Israele stava già attraversando un periodo di crisi drammatica prima del criminale attacco del 7 ottobre 2023. Grandi manifestazioni chiedevano a gran voce le dimissioni di Netanyahu e del suo governo e il paese era praticamente bloccato. La risposta al gesto terroristico di Hamas con la guerra di Gaza rischia però di essere un vero e proprio suicidio per Israele. Da un lato, infatti, abbiamo l’involuzione del sionismo, o meglio dei sionismi: da quello originario della fine del XIX secolo, passando per quello liberale e favorevole alla pace con gli arabi, fino alla crescita del movimento oltranzista dei coloni e all’assassinio di Rabin. Dall’altro, il resto del mondo ebraico – la diaspora americana e quella europea – si confronta oggi con un crescente antisemitismo che, contrariamente alla propaganda di Netanyahu, non è la stessa cosa dell’antisionismo, ma che certo dalle vicende della guerra di Gaza trae spunto e alimento. Per salvare Israele è necessario contrapporre al suprematismo ebraico, proprio dell’attuale governo Netanyahu, l’idea che lo Stato di Israele deve esercitare l’uguaglianza dei diritti verso tutti i suoi cittadini e deve porre fine all’occupazione favorendo la creazione di uno Stato palestinese. Qualunque sostegno ai diritti di Israele – esistenza, sicurezza – non può prescindere da quello dei diritti dei palestinesi. Senza una diversa politica verso i palestinesi Hamas non potrà essere sconfitta ma continuerà a risorgere dalle sue ceneri. Non saranno le armi a sconfiggere Hamas, ma la politica.
"Anna Foa, con il saggio «Il suicidio di Israele» (Laterza) è la vincitrice della prima edizione del Premio Strega Saggistica. La premiazione si è svolta a Taobuk – Taormina International Book Festival. Così l’autrice ha commentato la vittoria: «Spero che il fatto che questo libro abbia preso questo premio così prestigioso possa contribuire a far emergere un po' di più il problema di Israele e dello Stato palestinese, e porre all'attenzione del nostro Paese quello che sta succedendo.»" (dalla pagina FB del Premio Strega)
Mi sono avvicinato a questo libro perché nelle recensioni avevo letto vari commenti riguardo all'imparzialità dell'autrice nel trattare un tema tanto complesso. Ho trovato la trattazione piuttosto confusa (mi aspettavo forse più ordine e chiarezza) e, a tratti, poco onesta. Sentire da una storica, quale è la scrittrice, chiamare ripetutamente il massacro in atto come "guerra di Gaza", mi pare, appunto, poco imparziale. Mi chiedo: si può definire guerra quello che sta succedendo in Palestina? L'esercito più potente del Medioriente, finanziato dalla nazione più ricca e industrializzata del mondo, contro un gruppo definito terrorista da alcuni Stati mondiali che conta meno di un terzo di unità. Si parla di almeno 46000 morti di civili di cui il 59% donne, anziani e bambini. Alla luce di questo, continuare a insistere sull'eccidio del 7 ottobre, senza mai nominare (eccetto un breve trafiletto nell'ultimo capitolo) i morti civili palestinesi e non riuscire a pronunciare la parola genocidio (giudicata controversa), ecco mi sembra veramente poco corretto. L'aspetto interessante, che salverei, è la spiegazione sulla differenza tra israeliani ed ebrei e le critiche al governo Netanyahu.
Quando si scrive un libro su eventi ancora in corso, si rischia che gli eventi stessi ne facciano invecchiare male il contenuto; un po' come i posti "invecchiati male" di certi personaggi politici. E questo è proprio il caso de "Il suicidio di Israele".
Innanzitutto trovo assurdo che si provi a raccontare oltre un secolo di una storia particolarmente complessa in appena 100 pagine, perché il risultato non può che essere molto approssimativo e superficiale; detto questo però mi sono ritrovato a leggere delle frasi che dal mio punto di vista sono inaccettabili per chiunque si definisca uno storico di mestiere nel 2025.
