Siamo a Trieste, la guerra è appena finita. Un uomo beve un caffè al bancone del bar. Qualcuno lo chiama, lui si gira ma sente già la canna di una pistola puntata contro la schiena. Tutti lo conoscono come «Bambino»: è stato la camicia nera piú spietata della città. «Ho ucciso e fatto uccidere. Ho sempre cercato di stare dalla parte del piú forte e mi sono sempre ritrovato dalla parte sbagliata».
Una storia veloce quanto un proiettile che attraversa guerre, confini, tradimenti. Come in Resto qui, Marco Balzano torna al grande romanzo storico e civile. E lo fa con il suo personaggio piú duro, impossibile da dimenticare.
Mattia nasce a Trieste nel 1900. La sua infanzia irrequieta, forse, è già un un fratello che parte per l'America, un amico che presto lo abbandona. Quando scopre che la donna che lo ha cresciuto non è la sua vera madre, dentro di lui qualcosa si spezza e nel petto divampa un fuoco freddo che non saprà mai domare. L'ingresso tra le file degli squadristi è una conseguenza quasi naturale. Nonostante il soprannome che gli hanno affibbiato per il suo viso da fanciullo, «Bambino», Mattia ostenta una ferocia da boia. Ma prima ancora dell'ideologia, prima della violenza e della brutalità antislava, il motivo per cui indossa la camicia nera e batte palmo a palmo le terre contese è la speranza di ritrovare quella madre senza nome né volto. La ricerca di una donna che non ha mai conosciuto diventa il senso di tutto. Suo padre, un vecchio orologiaio sicuro che le persone si possano riparare come gli ingranaggi, è l'unico a conoscere la verità ma la tiene sigillata in un silenzio blindato quanto una cassaforte. Nella frontiera d'Italia piú dilaniata, la vita di Bambino scivola su un piano ogni giorno una nuova spedizione, un nuovo assalto, una nuova rapina. E poi, tutto d'un fiato, lo scoppio della guerra, i nazisti in città, l'occupazione jugoslava di Trieste, le foibe. Un'esistenza vissuta da cane sciolto, scandita da un implacabile conto alla rovescia. Un romanzo palpitante in cui il giudizio - anche di fronte alle azioni piú estreme - è sempre fuori scena. Con una scrittura trascinante e tagliente, Marco Balzano torna a indagare il rapporto tra individuo e collettività, tra le scelte personali e i grandi rivolgimenti della Storia. «La vita è aggredire o difendere, distruggere o prendersi cura».
Un fascista della prima ora, ma soprattutto un opportunista, svelto a cogliere la convenienza personale da ogni congiuntura storica e a schivare la fatica, indifferente al dolore altrui, prevaricatore e vile, delatore al servizio del potente di turno. Ecco Mattia Gregori, detto Bambino, non solo per la sua bella faccia glabra ma anche per un motivo più intimo e nascosto nelle sabbie mobili dell’inconscio: il ragazzo non ha mai conosciuto la sua vera madre e l’ossessione di trovarla segnerà la sua vita, non lo farà crescere mai. Protagonista odioso a cui tuttavia in qualche modo ci si affeziona, come a tutti i personaggi di cui conosciamo le ferite.
Il contesto storico: la nascita del fascismo, la guerra e la sua fine ci è noto ed è ampiamente raccontato da molti romanzi contemporanei. Più interessante appare la collocazione geografica: Trieste, portatrice di tutti i drammi delle zone di confine. Troviamo quindi il conflitto tra sloveni e italiani, tra fascisti e titini, troviamo la violenza di tutti e di ciascuno, l’orrore delle foibe, la sopraffazione e la vendetta. L’unico amore che rischiara un po’ queste tenebre è quello concreto e tenace di Nanni, il padre orologiaio che continua ad accogliere, ammonire e proteggere lo scapestrato Mattia che inevitabilmente e nonostante tutto andrà incontro al suo cupo destino.
“Finita la guerra l’Austria-Ungheria non esisteva piu, chi l’avrebbe mai detto. Trieste è diventata italiana e il Carso, ridotto a una trincea, formicolava di recuperanti che a sera scendevano dall’altopiano coi sacchi di iuta carichi di metallo.”
Marco Balzano ambienta il suo nuovo romanzo a Trieste, città di confine, testimone muta di tanta violenza.
Dichiara Marco Balzano in un’intervista “Da anni avevo in mente di scrivere una storia sul confine orientale, perché nessun territorio come Trieste ha visto avvicendarsi con brutale violenza, e senza soluzione di continuità, fascismo, nazismo e – sebbene per poche settimane – regime comunista. Volevo che il protagonista fosse un uomo nato ai primi del secolo, cosicché attraversasse ogni periodo, caricandosi sulle spalle tutte le vicende di questa Storia da sempre incandescente. E volevo che finisse per affacciarsi su un abisso, non solo figurato, perché, forse, è a un passo dalla morte che si pronunciano le parole più importanti e che tornano davanti agli occhi le immagini più nitide. Omero, del resto, dei dieci anni della guerra di Troia, non ci racconta che gli ultimi giorni, quando le scelte sono fatali, le confessioni testamentarie.”
La prosa di Balzano è quella coinvolgente di “Resto qui”.
