Negli ultimi dieci anni il femminismo è tornato a essere un fenomeno di massa, colorando di rosa i simboli dell'emancipazione femminile e delle nobili cause a essa associate. Spesso però sotto questo colore si nascondono operazioni opache. Un femminismo addomesticato, affine agli interessi di politici e aziende, è davvero femminismo? Ma soprattutto questa versione mainstream è una variante del femminismo o una strategia del capitalismo?
Oggi a un'adolescente basta aprire Instagram per imbattersi in riflessioni femministe (o pseudofemministe), risparmiandosi la necessità di unirsi a un collettivo o a un gruppo di autocoscienza. Brand di abbigliamento si improvvisano femministi e producono magliette in serie con frasi inneggianti al girl power. Pagine social e piattaforme digitali graficamente accurate alternano post o storie motivazionali a inserzioni pubblicitarie. Innumerevoli servizi immateriali propongono corsi sull'empowerment, sulla valorizzazione femminile, su come rendere piú women friendly il proprio business. Inoltre l'ossessione recente per le celebrity femministe promuove l'idea che un certo tipo di femminismo sia da mettere in soffitta per fare spazio a un femminismo nuovo, egemonico, che nasconde sotto il tappeto i pensieri piú radicali e si fa portatore di valori positivi, anche se profondamente contraddittori. Come scrive Jennifer Guerra in questo saggio acuto, la recente riemersione del soggetto politico femminista in un paradigma economico che non si fa scrupoli a capitalizzare i temi sociali in nome del profitto ci pone di fronte a delle sfide nuove. Il primo nodo da sciogliere è se le aziende e i marchi si meritino il «patentino» del femminismo e il secondo, forse piú impegnativo da sbrogliare, riguarda l'influenza che la nuova postura della brand identity esercita sulla pratica femminista. Per tentare di dare una risposta a queste domande, è necessario capire come si è arrivati a questo punto.
Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia. Attualmente vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
Un saggio lucidissimo su come il femminismo si sia evoluto nel contesto italiano e internazionale, con un'ottima cronologia dei fatti più importanti che hanno segnato la così detta "quarta ondata", cioè quella che stiamo vivendo.
La riflessione di Guerra porta quindi a interrogarsi, dopo questa prima parte di introduzione, sulle varie forme di femminismo nella società contemporanea e su come possano convivere con l'ideologia neoliberale, capitalista e quindi profondamente anti-femminista, che però tende ad appropriarsi dei discorsi femministi per fini commerciali, rendendoli innocui e privi di impatto reale.
Guerra evidenzia come il concetto di empowerment sia stato distorto nel contesto attuale, trasformandosi da un sostegno concreto per le donne in situazioni di vulnerabilità in un ideale di potere e successo individuale. Questo processo ha portato alla commercializzazione dei valori femministi, con aziende che utilizzano il femminismo come un pretesto per vendere prodotti e costruire la propria "brand identity".
Guerra invita quindi a riflettere criticamente sulle dinamiche di potere e di controllo presenti anche all'interno del movimento femminista stesso, esortando i lettori e le lettrici a non cadere nella trappola della perfezione e dell'auto-miglioramento costante imposto dalla società contemporanea. Sottolinea l'importanza di resistere alla mercificazione del femminismo e di mantenere vive le sue radici di solidarietà, empatia e lotta: il femminismo è una festa, il contrario della solitudine.
Avevo letto anche il Capitale amoroso e, nella sua brevità, c'erano diverse cose che mi erano piaciute. Qui direi che vale lo stesso principio, con l'aggiunta che credo l'autrice sia maturata parecchio in termini di profondità della scrittura e della ricerca.
Il libro ha un piglio molto giornalistico e pop: c'è molto degli anni Novanta/Duemila e una buon trattazione di episodi recenti che hanno catalizzato discussioni globali. Credo abbia anche dei buoni spunti sotto il profilo dell'evidenziazione delle contraddizioni della cultura pop e della spinta capitalistica alla responsabilizzazione del sè, dove i fallimenti eco-sociali sono caricati sul singolo.
