Ruvida, aspra, la voce di Jacopo Iannuzzi squarcia il velo della narrativa italiana contemporanea. White People Rape Dogs è il romanzo di una gioventú che non conosce piú destini da compiere, solo improvvisi, volatili cambiamenti di rotta in una notte urbana senza stelle di riferimento.
Vincitore del premio Calvino.
«Iannuzzi scrive graffiando, ma i suoi sono graffi di luce, bassi pulsanti, sogni a occhi aperti». Mario Desiati
Un mondo popolato da personaggi allucinati e lucidissimi. Una storia di amori pericolosi e disordinati, di fughe e cospirazioni, il cui racconto si intreccia a momenti di violenta poesia che indagano i protagonisti sempre piú chiusi in sé stessi. Perché, dopotutto, senza le ossessioni che tentiamo di nascondere di noi rimane ben poco. L'esordio di uno scrittore impertinente, disperato, gioioso. Un talento.
Remo abita in un'imprecisata città del Nordest, indecisa fra la provincia e la metropoli, tra la montagna e il mare. Non studia, non lavora, eppure cerca di dare un senso alle proprie giornate, travolte dalle esistenze sconnesse dei suoi Jem, pronto a tutto per sfangarla, i cui progetti di riscatto sono destinati a un inevitabile fallimento; Pingu, che è normale quando è fatto e coltiva hobby macabri; Francoboy, il piú scentrato di tutti (o forse no?), invischiato in confuse vicende eversive. Questa routine della sregolatezza viene spezzata da Gioia, anima libera, intensa, che vende il proprio corpo online per mantenersi. Tra lei e Remo nasce qualcosa, e potrebbe essere qualcosa di nuovo, di diverso. Ma a volte basta una piccola crepa a impedire ciò che conta «sapersi ballare dentro, darsi vita». Sfacciato, struggente, White People Rape Dogs canta la bellezza dell'imperfezione al ritmo compulsivo della musica elettronica.
Che dire? Questo libro mi ha fatto sentire, come diceva Libero De Rienzo in A/R Andata e ritorno, “come se mi fosse sceso il cervello nel culo”.
Di questi cinque capitoli di divorzio dalla realtà, golden shower, violenza sugli animali, un rapporto col femminile che non si può definire incel per un vizio di forma e una strana ossessione per Kamala Harris, mi resterà il tormento di non sapere esattamente a che tipo di droga ci si riferisce col termine “drift”.
Ci vuole talento anche per rendere leggibile una storia che non é una storia, scritta perché non ci debba nemmeno sfiorare l’idea di voler sapere come va a finire, piena di personaggi di cui abbiamo sicuramente incontrato versioni migliori nelle nostre vite.
Però Arancia Meccanica é già stato scritto.
Non posso dare 3 stelle perché é un voto che di solito riservo a cose che mi garbano più di questa. Pazienza.
Dopo le prime 50 pagine mi è venuto a noia. E questo non tanto per lo stile piatto (è in fondo la cifra del libro e piatta è anche la vita in certe città del nord in cui a volte sembra non resti davvero che drogarsi per sentire qualcosa); al contrario, mi hanno deluso proprio certi tentativi di profondità di pensiero che promettono tanto ma non portano da nessuna parte. A questo si aggiungono personaggi interscambiabili tra loro già durante la lettura (quindi figuriamoci se memorabili una volta terminata) ed episodi scoordinati, intervallati da una cornice fin troppo ripetitiva. Ero pronta a restare scioccata... Ne esco annoiata. Peccato
Pensieri nel corso della lettura Prima sessantina di pagine: Ma non c’ha un cazzo da fare questa comitiva oltre che fumare e farsi?
Prima ottantina di pagine: Ah okay, fumare, , cercare "funghi" etc è proprio il loro mestiere. Ma ufficialmente cosa sono, liceali? Universitari? Disoccupati?
Dopo un centinaio di pagine: Ah quindi i soliloqui semi-profondi sono tutte tergiversazioni indotte dalla fattanza. Okay.
Post lettura Voglio conoscere la backstory del marocchino/arabo con le ciabatte che viene e va in modo silenzioso ed efficiente. E' quello il non-white contro cui questi white people vengono comparati? --- Stile gradevole. Iannuzzi sa scrivere, ma molti dei personaggi si fondono gli uni negli altri. Si fa una gran fatica a distinguere Pingu, coso lì comesciama, Cristo, Jem, e l’altro tizio, Franco. Sono come le principesse dei classici Disney, che sembrano tutte diverse di primo acchito, ma se guardi i lineamenti da vicino ti rendi conto che è sempre la stessa faccia con una parrucca diversa. Don Pamela non te lo dimentichi però eh no. Le primissime descrizioni di Gioia sono così evocative e precise (coi piedi sovrapposti e la mano sulla spalla) che mi trovavo proprio sul pianerottolo a guardarla. Continuo a pensarci per tutto il passaggio in cui si conoscono. E’ la prima cosa che mi torna in mente quando ripenso al libro. Lei e il gruppo di ragazzi che parlano tranquilli nel salotto del rifugio. Assurdo. --- Passaggi preferiti che mi sono proprio trascritta per non dimenticare, e che ritrascrivo per consultazione futura:
Nel silenzio, le cose apparivano come epifanie.