“Piego all’insù il collo fracassato per ricevere il chiarore lattiginoso della luna come fosse il perdono che non ho chiesto. La testa si accascia sulla spalla. Di fianco vedo il suo viso. I denti bianchi che sorridono, i capelli velati dalla luce d’argento che impolvera il cielo. Mi avvicino piu che posso. Riesco a toccarla. Poi, senza paura, chiudo gli occhi.”
Dichiara ancora Balzano “Da un punto di vista narrativo tutto ciò si incarna nell’atteggiamento prevaricante di Mattia Gregori, detto Bambino, uno squadrista della prima ora, che si nasconde nel branco per aggredire e scansare le fatiche del lavoro e della guerra, imboccando deliberatamente la scorciatoia della violenza. L’atteggiamento del branco si ritrova con facilità in tutto il fascismo del Ventennio – ma anche in quello di oggi che veste altre divise, maneggia altri strumenti, sventola altri slogan – ma si è consumato con una brutalità senza pari nel cosiddetto “fascismo di confine”. La protagonista di Resto qui, altoatesina, ne è una vittima; sul confine giuliano ho incontrato un carnefice: lo scavo umano, però, resta lo stesso.”
Dopo "Resto qui" Marco Balzano torna con un altro romanzo storico. Protagonista di questa vicenda è Mattia Gregori, squadrista fascista che milita a Trieste. La sua vicenda ha al centro la militanza violenta ma anche la ricerca disperata della sua madre biologica, della quale non conosce l’identità. Un racconto crudo, che cinge le due Guerre e gli eventi che hanno segnato i territori del confine italiano orientale (dalle foibe al campo di deportazione della Risiera di San Sabba, passando per il susseguirsi di oppressioni diverse). La scrittura è molto descrittiva ed evocativa allo stesso tempo. Il personaggio è complesso nella sua efferatezza, così com’è complessa l’alternanza e l’opposizione di oppressori e oppressi. Dalla narrazione emergono gli orrori della guerra, che non risparmiano nessuno (né chi uccide, né chi è vittima). Unica pecca, avrei voluto sapere di più sul finale…
"Mi assomigliava ancora Trieste. Si era adattata a tutto pur di sopravvivere"
"Ho sempre cercato di stare dalla parte del più forte e mi sono sempre ritrovato dalla parte sbagliata"
"Forse, ho pensato, si può amare solo chi continua ad aspettarci come se non fossimo andati via, come se nel frattempo il mondo non fosse diventato macerie"
La storia è ambientata nel periodo dell'ascesa del fascismo fino all'entrata nella seconda guerra mondiale. Cruda, spietata, feroce. Ma nonostante questo, nella lettura avvertivo un non so che di melanconico e struggente, forse dovuto non a Mattia, il protagonista, ma al padre di lui, Nanni, che ha la dolcezza e il calore del sole sulla tempesta.
“Non ci eravamo mai voluti cosí bene. Non ci eravamo mai mancati cosí tanto. Forse, ho pensato, si può amare solo chi continua ad aspettarci come se non fossimo andati via, come se nel frattempo il mondo non fosse diventato macerie.”
Libro che mi ha lasciato un po' tiepida, forse la prima vera delusione di quest'anno 🫤 Marco Balzano mi era piaciuto molto in "Quando Tornerò" ed ero curiosa di questo, prima di leggere "Resto Qui". La storia è ambientata a Trieste post Prima Guerra Mondiale e ruota attorno a Mattia Gregori, un ragazzino pieno di rabbia e desiderio di fare del male. Questo lo avvicina ai fascisti e diventa una delle più violente camicie nere. Sullo sfondo c'è la Storia, quella delle tensioni del confine orientale, della Seconda Guerra Mondiale, delle foibe... La parte più concentrata sulle vicende storiche mi è piaciuta, la parte più personale poco (c'è tutta una trama di Mattia che cerca la madre che a mio parere non porta a nulla). Non ho empatizzato con il protagonista (forse per fortuna?) e questo un po' ha reso la lettura non tanto coinvolgente. Per il resto la scrittura è bella e il ritmo estremamente incalzante, volendo potete leggervelo in un giorno solo. Ma non è un libro che ricorderò 🤷🏻♀️ mi spiace.
La storia di Mattia, fascista triestino della prima ora, poi soldato e delatore, ma soprattutto figlio di un orologiaio e di una madre mai conosciuta. Personalmente mi é interessata molto di piú la Storia degli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale a Trieste, tra sloveni, partigiani e foibe piuttosto che le ragioni che spingono un "uomo" a fare quello che ha deciso di fare il personaggio di questo romanzo.
3,5 stelle. Forse non al livello di ‘Resto qui’ ma comunque molto affine, Bambino è una vicenda a sfondo storico ambientata a Trieste tra il 1920 circa e i primi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Ho impiegato parecchio tempo a concluderne la lettura e non perché non fosse avvincente o scritta bene, ma perché è stato estremamente doloroso arrivare alla fine. Si cerca sempre una via di fuga, un modo per sopravvivere, e questo romanzo ne è l’esempio perfetto; tuttavia una cosa sono i romanzi, un’altra è la vita, o la Storia. Questo è il racconto - o forse farei meglio a scrivere la tragedia privata - di una vita intaccata, corrotta e infine distrutta dal fascismo e dalla guerra. Un romanzo che per quanto faticoso o doloroso sia fa sempre bene leggere per tenere a mente il passato.
Romanzo folgorante. Una stagione di odio, sangue e violenza descritta in modo asettico da un protagonista perfettamente caratterizzato dall'autore, che riesce a rendere chiara la tempesta emotiva che gli squassa l'animo. Lessico e periodare magistralmente adattati al momento narrativo. Una grande narrazione, degna della miglior letteratura del Ventesimo secolo.