Già nel primo capitolo Anna Foa sostiene che sia impossibile paragonare la resistenza palestinese a quella dei partigiani italiani perché, e cito testualmente "La resistenza italiana non ha mai fatto vittime civili". PREGO?! Non so dove si sia formata Anna Foa, ma anche i muri sanno che purtroppo tantissimi civili sono caduti per mano della resistenza italiana. E' una verità storica, non un'opinione.
Per non parlare poi della frase in cui dice "Hamas, un'organizzazione terroristica condannata da Stati Uniti, Unione Europea e Canada" per poi continuare con "ma anche da ALTRI PAESI DEL TERZO MONDO". Ancora con questo appellativo ridicolo di terzo mondo per parlare di tutto quello che non è Europa e Nord America? Allucinante.
O ancora il continuo utilizzo del termine "Medio Oriente", retaggio culturale del colonialismo europeo che ancora nel 2025 non si schioda dal nostro linguaggio.
E vogliamo parlare di questo continuo termine della "guerra" a Gaza? Che guerra è quando una delle due parti non ha neanche i mezzi per difendersi e si fa letteralmente massacrare da uno dei più avanzati e meglio armati eserciti del mondo?
Ci sono sicuramente alcune parti interessanti, come quella sulle differenti correnti del sionismo e sull'immigrazione organizzata verso la Palestina occupata, tuttavia sembra sempre che nel racconto Anna Foa non voglia troppo esagerare nel definire le cose per ciò che sono, preferendo invece dare un colpo al cerchio e uno alla botte, per mostrarsi equidistante o super partes.
E per tornare a ciò che dicevo all'inizio, questo è il rischio che si corre a raccontare di vicende ancora in fase di sviluppo: hai fornito al lettore una fotografia un po' sfocata fino al settembre 2024, ma dalla pubblicazione di questo libro sono successi tanti di quegli eventi a Gaza, nella West Bank e a livello internazionale (non era ancora stato rieletto Trump!), che il libro sarebbe già da aggiornare. Siamo di fronte ad uno dei genocidi più gravi del nostro secolo (e uso le parole di storici e scrittori israeliani, nonché di sopravvissuti all'Olocausto e loro discendenti) e nel saggio non se fa neanche menzione.
L'ennesimo libro che parla di Istraele. Perchè si mescolano in me rabbia e voglia di capire. Dopo Lerner un'altra voce ebraica, quella della Foa. E questa, oltre a cercare nella Storia di due popoli costretti a vivere sulla stessa terra, le ragioni dell'oggi, si pone domande sul ruolo della diaspora. Come fece Primo Levi. Preciso nella sua analisi, essenziale nella sintesi. Ottimo libro per capire. Anche se l'impotenza a cui mi sento costretta davanti a stragi e massacri, fa prevalere in me la rabbia, più che la ragione.
I capitoli principali storici sono molto interessanti, ma il finale - la parte che effettivamente si chiama "il suicidio di Israele" è brevissima, veloce e, se posso, invecchiata male nel giro di pochi giorni. Addirittura dire che il mondo punta il dito contro Israele per quello che sta facendo? Vorrei sapere dove, dato che la maggior parte dei governi supporta Israele. Inoltre, non sono riuscita a passare sopra l'inesattezza storica per cui i partigiani non hanno commesso crimini contro i civili. Si può lodare l'opera della Resistenza italiana e allo stesso tempo i crimini che alcuni partigiani hanno compiuto. Da una storica, uno scivolone del genere proprio nel primo capitolo, non me l'aspettavo. La parte storica sul sionismo e la creazione dello stato di Israele, è ben fatta, ma anche qui molto veloce. Da un libro che ha meno di 100 pagine è normale, ma sembra un libricino tirato fuori ad hoc per l'attualità, preferirei invece che scrittrici e scrittori, studiose e studiosi, si prendessero più tempo per analizzare la situazione.
Il volume, nelle intenzioni dell’autrice, avrebbe dovuto “complicare le banalizzazioni, per rendere semplici e comprensibili i fatti e il pensiero, per aiutare a capire”. Spoiler: non ci riesce.