La vita in genere […] che è un mistero del cazzo a darsi e una cosa puramente tecnica a togliersi.
Quello non ha insistito. Lo ha fatto con una certa ostinazione (ADORO).
Con la sincerità di chi è steso in un letto prima di dormire.
Si gratta il collo ossessivamente, come se si stesse togliendo di dosso delle ragnatele.
È una lettura che dà la sensazione di essere invischiati, intorpiditi e confusi per scelta. Manca uno spessore di trama, è come se i personaggi si muovessero su una linea grigia seguendone le sinuosità indotte dagli effetti di droga e alcool. Ci sono delle descrizioni di allucinazione che tentano di ammaliare il lettore, in qualche passaggio ci riescono, in altri Iannuzzi rischia di ripetersi in formalismi retorici privi di spessore.
Trento e dintorni riconoscibilissimi nella toponomastica, nei luoghi di ritrovo, nelle piazze di spaccio. C’è persino un centro commerciale sulla “Ss 47” (la Valsugana) che si chiama come un centro commerciale sulla Ss 47. Però ci sono il mare e gli ulivi cosa che renderebbe l’ambientazione del libro “un’imprecisata città del Nordest” (cit. seconda di copertina).
E in questa “imprecisata città del Nordest”, col mare e con gli olivi, nevica sempre e quando non si vuole scappare si finisce in boschi e baite a portata di tiro.
1,5. Qualche scorcio di poesia da bruciarti le ossa, affogato in una storia (ahimè) trita e ritrita. Peccato, nutrivo grandi aspettative. Forse il problema è mio: avessi letto il libro una decina d’anni fa, quando ero in fissa con Ellis, Murakami (blu quasi trasparente vi dice qualcosa?) e altri simili (minimalismo vi dice qualcosa?), sono certo che avrei assegnato un voto ben più alto. Ma ora non c’è la faccio proprio. Sono certo che il romanzo avrà un suo pubblico, dei lettori che l’apprezzeranno moltissimo, e via dicendo. Forse, sono solo arrivato tardi. Il che non mi rende migliore, più saggio o colto, ma solo più vecchio.
Wannabe Cannibale, ma senza alcuna tensione narrativa.
I protagonisti girano e rigirano nelle strade dei loro labirinti interiori, ma senza dire nulla di interessante. Anzi, le sezioni "riflessive" sono scritte in uno stile pseudo poetico che non appartiene né ai personaggi, né a qualunque persona abbia del senno.
Vincitore del Calvino, la quarta di copertina promette "allucinazioni e lucidità". Ci sono solo le prime e sono pure di una banalità sconvolgente.
Speravo che fosse finita la moda dei libri da hypster e invece sembra che qualcuno la voglia far tornare. Speriamo non gli riesca
È più facile dire cosa questo romanzo non è: non è una distopia, anche se in più di un’occasione si ha l’impressione che lo stia diventando. Non nasconde un cuore politico, anche se a metà corsa abbraccia una storia eversiva, con toni concitati e grotteschi.
Non è un romanzo generazionale, pure se i protagonisti sono poco più che ventenni e camminano, pensano, parlano come ventenni. Non è nemmeno il tentativo di descrivere un unico continuo stato alterato di coscienza, sarebbe il punto di osservazione più sbagliato. Il tema non è la droga, la droga è solo il mezzo per fondersi con la realtà, una volta cadute tutte le resistenze mentali. Qualsiasi tipo di sostanza catalizza un displacement (a monte, il titolo in inglese è già un displacement) che non è uno scollamento dal mondo, ma una maggiore aderenza. Questo corrispondere alle cose del mondo, questo ritornare alla materia da cui proveniamo è il motivo vero del romanzo, reso a pieno dallo slittamento frequente della lingua nel registro poetico: dopo la contrazione del parlato, si scivola in maniera fluida dentro a una lingua con un’altra densità.