Ciò che mi ha colpito di più di questo romanzo è la capacità di Balzano di racchiudere in poco più di 200 pagine una storia ricca, corposa, densa di avvenimenti ed emozioni.
Mattia Gregori, il protagonista, è un personaggio unico e così ben caratterizzato che difficilmente si può dimenticare. Sebbene il nomignolo che gli viene attribuito, quello di “Bambino”, denoti innocenza e ingenuità, Mattia, nel corso della sua vita, dimostrerà di essere tutt’altro che innocente. Infatti, sin da ragazzo diventerà uno dei più temuti squadristi di Trieste. Il romanzo attraversa molti anni cruciali della nostra Storia: dalla nascita del fascismo allo scoppio della guerra, all’occupazione nazista prima e quella jugoslava dopo, fino alla tragicità delle foibe. Nel corso delle vicende la vita di Mattia subisce determinanti cambiamenti che lo condurranno alla ricerca di importanti verità. Per questo motivo, il carattere meschino, cinico e opportunista del protagonista viene in un certo senso “giustificato” dal lettore e lenito dall’indulgenza e dall’umanità del padre. Quest’ultimo è un umile orologiaio che non si risparmia nel provare avversione e disgusto nei confronti delle agghiaccianti azioni e scelte del figlio. Al tempo stesso, però, come solo un padre può fare, non lo rinnegherà mai e farà di tutto per aiutarlo. Il padre, quindi, è un personaggio di grande rilievo e di sostanza e rivestirà un ruolo significativo nella vita del protagonista.
In sintesi, “Bambino” è uno di quei rari romanzi che indubbiamente meritano la rilettura. Bellissimo.
Mattia Gregori è un ragazzo nato a Trieste nel 1900, la sua infanzia è al quanto difficile, un solo amico, poca voglia di studiare e tante ragazzate. Verso i vent’anni perde anche il suo unico amico, in più un lutto familiare e un segreto sconvolgente cambieranno Mattia profondamente al proprio interno, questo sconvolgimento lo porterà ad entrare nelle camice nere. Come fascista parteciperà a molte spedizioni contro gli slavi, con una crudeltà sempre maggiore. Allo scoppio della guerra, parte per combattere sul fronte greco, ma gli orrori e le privazioni metteranno a dura prova la sua ammirazione per Mussolini. Di ritorno dalla guerra Mattia cerca di allontanarsi dai fascisti e dalla vita precedente ma con un enorme difficoltà visto che conosce solo la violenza. Dopo l’otto settembre finisce perfino a collaborare con i Tedeschi. Quando la guerra finisce suo padre, che nonostante tutto gli ha sempre voluto bene, lo convince a fuggire da Trieste dove oramai è un ricercato. Ma il richiamo del mare e la voglia di stare con il padre lo faranno tornare.
Balzano ha scelto di continuare a narrare delle frontiere orientali, questa volta di quella friulana con epicentro Trieste. Nodo nevralgico di culture, di commerci, di lingue e di religioni. Trieste, la più fascista delle città italiane, scelta da Mussolini come luogo per promulgare le leggi razziali, dove c'era l'unico campo di sterminio italiano, la Risiera di San Sabba, piccola Auschwitz nostrana. Trieste, porto cruciale dell'impero Austroungarico, crogiolo di popoli e di razze, ancora imbevuta dello stesso spirito mitteleuropeo, dove gli slavi vengono chiamati s'cavi e vengono visti come "gli altri", i forestieri che vanno respinti con tutti i mezzi, anche a bastonate, se non a bruciarli vivi nell'assalto al Narodni Dom. In questa città così unica nasce nel 1900 Mattia, ribattezzato dai suoi sodali fascisti Bambino per il suo viso glabro, bello, che ispira tenerezza e che piace alle donne. Mattia scoprirà dalla donna che lui ha sempre pensato fosse sua madre che invece non lo è e che non sa chi essa sia. Partirà da ciò una ricerca forsennata e disperata di questa fantomatica e sfuggente figura materna, un cammino di vita che farà di Bambino un personaggio orribile, una camicia nera crudele e efferata, che si arruola fra i fascisti non per ideali politici ma perché spera che lo aiutino nella sua ricerca. Bambino non avrà mai ideali, mirerà solo al suo tornaconto, anche nell'uso della lingua slava che impara da piccolo. Uno dei personaggi negativi meglio riusciti della narrativa degli ultimi anni perché Balzano è riuscito a tratteggiare Bambino molto a fondo, scegliendo, caso strano, di raccontare la vicenda in prima persona e con le parole del carnefice e non della vittima, riportando alla mente , seppure a grandi linee, il protagonista di "Le benevole" di Jonathan Littell. Anche in questo libro, come in "Resto qui" c'è l'assenza, la mancanza, e la ricerca di una persona amata che lacera e scava un abisso nell'anima, ci sono i soprusi e le violenze ideologiche, la soppressione di una cultura e di una lingua. Si conoscerà anche la doppia guerra vissuta dal territorio triestino e istriano perché l'orrore da loro non si è fermato nell'aprile del 1945 ma è andato avanti con altrettanta ferocia per parecchi mesi perché terra di conquista da parte dell'esercito di Tito. Le divise sono diverse ma le dinamiche sono identiche. Un libro intenso con uno stile preciso, con ritmo incalzante e mai noioso, dove a Bambino fa da contraltare suo padre, Nanni, l'orologiaio che ripara il tempo, figura paterna umanissima e capace di tener testa ai sodali del figlio. Marco Balzano in alcune interviste ha dichiarato di essersi ispirato per questa coppia a Geppetto e a Pinocchio: un padre sempre pronto ad accogliere il figlio ma anche a cercare di correggerlo e a non accettare la sua malvagità, profondamente antifascista e un figlio che non vuole crescere, immaturo, malvagio e alla ricerca di sé. Se a volte Bambino appare un poco stereotipato, Nanni invece mi è sembrato sempre molto umano e tenace nella sua quotidianità, tenero nei ricordi affettuosi verso Tella, moglie fedele, gentile e madre amorevole, nonostanteil tradimento.