Definito come “saggio storico”, manca sia del rigore del saggio sia dell’imparzialità della ricerca storica. La narrazione è a volte distorta non solo nei contenuti, ma anche nel linguaggio e nelle scelte stilistiche.
Un esempio evidente è l’inizio del racconto, presentato come una lenta degenerazione di rapporti pacifici tra ebrei e arabi. La realtà, invece, affonda le radici nello strapotere dell’imperialismo e del colonialismo.
È vero che a fine Ottocento i rapporti tra le parti fossero relativamente buoni, ma già nel 1915 la Gran Bretagna stipulò un accordo con i Paesi arabi promettendo l’indipendenza in cambio del loro sostegno contro l’Impero ottomano. Poco dopo, nel 1916, Londra e Parigi firmarono il patto segreto Sykes-Picot, che prevedeva la spartizione delle province arabe in sfere di influenza coloniali.
La contraddizione esplose definitivamente con la Dichiarazione Balfour (1917), in cui la Gran Bretagna prometteva alla comunità sionista lo stesso territorio promesso al mondo arabo, al quale dunque venne negato. Tutto questo, cruciale per capire la genesi del conflitto, nel libro viene appena accennato.
Ancora più superficiale è il trattamento della risoluzione ONU del 1947, che sanciva la nascita dello Stato di Israele. L’autrice si limita a dire che fu respinta dai Paesi arabi, senza spiegare i motivi quel rifiuto.
Il piano prevedeva infatti una spartizione 55%-45%, pur essendo gli ebrei circa il 30% della popolazione, con vantaggi territoriali enormi: il porto di Haifa, la maggior parte delle terre coltivate a grano e dei terreni edificabili. Ai palestinesi rimaneva un territorio frammentato, privo di sbocchi sul mare e senza collegamenti diretti con l’Egitto. È evidente perché nessuna leadership araba potesse accettare una simile proposta, e perché poi la questione degenerò ulteriormente.
La sensazione che resta per la parte storica è quella di un racconto parziale e sbilanciato, dove eventi centrali vengono minimizzati. Alcuni passaggi sono interessanti, ma complessivamente il libro non regge il confronto con altri testi dedicati allo stesso tema (Pappé, Albanese). Chi lo ha premiato con il Premio Strega per la saggistica sembra non aver considerato la necessità, imprescindibile in storia, di confrontare più fonti per assicurarsi che il testo fosse veramente completo ed esaustivo.
Nella seconda parte del libro Anna Foa si concentra sul presente e segna un cambio di tono: l’autrice abbandona la ricostruzione storica e apre a considerazioni personali.
Alcuni passaggi sono condivisibili. La storica riconosce la validità della definizione di antisemitismo proposta dal Documento di Gerusalemme del 2021 – “discriminazione, pregiudizio, ostilità o violenza contro gli ebrei in quanto ebrei” – e denuncia l’uso distorto della definizione IHRA, che finisce per equiparare ogni critica a Israele a un atto antisemita. Un punto importante, che restituisce dignità a un concetto reso sempre più ambiguo da abusi retorici e politici.
Oltre a questi spunti e pochi altri, però, in questa parte la qualità crolla. Le opinioni della storica cadono spesso in semplificazioni o contraddizioni difficili da accettare, soprattutto per il peso del tema trattato.
“Le cose non sono così semplici”. Una frase ripetuta all’estremo, che diventa un alibi. In realtà la questione è semplice: Israele si comporta come una potenza coloniale che viola il diritto internazionale e reprime un popolo che reclama autodeterminazione. Dire che “non è semplice” serve solo a svuotare la realtà di responsabilità.
“Cosa cambia per chi muore se definiamo la sua morte massacro o genocidio?”. È sorprendente leggere una simile domanda in un libro di storia. Le parole hanno un peso, e dal 1948 esiste una definizione giuridica di genocidio proprio per evitare interpretazioni arbitrarie. Negare il valore della terminologia significa indebolire il diritto internazionale. È legittimo chiedersi se questa frase sia un’estemporaneità invecchiata male o un pensiero davvero condiviso. Inutile dire che Anna Foa non si sbilancia definendolo tale.