Penso che i primi capitoli siano decisamente più deboli di quello che viene dopo, un po' perché trattano discorsi in cui davvero aggiungono poco di nuovo, un po' perché mi pare che, al di fuori delle diverse menzioni che l'autrice fa alla comprensione del concetto di intersezionalità - di cui offre più avanti nelle pagine una buona analisi storica - tutto sia proiettato in un'ottica occidentalocentrica (e, particolarmente, americana). In parte, immagino di capire da cosa deriva (che è molto subdolamente una questione di vastità e accessibilità dei materiali, quando si fa ricerca), ma credo esistano allo stato, anche in sola lingua inglese, tantissime autrici ed altrettanti elementi di cronaca che potrebbero arricchire il discorso.
Devo anche dire che talvolta non ho compreso totalmente se l'autrice non prenda volutamente posizione (o ignori proprio il tema) delle dimensioni controverse di certe figure, vedi la stessa Chimamanda Ngozi Adichie o il "femminismo pret-a-porter" di Maria Grazia Chiuri. Ipotizzo che risponda ad uno dei cardini di chiusura del saggio, in cui si evidenzia come il discorso femminista non si accresca all'interno di una dimensione che spende le energie di critica verso lo stesso multi-sfaccettato universo femminista. Tuttavia, ammetto che, sotto una prospettiva di trattazione quasi giornalistica, trovo che questo renda la trattazione più piatta o per lo meno "unilaterale".
Tra i migliori pregi che ci vedo c'è pescare alcuni esempi dei primi anni 2000 (vedi la storia di Amoruso e #girlboss) che trovo siano stati "facilmente dimenticati". A volte, l'impressione è che l'estetica e strategia social delle generazioni più giovani sia immersa di tributo all'auto-aiuto, al dispensare consigli navigati di business e vita a 22 anni e all'idolatrazione della parabola di celebrità propria e altrui. Una situazione che mi fa poco sperare rispetto all'assorbimento di quanto si può già trarre dei "fallimenti capitalistici" delle vite dei millenials.
In conclusione, penso che Jennifer Guerra sia un'autrice valida, che scrive in maniera molto chiara, e che diversi dei suoi libri possano essere uno spunto di partenza per chi si approccia alle tematiche della radice capitalista del patriarcato. Considerata la linearità della scrittura, per me sarebbe davvero bello pensare che titoli così vadano anche dentro le scuole.
Interessante, ho letto già una recensione che rispecchia come mi sento al riguardo. Non c'è molto da dire o pretendere, alla fine l'autrice scrive solitamente opere del genere, ovvero saggi impegnati per fare da guide per un'audience che ha molto da imparare.
Però una cosa la volevo dire: il meme del sole e l'esempio del carlino roba da quinta elementare. Però, ahimè, che ci posso fare.
Leggere e ascoltare Jennifer Guerra è sempre un piacere. Le sue osservazioni sono sempre precise e mirate, il punto di vista sempre quello di chi è arrivata da un paesino sperduto nel Nord e cerca di capire a modo suo come girano le cose nel mondo. Può sembrare banale, ma non lo è. Soprattutto quando ci si ritrova a essere sole nel pensare e vivere in un determinato modo, Il femminismo non è un brand è l’esempio di come si può spiegare in modo semplice ciò che può risultare scontato.
Un saggio che stimola il pensiero critico esplorando la relazione tra il femminismo e il capitalismo nell'era moderna, la professionalizzazione dell'attivismo (soprattutto attraverso l'uso dei social), lo svilimento del concetto di empowerment e l'inutilità del pretendere di assegnare "patentini" di femminismo.
L'autrice esamina come il concetto di femminismo sia diventato spendibile dalle aziende per fini commerciali, svuotandolo di significato e restituendone una versione mainstream edulcorata e strategicamente fruibile dal capitalismo.