Racconta l’autore che un giorno, durante la presentazione di un suo romanzo a Trieste, era stato avvicinato da un ragazzo che voleva raccontargli la sua storia. Lui inizialmente non gli aveva dato retta ma il ragazzo aveva insistito raggiungendolo qualche giorno dopo a Milano: la storia che voleva raccontargli era la storia di suo nonno che lui aveva conosciuto come un uomo estremamente amorevole, salvo scoprire, dopo la sua morte, che in gioventù era stato un picchiatore fascista.
Mattia è ragazzo quando a Trieste compaiono le prime squadracce. Vive con il padre orologiaio, mestiere che richiede cura e precisone, un fratello molto più grande di lui che presto si trasferisce in America e quella che in punto di morte gli confessa di non essere lei la sua vera madre. In questo punto avviene la rottura. Per Mattia la ricerca della donna misteriosa che l’ha abbandonato diventa un’ossessione.
Aderisce al fascismo non per ideologia, ma perché spera grazie all’aiuto dei compagni di scoprire qualcosa sulla donna che sta cercando. Loro lo chiamano Bambino a causa il suo aspetto fisico, ma lui sembra essere rimasto un bambino anche dal punto di vista emotivo: non elabora emozioni e sentimenti e agisce spinto dalla pura cattiveria, dalla rabbia, dal vuoto interiore.
Compirà azioni spaventose narrandocele in prima persona con freddezza disumana, andrà in guerra, tornerà deluso, diventerà spia e delatore, verrà catturato, in un vero e proprio conto alla rovescia citato anche nel risvolto di copertina. Il tutto sullo sfondo di una Trieste precedentemente austriaca, poi italiana, invasa da fascisti, tedeschi, titini, e poi finalmente libera, essa stessa personaggio del romanzo.
Qualcuno diceva che noi lettori non giudichiamo Mattia, ma per me non è stato così: Io ho fatto fatica a leggere questo romanzo, a tratti mi sono sentita quasi intrappolata nel suo vortice di cattiveria che avrei voluto respingere, al punto da non riuscire a mantenere la distanza necessaria per apprezzare uno stile che ho trovato comunque interessante, essenziale al punto giusto, seppur con qualche piccola incongruenza che ha interrotto il patto di sospensione dell’incredulità. Ho poi riletto le prime pagine per capire meglio la genesi del percorso del protagonista, a cui inizialmente non avevo fatto caso. Quasi quasi tutto il libro andrebbe riletto prestando attenzione a ogni passaggio, qui e là forse perde un po’ di qualità, ma il risultato finale nel complesso è molto interessante.
Un personaggio, una città. Bambino sta a Trieste come la violenza sta alla guerra.
È impossibile scindere Mattia Gregori, detto Bambino, per via del viso glabro, da una delle città di confine più dilaniate dai conflitti nella storia italiana. Una città contesa che diventa teatro di orrori e sospetti prima coi fascisti poi coi crucchi e infine con le truppe di Tito. Trieste, una città così dentro la storia da essere sospesa nel tempo e mentre Bambino veste la camicia nera il padre Nanni continua ad armeggiare con gli ingranaggi dei suoi orologi da riparare, sperando di aggiustare un figlio che abbraccia la violenza dei fascisti italiani. Sembra quasi voler riparare il tempo che ha inghiottito Trieste e liberarla da ogni male ma è il figlio a liberare la città, non dalla guerra ma dagli sloveni pestati a sangue tanto da morire. Gli stessi sloveni che si prenderanno la loro rivalsa macchiandosi di un terribile crimine, ridotto nei manuali di storia al capitolo "foibe".
Marco Balzano attraversa Trieste come fosse la sua città e attraversa gli accadimenti storici sotto la pelle di chi non ha subito le percosse della vittima. Eppure, Bambino è sempre stato vittima di se stesso, sin dall'inizio. Perché non ci è nato con la cattiveria, Mattia, gliel'ha messa addosso la paura. E quante volte è la paura a scatenare violenza?
In questo suo ultimo, durissimo, romanzo Marco Balzano ci fa addentrare nella mente di Mattia Gregori, una delle peggiori camicie nere triestine. Un giorno accade un fatto nella vita di Mattia che lo porta ad aderire al fascismo per un motivo ben preciso e non tanto per ideali perché come scrive in una lettera al suo amico Ernesto (partigiano) "...non ho mai avuto degli ideali, tu invece si. Chissà perché alcuni li hanno ed altri no". Tuttavia in Mattia non alberga soltanto odio ma anche forme di amore puro in virtù delle quali si arriva in alcuni momenti ad essere anche empatici nei suoi confronti, assecondando il suo desiderio di redenzione, ma non giustificando in alcuna maniera gli orrori che ha commesso. Un romanzo anche questo (come il precedente "Resto qui") di frontiera che sarà impossibile da dimenticare.