Questo romanzo scappa, ha sempre voglia di essere altro, non è mai una cosa sola, ha il passo della fuga. “L’unico spazio che ha il testo per durare è quello emozionale” ha detto Pier Vittorio Tondelli, e forse è nei momenti di sospensione più spinta e di incorporeità, persa a inseguire un filo rosso immaginario, che la voce di Iannuzzi può arrivare dritta al lettore. Si inserisce in una linea di padri e madri che comprende i Cannibali, viene in parte anche da lì, ma non è un tentativo di portare avanti quel lignaggio, di renderlo ancora una volta contemporaneo. White People non porta nessuna novità al genere, è forse, parzialmente, un omaggio, in tempi che hanno già preso le distanze da quel momento e lo guardano come un capitolo chiuso. Ma anche così non è abbastanza, è giusto un recinto stilistico in cui limitare il testo. Il desiderio alla base di questo romanzo parte e riguarda sempre la lingua. Vuole raccontare una storia con una sola emissione di fiato o un’unica frase, dall’inizio alla fine. E ci riesce, non solo perché è breve e si legge in una battuta.
Un romanzo di up and down, in tutti i sensi. Scorre meravigliosamente nonostante il completo distacco da una qualsivoglia realtà pesa in alcuni passaggi. Un romanzo sull’interiorità e sul vuoto, quello che oggi ci circonda e quello che da sempre ci portiamo dentro. Scavare maggiormente, fino a disotterrare completamente i cadaveri di ogni personaggio forse avrebbe aiutato e sarebbe stato il giusto contrappeso per le descrizioni e i pensieri “anfetaminici” che costellano le pagine. Menzione d’onore per Gioia, il personaggio sembra venir fuori fisicamente dalle pagine del romanzo per accarezzarti lasciandoti addosso il suo odore, compagno di viaggio invisibile in questa piccola epopea di molti.
Mixed reaction: da un lato è scritto bene, e il finale, seppur strano, è stato gestito bene; dall’altro, però, non è una storia nuovissima e a livello linguistico mi aspettavo un po’ di più. In sostanza, vincitore del Calvino leggibile, ma paragonato a Fingerle, Valente e Moscatelli è un libro molto standard, lontano da quello a cui ormai il Calvino ci sta abituando
L'ho letto avendo delle aspettative visto che è il libro che ha vinto il Premio Calvino 2023. In realtà sono state disattese: una collezione di scene (anche ben riuscite) legate da un esile file narrativo che non si concretizza mai in una trama solida e di nerbo, com'è quella dei romanzi con la R maiuscola. A volte mi chiedo se questi autori esordienti abbiano mai letto Philip Roth, Michel Houellebecq, Romain Gary, Carver e simili... se sì, non si capisce poi come arrivino a scrivere libri come questo. La voce di Iannuzzi è fresca e promettente: ma appunto, avrei isolato una questione - e nel tema del disagio giovanile ce n'è più di una - e ci avrei costruito intorno una trama solida, e per più di 120 pagine. Così diventa l'ennesimo esordio dimenticabile appena richiuso il libro (e davvero ci si chiede se sia questo il migliore tra i novecento e oltre manoscritti del Calvino o, come credo, il più pubblicabile). Posto che si arrivi alla fine.
L’autore sa scrivere e lo dimostra a più riprese nel romanzo. Descrive bene i pensieri e gli stati d’animo e non é di certo un compito semplice. I personaggi si confondono tra loro, spesso non si distinguono. La trama é confusionaria, a volte lo scrittore si prende molto tempo ed é piacevole, altre va di corsa come negli ultimi due capitoli. Gli argomenti trattati sono forse un po’ troppo esasperati. Il linguaggio é spesso volgare, probabilmente adattato al contesto della narrazione. Vorrei leggero altro, altre tematiche. Considero questo libro un tentativo, un punto di partenza, attendo con ansia altro di più maturo e apprezzabile.
Lirismo eccessivo che divora ogni profondità dei personaggi, epigono di Bret Easton Ellis e di quel tipo di cinema indie italiano sulle provincie tipo i Fratelli D'Innocenzo, ma la narrazione rimane fredda e gira a vuoto. L'autore evoca delle belle immagini e scrive bene, secondo me dovrebbe trovare una storia che ama davvero, perchè su questa ho molti dubbi
Libro interessante, Jannuzzi scrive molto bene, l'unica pecca i suoi personaggi tendono a due estremi o tendono a confondersi o a diventare iconici (come ad esempio Don Pamela). Il voto è una media tra il 4 della qualità della scrittura ed il 2 per la confusione che si crea tra i personaggi.
Uno dei libri più brutti che abbia mai letto. Pretensioso, superficiale, banale. La scrittura onestamente fastidiosa. Per non parlare della rappresentazione del personaggio di Gioia.