Questo concetto non è nuovo, ma è affrontato da Guerra con minuzia bibliografica e argomentativa, anche attraverso vari esempi del presente. L'ho trovato però un po' troppo orientato alle esperienze statunitensi, avrei preferito un'analisi più dettagliata della situazione italiana.
Interessante l'analisi relativa alle celebrità che si definiscono femministe e di come esse promuovano spesso una versione di femminismo addomesticato e in linea con gli interessi del marketing, sfruttando un tema sociale per profitto ed eliminando la parte pratica e di impegno collettivo, non riducibile a degli slogan brandizzabili.
Incoraggiando un approccio più autentico e impegnato, che contribuisca al cambiamento sociale e all’emancipazione femminile, Guerra sottolinea la necessità di un femminismo inclusivo che si occupi delle questioni di tutte le donne (non solo di quelle che hanno già accesso a certi privilegi) e delle varie minoranze coinvolte.
L'argomentazione proposta è molto equilibrata e di facile lettura, questo lo rende un saggio di facile accessibilità, utile soprattutto per chi è ai primi approcci con l'argomento.
A mio parere il saggio è più adatto ad un* neofita dei femminismi. Quello che ormai ho notato nei saggi di Guerra, avendone letti tre, è che l'autrice tende a fare un lavoro compilativo, limitandosi a riportare le tesi altrui. Infatti le conclusioni del libro, che offrono il punto di vista personale di Guerra, sono la sezione più interessante del libro. Sono consapevole che parlare di femminismo non è semplice, ma personalmente trovo il libro troppo un pot-pourri di temi diversi. Sarà per via del titolo e della copertina, ma mi aspettavo un maggiore focus sul Pink washing e su case studies commerciali.
In questo saggio la giornalista e scrittrice Jennifer Guerra indaga su come il femminismo venga utilizzato come uno strumento per vendere, come un valore aggiunto per rendere un prodotto più appetibile alla clientela femminile. Il problema è che il femminismo non è un brand perchè è un movimento politico che mira a cambiare lo stato delle cose, mentre il brand non ha questo interesse (ha anzi una tendenza conservativa, volta a rassicurarci che va tutto bene così com'è).
Ho apprezzato la presenza di molti casi studio interessanti e ben documentati, mentre ho faticato talvolta nel cogliere la visione d'insieme: si parla trasversalmente di molti argomenti, dalla brevissima storia del femminismo al movimento #MeToo, dall'attivismo all'intersezionalità, dal divario salariale al gender mainstreaming, da Hilary Clinton a Beyoncé. Il saggio è ben scritto, ma talvolta a mio avviso si perde un po' e la conclusione, per quanto lasci un lieto fine e per questo mi sia piaciuta, credo non riesca nell'intento di tirare le fila.
Il capitolo che "mi porto a casa" è senz'altro quello sul #MeToo, movimento che ha avuto il grande merito di aver portato consapevolezza sulla violenza di genere e sul linguaggio. Interessante la riflessione di Guerra sul fatto che il movimento responsabilizzi le donne più degli uomini: il consenso affermativo pone l'enfasi sul fatto che la donna "dica di sì" a una proposta, senza responsabilizzare in contemporanea l'uomo. La tesi di Guerra è che la violenza di genere va riconosciuta necessariamente come "sistemica" perchè la paura di uscire di casa da sola, di essere ricattata sessualmente dal proprio datore di lavoro, di essere giudicata dai colleghi per l'aspetto fisico ecc... non rendono la donna un'interlocutrice valida e di pari dignità di un uomo. In generale, Guerra denuncia la tendenza dilagante ad attribuire alla singola donna dei problemi in realtà sistemici. Un esempio lampante è la sindrome dell'impostore: perchè le donne non riescono a fare carriera? La narrazione che ci tocca spesso sentire, anche da altre donne che "ce l'hanno fatta", è che non credono abbastanza in loro stesse, non che ci sia un sistema discriminatorio alla base!