Terribile. Bellissimo. La storia racconta un pezzo dell’epoca fascista nelle zone di Trieste, la gente che aderiva all’ideologia e la praticava con diligente violenza, altri che la rifiutavano e la osteggiavano con le atroci conseguenze e i rischi che sappiamo. Mi si accappona la pelle dalla paura, non riesco a comprendere a fondo la vita vera, non mi stacco dalla lettura. Il cuore è stretto tra compassione e orrore. L’autore è davvero bravo, non indulge nel raccapriccio descrittivo ma non risparmia le immagini vivide. Racconta come se fosse un semplice spettatore, senza giudizio, con precisione. Tra i romanzi (o resoconti?) dell’epoca storica, uno dei migliori.
Quattro stelle alla mia seconda lettura di Marco Balzano, per due motivi: primo, la precisione dello spaccato, storico e politico, che ci fornisce del confine italiano orientale tra le due guerre mondiali; secondo, il ritratto, lucido onesto e crudele, del protagonista, Mattia, camicia nera dal volto glabro e dal cuore di pietra. Mattia si batte con violenza non solo per motivi ideologici ma anche e soprattutto per colmare la sua voragine interiore, causata dal fatto di non avere mai trovato e conosciuto la madre naturale, missione a cui si dedicherà per tutta la vita. Il dramma incontra quindi la storia in questo romanzo crudo e feroce che merita certamente attenzione.
Un romanzo storico ed emotivo, che grazie alle vicende del protagonista Mattia, un fascista della prima ora, ci fa entrare dentro la storia di un territorio incredibile e dentro la psiche di un carnefice. Per farci capire che non é tutto o bianco o nero, che tutti possiamo far del male e subirlo allo stesso tempo. Consigliato anche a chi vuole comprendere meglio i dissapori attuali che ancora si annusano a Trieste e sul suo Carso.
Con questo romanzo veniamo trascinati nella Trieste del primo Novecento, una città di confine che, da centro multiculturale, dopo la prima guerra mondiale si trasforma progressivamente in terra di conquista. Su questo sfondo storico si dipana la vicenda individuale di Mattia Gregori, che occupa il centro della scena. Detto "Bambino" per il suo viso glabro, Mattia è segnato fin da giovane da una rivelazione che lo sconvolge: la donna che lo ha cresciuto non è la sua vera madre. Da quel momento, la ricerca delle sue origini diventa un'ossessione; al tempo stesso la rabbia per questo “vuoto identitario” lo corrode: si incrinano i rapporti con il padre Nanni e con l’amico Ernesto, e l’adesione allo squadrismo fascista che impera in quel momento diventa il naturale sfogo per l’odio che cova dentro. Mattia è un “cane sciolto”, non gli interessano le persone, non si lega davvero mai a nessuno, fa le sue scelte guidato esclusivamente dal principio dell’opportunismo, che gli permette in più occasioni di cavarsela in questo tormentato contesto storico, fino al giorno in cui la vita gli presenterà il conto. Ho letto da qualche parte che questo è un romanzo di "deformazione" e devo dire che sono d'accordo: Mattia Gregori non evolve, non impara la lezione, rimane immaturo, non costruisce la sua vita con scelte consapevoli, non progredisce. Il titolo stesso sembra alludere a questa incompiutezza: Mattia resta un "bambino" dentro, un individuo che si lascia trascinare dagli eventi più che guidarli, non c’è una reale evoluzione, né una forma di redenzione e la sua adesione allo squadrismo fascista (non è uno spoiler, perchè lo apprendiamo nelle prime pagine) appare più come un riflesso del suo rancore e vuoto interiore che come una scelta ideologica. Contraltare di Mattia Gregori è il padre Nanni: saldo nei suoi ideali, coerente, umano. In questo contrasto mi è parso di cogliere il tema del romanzo: non tanto la ricostruzione storica, che resta sullo sfondo e anche molto affrettata, ma il conflitto tra chi vive nella storia con consapevolezza e chi, come Mattia, la storia la attraversa, senza etica personale e ideologica.
La prima impressione leggendo questo romanzo è che abbia ritmi, trama e stile che si avvicinano molto al fumetto, inteso ovviamente nel senso più nobile di graphic novel, con molti pregi e qualche difetto tipici del genere. Mattia, soprannominato “bambino” per la pelle glabra del viso fin da ragazzo dimostra un carattere ombroso e insofferente, anche violento e rissoso che lo porta a rubacchiare: una vera piccola teppa. Crescendo può solo peggiorare: nato a Trieste nel 1900 evita la trincea, ma nel primo dopoguerra fa comunella con i fascisti, poi nel 1943 si presta come delatore dei nazisti e ancora a fine conflitto per i “titini” che occuparono la città per qualche mese. Un uomo che ha voluto stare sempre dalla parte dei vincitori, che poi a posteriori riconoscerà come sbagliata. Un cane sciolto, che disprezza gli stessi fascisti, un viscido che ruba nelle case isolate, traffica con la borsa nera, denuncia i suoi vecchi compari, uno che afferma di “aver ucciso e fatto uccidere tanti”. L’unica giustificazione al suo votarsi al fascismo è la ricerca della madre dopo che quella presunta, in punto di morte, gli aveva rivelato di essere figlio di un’altra donna; partecipando alle spedizioni delle squadracce nel Carso aveva modo di battere i paesi per cercarla (un meccanismo narrativo che regge poco) Anche il rapporto con il padre – un orologiaio borghese, per bene e antifascista - è ondivago, più volte vengono quasi alle mani ma si proteggeranno a vicenda fino alla fine. Interessante l’intenzione di raccontare cinquant’anni di storia di Trieste e del Carso attraverso le vicende di Mattia, ma la narrazione è spesso troppo frettolosa per comprenderli, rimangono sullo sfondo o poco più (non c’è paragone con Tomizza o Magris che hanno spesso narrato di questi luoghi). Tutto lo spazio narrativo è occupato da Mattia che racconta in prima persona il suo odio, la sua rabbia, le sue malefatte, la sua solitudine e con pochi e tardivi rimorsi e nulla più. Fumettoso, scorrevole e incalzante fino alla fine ma fumettoso. Tre stelle
“ La vita è aggredire o difendere, distruggere o prendersi cura.”
