello scrivere che ti incanta)
non so, io con Anna Maria Ortese non ci vado d'accordo. mi serviva leggere questo libro per la tesi e l'ho letto, sono comunque due racconti. Il primo mi è piaciuto abbastanza mentre il secondo lascia un po' a desiderare. c'è qualcosa nell'autrice che non mi fa entrare in empatia per qualche motivo..