Ho apprezzato anche la conclusione, "contro il femminismo della mortificazione", nel quale Guerra parte da un episodio personale per concludere con un messaggio di sorellanza. "Il femminismo non è una gara a chi si mortifica di più. Il femminismo non è ostracizzare chi si comporta male o non risponde ad arbitrari standard di perfezione morale. Il femminismo è una festa. E' il contrario della solitudine".
Un testo interessante sotto il profilo divulgativo: si comprendono le tappe temporali che hanno portato alla nascita dell'odierno, insopportabile marketing che si serve delle istanze femministe, manifestazione a sua volta dell'inconsistente femminismo liberal. Tuttavia, dal punto di vista della riflessione, le conclusioni a cui si giunge non sono così ficcanti; chiunque abbia una conoscenza base del femminismo potrebbe giungere alle stesse riflessioni, quindi nel complesso mi aspettavo di più.
Testo interessante, non mi ha convinta molto il grado di approfondimento, talvolta troppo superficiale, dando per scontati e assodati dei concetti e/o della terminologia che invece andrebbe esplicata al lettore (soprattutto perché quando ciò viene fatto il lettore ne esce arricchito).
Indubbiamente l'argomento affrontato è molto vasto e credo che l'intento dell'autrice non fosse quello di realizzare un trattato, molti spunti interessanti e stimolanti. Consigliato anche agli uomini perché il femminismo è una festa!
Dopo una breve introduzione sull’origine dei movimenti femministi, vengono esposti i principali rischi della loro strumentalizzazione, citando come esempi concreti alcuni eventi degli ultimi anni.
Non male come testo di approccio al tema; forse un po’ troppi argomenti troppo poco approfonditi, quasi come un elenco più che una vera argomentazione. Motivo per cui ho apprezzato di più le conclusioni, in cui c’è un’effettiva presa di posizione dell’autrice.
“Il femminismo non é una gara a chi si mortifica di piú Il femminismo non é ostracizzare chi si comporta male o non risponde ad arbitrari standard di perfezione morale Il femminismo é una festa, é il contrario della solitudine”
"Il femminismo è una festa. Il femminismo è il contrario della solitudine". Guerra potentissima in questo saggio scorrevole e carico di spunti di riflessione. Bibliografia interessantissima.
Indecisa se dare 3.5 o 4 Libro breve ma non per questo superficiale, una bibliografia ricca e accompagnata dal racconto preciso di eventi recenti che permettono di sostenere le tesi sostenute dalle autrici citate. Saggio di carattere generale, non approfondito sulla tematica ma che stimola alla riflessione etica e una volta finito il libro vorresti coinvolgere quante più persone nella lettura per poterne discuterne insieme e arricchirsi ulteriormente. Fra i pensieri trasmessi penso che me ne porterò a casa un paio importanti: - il femminismo è fatto dalle persone e quindi può sbagliare - il femminismo è il contrario della solitudine, è una festa da non dimenticare. Aggiungo che il femminismo è cura anche se spesso sembra una gara per la conquista del titolo di "femminista pura 100% certificata" Grazie per questo bel libro Jennifer
È vero che, se a leggere questo saggio è una persona con già una buona conoscenza del femminismo, non imparerà tantissimo, tuttavia si chiarirà numerosi aspetti e saprà guardare con sguardo più critico e informato i diversi tipi di femminismo e di discorsi sul femminismo. Guerra infatti analizza l’evoluzione del femminismo e numerose sue concretizzazioni (o in movimenti o in singoli individui) al contempo nell’alveo del dibattito ideologico e in quello del contesto economico. Il problema principale che emerge è il ricorso di aziende e attori economici al concetto di femminismo (ovviamente un femminismo addomesticato, non in contrapposizione allo status quo, ma parallelo, in dialogo) per estrarne valore e accaparrarsi