“ Ha continuato a indagare il mio volto, poi trattenendo il fumo in bocca ha detto: - Non ti cresce neanche un filo di barba. Ti chiamerò Bambino.”
Mattia nasce a inizio del ‘900 a Trieste. Fin da bambino è irrequieto e vive il senso dell’abbandono, prima del fratello che si trasferisce in America, poi di Tella, la donna che lo ha cresciuto per pochi anni, e che muore di malattia, e anche di Ernesto l’unico vero amico che ha avuto. Mattia resta così solo con il padre orologiaio, uomo di poche parole e di tanti segreti. In quegli anni di grossi cambiamenti politici e militari, Mattia indosserà la camicia nera ed entrerà a far parte di quei gruppi che con la violenza e senza pietà ottengono tutto ciò che vogliono. Sarà conosciuto da tutti come Bambino. Il richiamo alla violenza è per lui un istinto incontrollabile, fare del male agli altri e’ qualcosa di cui non riesce proprio fare a meno. Parte poi per la guerra in Grecia e quando ritorna nella sua Trieste, comincia a chiedersi se il suo recente passato da squadrista sia stato davvero sensato e se gli abbia davvero giovato come inizialmente credeva. Intanto suo padre resta nell’ombra a continuare il suo lavoro, cercando di far ragionare quel figlio così crudele e ostinato nelle sue idee. A questo figlio, nonostante tutto, non farà mai mancare un piatto caldo e un tetto sopra la testa ogni volta che Mattia tornerà a casa.
Un bel romanzo. Lo stile di Balzano mi piace molto. Anche in questo libro unisce la narrazione di eventi storici significativi per il nostro Paese, a storie di vita quotidiana, in questo caso centrando l’attenzione sul rapporto tra genitori e figli. Sono rimasta colpita dall’atteggiamento del padre di Mattia per tutti quegli anni. Non ha mai condiviso le scelte fatte dal figlio e spesso lo ha ammonito. Nonostante Mattia ha proseguito per la sua strada lui non ha mai smesso di volergli bene a modo suo, con poche parole ma tanti fatti. Solo nel tempo Mattia capirà il profondo amore del padre nei suoi confronti. Da leggere!
Lo scivolosissimo terreno delle foibe può essere trattato esclusivamente da scrittori con ferme convinzioni e solida formazione storiografica. Solo così si evitano le trappole dell’ideologia e si offre al lettore una ricostruzione che sia anche indirettamente didattica. Il Bambino del titolo è un triestino cresciuto da un padre orologiaio con il quale non ha mai avuto un rapporto veramente stretto. L’avvento delle squadre fasciste, però, lo conquistano da subito: il mito dell’uomo forte perché violento e prevaricatore gli offre una “famiglia” nel quale esprimere le sue pulsioni, evidentemente latenti. Più si infogna, però, nel buco nero delle aggressioni e delle razzie, più il padre lo disprezza. Antifascista per scelta e dunque consapevole di essere preso di mira, quest’ultimo rimane l’ultimo punto di riferimento per un ragazzo che, a mano a mano, cresce con i valori distorti della dittatura e ne viene inghiottito. Nella seconda parte, quando Bambino è ormai un uomo adulto, l’esperienza della guerra in Grecia lo sveglierà definitivamente dal torpore dell’idolatria per riportarlo in una dimensione disperata ma ormai priva di illusioni. Nella Trieste che passa rapidamente dal fascismo all’occupazione nazista, alla liberazione dei titini l’unico filo conduttore è la repressione. Non si salva più nessuno e i dominatori di prima diventano in un batter d’occhio gli oppressi di oggi. Più feroce è la vendetta, più chiaro è il destino di un uomo che ha moltissimo da farsi perdonare e che, come preannunciato dai flash forward che costellano i capitoli, è consapevole della fine che farà. Balzano scrive sempre con una qualità narrativa e una schiettezza di dialoghi invidiabili. Nel panorama italiano, è forse il più lucido nel costruire trame plausibili attorno a fatti storici conclamati. La sua correttezza storiografica è, infine, la madre delle vicende che racconta e dei personaggi che inventa. Un vero scrittore contemporaneo che meriterebbe più visibilità in un panorama esageratamente piatto.