una fetta di mercato. Se in questo modo il femminismo si diffonde molto di più, perde tuttavia al contempo vigore e si muta, o persino deteriora, limitandosi all’acquisto di oggetti e servizi che da soli dovrebbero farti sentire emancipata o libera di scegliere. In altre parole l’oppressione patriarcale viene totalmente o quasi ignorata e si punta tutto sulla soddisfazione personale, come se il farcela fosse unicamente dovuto alle proprie capacità e attitudini. Guerra analizza molto bene tutti questi aspetti e sfumature, senza un giudizio di è giusto o sbagliato, ma semplicemente contestualizzando cosa è femminismo e di che tipo, nonché quale tipo di femminismo può ambire a quale impatto sulla società e sull’economia, quale possiede davvero un potenziale trasformativo elevato (ad esempio una star femminista, per quanto possa guadagnare alla causa molte fan, al minimo passo falso, abbastanza inevitabile visto l’imperfezione degli esseri umani e il severissimo scrutinio su certe figure pubbliche, rischierà di far crollare tutti i benefici che ha portato, screditando al contempo il femminismo). La conclusione è che servirebbe un femminismo al 99% (cioé di massa e non demandato a poche personalità in vista), meno concentrato a criticare le varie incongruenze delle altre femministe (o degli altri femministi), ma focalizzato a unire gli sforzi per rivoluzionare un sistema (quello neoliberale e capitalista) in cui non potrà mai davvero realizzarsi il femminismo (e qualsiasi altra forma di eguaglianza). L’unica perplessità me la lascia la conclusione, dove Guerra difende la possibilità di concedersi sfizi (nel suo caso un carlino, molte borse, l’iphone, …) pur rimanendo femministe convinte e combattive. Se è senz’altro vero che non sono quegli sfizi a minare la serietà d’intenti e l’impegno per la causa di un-a femminista, è altrettanto vero che il sistema neoliberale, capitalista e consumista lo si sconfigge, secondo me, solo in un modo, perché affidarsi alla responsabilità delle stesse aziende o all’intervento della politica (che da tale sistema ha solo da guadagnarci) è assai poco utile: boicottare il sistema, partecipandovi il meno possibile. Non parlo naturalmente di sacrificare tutto e andare a vivere nei boschi come un eremita, ma di ridurre al minimo qualsiasi spesa che non sia necessaria, qualsiasi concessione al sistema che non sia essenziale, nonché di impegnarsi a effettuare tali spese e concessioni il più possibile nei confronti di aziende che sono genuinamente sostenibili. Finché non si fa così, solo un collasso catastrofico del pianeta potrà portare a veri cambiamenti. Tolto questo neo, Guerra è molto acuta nell’evidenziare quanto qualsiasi posizione, discorso o azione femminista si muova sempre su un terreno insidioso, in cui facilmente può, oltre ai benefici, causare danni, e a fornirci uno sguardo capace di analizzare tutte le implicazioni e di contestualizzarle.
L'ennesimo, interessantissimo libro sul femminismo, la sua storia e la sua rappresentazione. Perdoname madre por mi vida loca (ultimamente leggo solo libri a tema femminismo, D&I o romanzi che parlano di scrittura).
Ma senza divagare: questo è un saggio lucidissimo su come il femminismo si sia evoluto nel contesto italiano e internazionale, con un'ottima cronologia dei fatti più importanti che hanno segnato la così detta "quarta ondata", cioè quella che stiamo vivendo.
La riflessione dell'autrice porta quindi a interrogarsi su come possano convivere con l'ideologia neoliberale, capitalista e quindi profondamente anti-femminista, che però tende ad appropriarsi dei discorsi femministi per fini commerciali, rendendoli innocui e privi di impatto reale. Di fatto ci fa capire che cosa significhi essere attivisti al giorno d'oggi, con una lucidissima riflessione -molto ben inserita nel contesto storico del movimento, tra l'altro.
Guerra evidenzia come il concetto di "empowerment" sia stato distorto nel contesto attuale, trasformandosi da un sostegno concreto per le donne in situazioni di vulnerabilità in un ideale di potere e successo individuale. Questo processo ha portato alla commercializzazione dei valori femministi, con aziende che utilizzano il femminismo come un pretesto per vendere prodotti e costruire la propria "brand identity" - vedi l'esempio di FREEDA, oppure di GIRLBOSS (di Sophie Amoruso, e di come abbia creato aggettivi e stereotipi nuovi sulle donne "Bossy")
L'invito è quello alla riflessione critica sulle dinamiche di potere e di controllo presenti anche all'interno del movimento femminista stesso, esortando i lettori e le lettrici a non cadere nella trappola della perfezione e dell'auto-miglioramento costante imposto dalla società contemporanea. Sottolinea l'importanza di resistere alla mercificazione del femminismo e di mantenere vive le sue radici di solidarietà, empatia e lotta: il femminismo è una festa, il contrario della solitudine.
Il saggio, nel suo complesso, non mi ha colpita. Che il capitalismo-cannibale abbia fagocitato alcune istanze della lotta femminista, proponendone una versione addomesticata e socialmente accettabile, non è una novità. Guerra offre una visione panoramica del fenomeno, analizzando le tante sfaccettature tramite cui quest'opera di addomesticamento si manifesta nella contemporaneità: dal fierce feminism di Beyonce alla professionalizzazione dell'attivismo, dal depotenziamento del concetto di empowering al #girlbossing. Questo ampio ventaglio di esempi a sostegno della tesi è sicuramente uno dei pregi del libro. La sensazione, però, è che l'autrice proceda per accumulo - che manchi, insomma, una struttura argomentativa coerente e rigorosa. Guerra può sicuramente vantare una solida preparazione (la bibliografia lo dimostra), ma l'impressione è quella di leggere una tesi compilativa: una collezione di idee già note, presentate per enumerazione più che messe a sistema. Le ultime pagine sono forse le più interessanti, nonostante lo stile lezioso. Nel finale, Guerra rivendica il diritto di assecondare i propri desideri, anche e soprattutto materiali, senza che questo la trasformi in una cattiva femminista. Del resto, una volta riconosciuto il nostro privilegio, che cosa dobbiamo farcene? Dobbiamo mortificarci, come a espiare una colpa originaria? Questo vorrebbe il femminismo neoliberale, che trasforma la carica trasformativa e dirompente della lotta femminista in un vuoto percorso volto all'auto-perfezionamento. Secondo Guerra, invece, "il femminismo non è una gara a chi si mortifica di più. Il femminismo non è ostracizzare chi si comporta male o non risponde ad arbitrari standard di perfezione morale. Il femminismo è una festa. E' il contrario della solitudine". Ecco: questa decisa riaffermazione della dimensione collettiva della lotta femminista attraversa tutto il libro, facendo da collante laddove l'impianto argomentativo non riesce a tenere insieme la riflessione.
Il tema mi interessa molto ma da questo saggio mi aspettavo qualcosa di più.
Inizialmente l’ho trovato piuttosto noioso e troppo compilativo, a tratti sembra una tesina in cui ci si limita a mettere giù cose per far vedere che è stata svolta una ricerca.
Poi però entra nel vivo del tema e anche qui però lo fa in modo parziale e abbastanza superficiale a mio avviso (avendo seguito un corso di marketing non ho trovato informazioni che non avessi già sentito). Alcuni passaggi sono molto interessanti, ad esempio quello sulla sindrome dell’impostore. Però per il resto non ho trovato nulla di eclatante.
L’effetto principale che ha avuto è stato quello di allungar la mia lista di libri da leggere grazie alle fonti che ha citato.