E' strana, la parola "confine". Contiene quasi immediatamente una idea di chiusura, di conclusione del "nostro". Ma non ci sarebbe confine se non ci fosse qualcosa dall'altra parte, qualcosa da cui siamo separati. Che magari consideriamo alieno da noi, ma che riconosciamo e a cui, quindi, diamo importanza.
Io in una terra di confine ci sono cresciuto, ed è la stessa in cui si muove il protagonista dell'ultimo (splendido) libro di Marco Balzano. E pur non essendo portavoce di niente e di nessuno, se non di me stesso (e anche in questo, a fatica), mi sento il dovere di affermare che "Bambino" non è semplicemente un libro ambientato per la sua maggior parte a Trieste: "Bambino" è un romanzo fortemente, emotivamente, culturalmente triestino, in ogni suo pensiero e pagina. Ne racconta la storia dei suoi anni più tragici e complicati come la sentivo raccontare io, in osmiza o negli eleganti caffè del centro, con la loro storia a sostenerne le mura. La racconta con le parole di un commerciante a Monfalcone, di una vicina scappata dall'Istria, di un nonno che accompagnava me e suo nipote a una partita di calcio. La racconta come la racconta la gente, nella maniera più linda e dolorosa possibile.
Perché poi, oltre che strana, "confine" è anche una parola descrittiva dell'anima: quale è mio confine? Fin dove arrivo io, essenzialmente io, e dove intervengono forze esterne che non governo, non accetto, non riconosco? Bambino (inteso come protagonista del romanzo, non come titolo) ne è una perfetta rappresentazione: il punto di vista cambia, non seguiamo la storia di una vittima ma quella di un boia, impegnato in una sopravvivenza (e in una ricerca di radici negate) che lo porta ogni volta dalla parte del più forte, e che lo spinge ogni giorno di più sul bordo dell'abisso.
"Bambino", per me, è stato un romanzo doloroso, grandemente doloroso. E infinitamente necessario.
Trieste, ventennio fascista e Seconda Guerra Mondiale, un ragazzo e un padre: questi gli elementi fondanti del nuovo romanzo di Marco Balzano, edito Einaudi.
Il protagonista, Mattia, scopre ormai da grande di non essere figlio di quella madre che lo ha cresciuto. Questo sarà il motore che lo spingerà a diventare una Camicia Nera. Mentre il suo dissidio interiore e la sua sete di conoscenza lo spingeranno a compiere atti violenti in giro per l'Istria, la storia va avanti, trascinandolo nel flusso degli eventi: prima la guerra in Grecia, poi il ritorno in patria e lo scontro con i fedeli di Tito che lo deporteranno a Borovnica. E poi, quando ormai il peggio sembra essere passato, ecco che un'ombra dal passato ritorna, per chiudere il cerchio.
Al di là del romanzo storico in sé per sé, che parla di eventi spesso tralasciati nei programmi scolastici, emerge forte una voce, quella del padre del protagonista. Il rapporto tra padre e figlio si sviluppa per tutto il romanzo, offrendo al lettore pagine dolci e struggenti allo stesso tempo. Questa tematica, insieme alla descrizione accurata di Trieste, mi rimandano alle poesie di Saba. E, da docente, mi viene dunque naturale consigliare questa lettura a una quinta superiore, proprio per le tematiche e gli eventuali collegamenti che si possono fare.
In poco più di 200 pagine Balzano è riuscito a raccontare la storia di quella parte d'Italia al confine, divisa tra culture, lingue e ideali attraverso il punto di vista di un uomo normale, mosso non da un ideale politico, ma dalla necessità di scoprire la verità sulla propria identità.
Perché, però, ho dato soltanto quattro stelle? Perché per me Balzano è prima di tutto l'autore di "Io resto qui". In questo ultimo romanzo, infatti, non ho trovato il pathos che ho riscontrato nell'opera ambientata a Curon Venosta, ad eccezione di alcune pagine in cui la voce del padre la fa da padrona.
Premettendo che non ho la competenza adatta a stabilire se tutte le affermazioni storiche contenute nel libro siano verificate ed esatte, mi baso sulle impressioni generali che posso esprimere.
L’autore ha deciso di utilizzare la fiction per tratteggiare una fase complessa della storia bellica italiana del nord-est, dall’affermazione fascista con i suoi soprusi razzisti, alle controrappresaglie culminate con le foibe e periodi successivi. Sceglie di sporcarsi le mani su tutti i fronti, non risparmia estremi e crudezza, tratteggiando un protagonista compromesso. Sceglie una narrazione asciutta, concreta e non sentimentale, imparando da una grande scuola italiana come quella di Cesare Pavese e altri grandi maestri del periodo.
Credo l’autore abbia fatto un grande lavoro ancora prima della scrittura, per cercare il corretto equilibrio e la modalità di narrazione, e il risultato mi pare notevole. Certe sfumature del passato non si possono narrare senza compromessi, senza scendere nella commistione morale e le sue conseguenze. È vero che la storia del novecento presenta chiaramente un lato giusto e un lato sbagliato degli schieramenti, ma è ugualmente chiaro che deve essere narrata con infiniti chiaroscuri, rinunciando al pensiero semplice (o schierato) per analizzare le infinite sfaccettature e le derive di ogni lato delle vicende.
Ecco che Balzano presenta un italiano come tanti, che diventa carnefice estremo con motivazioni inizialmente umane, se non nobili. In questo si ritrova la sfumatura morale multiforme di chi ha aderito al fascismo, senza che l’autore mai indulga a perdono o giustificazione.