La parte finale con l’esempio del carlino (e il conseguente auto assolvimento) non mi è piaciuta per niente. Capisco il messaggio che voleva trasmettere l’autrice sulle contraddizioni inevitabili, e in parte lo condivido anche, ma non poteva scegliere esempio peggiore per comunicarlo. Mi è sembrato solo un modo per giustificarsi e, appunto, auto assolversi di fronte alle critiche che ha ricevuto anziché prendersi la responsabilità delle proprie scelte contraddittorie.
Ho dato tre stelle perché trovo che il saggio sia accurato, ben documentato, con molti esempi e spunti di riflessione, insomma, apprezzo il gran lavoro che c'è stato dietro, e inoltre il tema della strumentalizzazione del femminismo è affrontato da ogni prospettiva, in un approccio molto ampio. Purtroppo, l'ho trovato molto noioso e pesante, poco interessante nonostante il potenziale. L'atteggiamento dell'autrice, di cui peraltro avevo già letto altri due saggi e che apprezzavo, è dal mio punto di vista estremamente intransigente nei confronti di ogni alternativa al femminismo duro e puro, di ogni forma più popolare e accessibile, e io sono di un altro avviso. In più, averla ascoltata leggere il suo libro è stata un'esperienza che ha di molto inficiato il piacere dell'ascolto: interpretazione piatta, non professionale (per forza di cose) e le numerose pronunce inglesi sono davvero.. Poco inglesi. E' stato faticoso arrivare fino alla fine, per poi scoprire che a questo getto continuo di critiche non segue nessuna proposta costruttiva. Deludente, per non parlare delle conclusioni, molto personali e che quindi cerco di non giudicare, ma che non ho potuto fare a meno di trovare irritanti.
Un saggio complesso che parte dalle definizioni di femminismo, di neoliberalismo e di post femminismo al fine di porre le basi sul discorso successivo. Nel seguito del libro viene evidenziato come il femminismo si sia nel tempo istituzionalizzato, intrecciandosi sempre di più con i meccanismi legati al potere, al capitalismo e al consumismo generale. L’autrice affronta moltissimi temi (forse troppi), spaziando dai brand che usano il femminismo come strategia di marketing, alle problematiche della maternità, all’empowerment e alle celebrità femministe (per fare qualche esempio). A mio avviso è un testo po’ troppo denso e i cambiamenti di argomento sono a volte troppo repentini e, di conseguenza, non sempre tutti i i temi toccati sono approfonditi. Nonostante il discorso abbastanza approfondito sull’intersezionalità che arriva verso la fine del libro, ci si focalizza molto su storie di donne potenti e occidentali (soprattutto legate al contesto americano). La grande utilità del libro è quella di far comprendere la complessità del femminismo e dei meccanismi che lo intrecciano a fenomeni di più recente apparizione (come il pinkwashing).
Per certi versi è stato il tassello mancante nel capire il passaggio dal femminismo storico a quello pop odierno, per altri è stato troppo dispersivo. Cerca di affrontare troppi argomenti insieme, anzi a questo proposito il titolo "Il femminismo non è un brand" è fuorviante perché sembra promettere una critica al sistema neoliberale e capitalistico che fagocita le istanze femministe per risputarle come merce di consumo, o qualcosa di simile, e invece si parla di tutt'altro, troppo poco individualmente e che si risolve in un mix confusionario al punto che non discerni più qual è la tesi che viene portata avanti. Se fosse stato un saggio strutturato solo sul tema come da titolo - come Il Capitale Amoroso - avrebbe brillato perché di per sé le analisi sono interessanti e si trovano informazioni utili.
È un testo molto interessante e che si legge con facilità perché scritto molto bene. Jennifer Guerra ha un’ottima capacità esplicativa e i suoi libri, così come quello che scrive online in qualità di giornalista, li ritengo accessibili anche ad un pubblico non pienamente conoscitore della materia.
Le tre stelle derivano non tanto dalla sua capacità (per me indiscussa), ma dalla qualità del testo che, seppur interessante, mi è sembrato in alcuni punti un po’ ridondante e in altri poco approfondito. Consapevole del fatto che il suo intento non fosse quello di scrivere un saggio o un trattato, ritengo che il potenziale del libro non sia stato sviluppato a pieno. Per cui il mio è un sì, ma manca qualcosa.
“E una volta che l’abbiamo capito, quel privilegio, che l’abbiamo riconosciuto, analizzato, compreso e decostruito, cosa facciamo? Quel privilegio resta lí, e non possiamo farci niente. Certo, lo possiamo usare per impegnarci in buone cause o per redistribuire le nostre ricchezze, ma spesso queste iniziative servono piú a farci sentire persone migliori che a generare un vero cambiamento”
“Non possiamo trasformarlo in una colpa da espiare, in un destino ineluttabile che ci definisce in quanto esseri umani. Non possiamo sprecare le nostre energie a fare le poliziotte della coerenza quando là fuori c’è chi ci vuole morte.”
Un bell'excursus storico sul femminismo e la sua storia come movimento, mettendo proprio l'enfasi sulla parola movimento. La sua costante fluidità infatti è difficile da incasellare e sintetizzare, ma penso che Jennifer Guerra faccia un ottimo lavoro nel descrivere le complesse sfaccettature del femminismo e come la società contemporanea evolve insieme ad esso. Alcuni input mi erano già noti, altri no, o comunque non in maniera particolarmente approfondita, per cui sono decisamente soddisfatta di questa lettura. Sicuramente un'autrice da recuperare!
Bel libro. Non è facile parlare di femminismo senza usare slogan, frasi fatte, stereotipi. Jennifer Guerra parla del femminismo così com'è: contraddittorio e complicato. Non si scorda però di ricordare che il femminismo non è solo lotta, ma anche una festa e vivere con gioia le contraddizioni dell'essere donna. Sembrava ne avessimo fatto tanta di strada ottenendo il diritto al voto, il diritto al lavoro, il "diritto" di dover dimostrare di saper fare tutto e niente e in contemporanea, ma non abbiamo ancora il diritto di essere noi stesse. Dobbiamo sempre dimostrare qualcosa, giustificarci.
Un viaggio nel femminismo con accenni a eventi più vicini al presente (Hillary Clinton, Beyoncé, Bossgirl per dirne alcuni) per fare il punto sula situazione presente e sullo stato di una ancora necessaria emancipazione. Il fatto che siamo talmente permeat* dal patriarcato da non rendercene conto, che il capitalismo ha talmente frazionato le necessità da rendere difficile una rivendicazione omogenea e che in fondo quel che importa è riuscire a garantire al prossimo di stare bene con sé stess* nel rispetto del tutto. Più yogico che femminista!
Un libro femminista di quelli che mancano nel panorama italiano della quarta ondata. Serio, puntuale, pieno di fonti e comprensibile. Non é esente da posizioni ideologiche a mio avviso non condivisibili perché illogiche o fallaci, ma nel complesso é un bel saggio (UN VERO SAGGIO e non sedicente tale come quelli a cui la Murgia ci ha abituati), utile a comprendere moltissimi aspetti del movimento più strumentalizzato dell'ultimo quinquennio. La conclusione vale il libro intero.
Questo è un piccolo saggio divulgativo che racconta il rapporto tra femminismo e neoliberalismo, tracciando anche i punti salienti della loro storia. Essendo, appunto, divulgativo, non è molto approfondito, ma a me va bene così, perché sono attratta da questi temi, ma ancora troppo poco informata. Sicuramente, comunque, Guerra mi sembra una personalità molto interessante.
Una riflessione profonda e acuta sulla mercificazione dei valori femministi, indispensabile per la comprensione della situazione del femminismo oggi. Lo consiglio sia a chi vuole approfondire la storia del femminismo contemporaneo, sia a chi vuole comprendere meglio come agisce il mercato oggi rispetto alle nuove correnti in favore dei diritti delle minoranze e dell’ecologia.