Lo stile essenziale e misurato, bellico per certi versi, permette alle emozioni e alla commozione di fluire in maniera spontanea e non guidata, o forzata. Mi lascia molti pensieri, una forte malinconia e la mente più aperta.
Qualcosa non funziona C'è qualcosa che non funziona, in questo libro. Qualcosa che lo mette un gradino sotto "L'ultimo arrivato" e due o tre sotto "Resto qui".
Non la lingua. Lo stile è sempre quello di Balzano: pulito, evocativo. Preciso. Non l'ambientazione, e anche questo conferma l'abilità di uno scrittore vero, che ha saputo dare voce a personaggi pugliesi, siciliani, trentini o friulani con la medesima qualità. Nemmeno l'idea è sbagliata: cavalcare la storia di una città che in pochi anni passa dai fascisti ai nazisti agli jugoslavi agli alleati, attraverso lo sguardo di uno che sta sempre dalla parte sbagliata, è un'intuizione originale e vincente.
Allora cos'è che non funziona? Due cose, credo.
La prima è il plot, molto debole. Non c'è una storia che avanza in una direzione precisa. Le cose succedono a Bambino quasi in ordine sparso, non si percepisce una tensione narrativa. A un certo punto il protagonista dice: "Vagavo per Trieste senza meta, come sempre nella mia vita. Aspettavo il dettaglio che aprisse una pista da seguire". Non è solo Bambino che parla della sua vita, è anche Balzano che descrive il suo romanzo.
La seconda è il protagonista. Meschino, amorale, di una negatività che manca di un senso, di una sostanza. Anche questa sembra attaccata lì quasi per caso, senza un senso narrativo. Bambino è un cattivo senza spessore, che è protagonista sempre ma non è mai eroe. E per questo non suscita empatia, nemmeno quando gli capitano le peggiori sofferenze.
Un'ultima nota negativa sulla meccanica del racconto, che presenta fin dall'inizio dei corsivi sulla scena finale che dovrebbero tenere agganciato il lettore per portarlo a vedere "come andrà a finire". Uno stratagemma un po' banale che Balzano ha già usato in passato e non rende onore alla qualità e alla profondità della sua scrittura.
Fortunatamente è breve, m'è parso sinceramente di perdere del tempo nel leggerlo. La vicenda si sviluppa pressappoco dagli esordi del fascismo fino alla sua conclusione ed oltre e segue le vicende di Mattia Gregori uno squadrista di cui non si comprende praticamente nulla ossia parliamo del protagonista che alla fine risulta essere solo abbozzato e male. L'ho sinceramente trovato un testo irritante nei passaggi così veloci da risultare assolutamente posticci, finti, superficiali. L'espediente di inserire questa madre cercata poco e sconosciuta al protagonista resta sinceramente un mistero: dovrebbe essere la motivazione alla sua rabbia? Leggevo del rischio che si potesse entrare in "sintonia" con il protagonista: impossibile tanto appare farlocco. Salvo del testo solo il racconto un po' più efficace della deportazione in campo di prigionia e quello, peraltro breve, del tempo trascorso in malga. Il resto pare una prima stesura che non indaga praticamente in nessun modo un periodo storico (troppo lungo per essere trattato in 200 pagine) e una situazione ambientale (Trieste) che si prestavano moltissimo ad essere approfondite essendo interessantissime. Basta leggere una pagina di Boris Pahor - «ci si confronta [ndr nelle opere di Pahor] non solo con la violenza fascista e l'orrore nazista, ma anche con il frequente disconoscimento agli sloveni di elementari diritti e di identità triestina a pieno titolo e col conseguente muro di ignoranza che ha separato a lungo gli italiani dalla minoranza slovena, privando entrambe le comunità di un essenziale arricchimento reciproco». Claudio Magris - per ricevere più stimoli e informazioni che si possono avere dalla lettura di questo inutile volumetto. Evitatelo, se potete.
This entire review has been hidden because of spoilers.
4 STELLE SON ECCESSIVE MA 3 SAREBBERO TROPPO POCHE
Bambino, Marco Balzano, voto: 7
Apprezzo molto Balzano, con questo suo “Bambino”, lo stimo anche di più, per quanto nell’insieme non mi ha convinto in toto. Romanzo molto coraggioso, più coraggioso che riuscito anche se si legge molto fluido e bene ed efficace fino alla fine. Lo considero coraggioso perché racconta (ottima la scelta della prima persona in questo caso) i (s)ragionamenti di uno squadrista, che come erano e sono tutti i suoi simii era poi un uomo meschino, disonesto e codardo. E immedesimarsi essendo (molto) sano di mente, e animo sensibile, come quello di Balzano non è semplice, anzi. Lo fa e ci riesce raccontandoci il ventennio a Trieste dalle prime “squadrate” al consolidarsi dell’impero, al suo sgretolarsi, nella campagna di Grecia, prima, durante l’occupazione nazi, poi e, infine, facendo lo slalom tra le foibe. Molto interessante anche, per la qualità ed efficacia dell’ambientazione, uno dei tanti talenti dell’autore. Non mi è piaciuto appieno perché ho trovato molto forzata e mal sviluppata l’ossessione per la ricerca della madre biologica lungo tutto il romanzo che in qualche modo calza male al personaggio. Né mi ha convinto proprio come articola l’avvicendarsi del personaggio nella parte delle foibe (ma ulteriori dettagli rivelerebbero troppo).