Il caso LGBTQ e il Pride. L’autrice scrive che il Pride emarginerebbe i movimenti LGBTQ ebraici. Un’affermazione che confonde deliberatamente i piani: i boicottaggi non colpiscono gli ebrei, ma Israele come Stato. Non menzionare questa distinzione significa rischiare di legittimare l’equivalenza Israele = ebrei, un cortocircuito concettuale pericoloso.
Il boicottaggio accademico. Viene criticato l’isolamento delle università legate al BDS (Boicott Divest Sanction), senza riflettere sul perché questo avvenga né sulla funzione politica dei boicottaggi nella storia. Esistono varie letture interessanti sull'argomento come "Disobbedire" o "Come Fare Saltare un Oleodotto".
Lo slogan “dal fiume al mare”. La storica lo interpreta come possibile slogan antisemita, domandandosi se chi partecipa alle manifestazioni e ripete queste frasi ne comprenda il significato. Israele è a maggioranza ebraica, ma gli ebrei non devono essere automaticamente identificati con le politiche israeliane. Inoltre, se si accusa di antisemitismo chi pronuncia quello slogan, perché non si menzionano dichiarazioni speculari come quelle del Likud (“tra il Mare e il Giordano ci sarà solo la sovranità israeliana”) o slogan apertamente razzisti come “Death to the Arabs”? Il silenzio su questo punto è una grave omissione.
Il libro si chiude sostenendo che i vertici israeliani dovranno pagare per ciò che hanno fatto, che la vita in Israele dovrà ricominciare e che le due parti dovranno tornare a dialogare. Ma la storica non affronta la questione decisiva: dialogare su cosa? Con chi? E con quale equilibrio di forze? Qui risuona molto più lucida la voce di Ghassan Kanafani, che già negli anni ’70 spiegava come non possa esserci “dialogo” tra un progetto coloniale e un movimento di liberazione nazionale. Parlare di “pace” senza riconoscere le asimmetrie equivale, semplicemente, a parlare di resa.
In conclusione, il volume non riesce né a chiarire né a illuminare. Semplifica dove dovrebbe spiegare, sorvola dove dovrebbe scavare. Un'occasione mancata. Se questo è il miglior saggio del 2025, allora la misura del Premio Strega per la saggistica non è la solidità dell’analisi ma qualcos'altro.
*2eMezzo* "Non possiamo dare per scontato che l'odio lasciato da tutti questi traumi cesserà un giorno."
Più che un libro è un lungo articolo che cerca di fare chiarezza sulle origini del conflitto e analizzare quanto sta accadendo. Pubblicato nel 2024 manca di gran parte degli avvenimenti degli ultimi mesi. Ho trovato eccessivamente cauta l'analisi che viene proposta, come se si cercasse comunque di giustificare l'ingiustificabile senza dirlo apertamente... Comunque è necessario più che mai non restare nella propria "bolla" e contonuare a leggere opinioni e valutazioni provenienti da ogni voce, per poter capire, approfondire, provare a elaborare.
Un saggio utile, ma con dei difetti soprattutto nel finale. L’excursus storico è interessante, ma ne avevo già letto altrove, soprattutto nei testi di Ilan Pappè, e le analisi finali su ciò che Israele sta compiendo a Gaza non ha avuto lo spazio che mi aspettavo. In più, secondo me, non è stato davvero approfondito il concetto di “suicidio” verso cui starebbe andando incontro. Mi è sembrato un saggio che si limita a scalfire appena la superficie di un enorme iceberg di crudeltà e sadismo. Aggiungo che ci sono diversi aspetti , nel finale, che proprio non mi sono piaciuti. Innanzitutto il rifiuto di chiamare il massacro di Gaza “genocidio”, perché tutto ciò che Israele sta facendo è finalizzato all’annientamento del popolo palestinese, non possono davvero esserci dubbi al riguardo. Aggiungo che anche l’accenno al fatto che durante il pride ci si sia “dimenticati” del fatto che Hamas non tollera gli omosessuali è assolutamente pretestuoso. Innanzitutto è evidente che gli estremisti islamici sono omofobi e intolleranti verso l’omosessualità nessuno lo nega, così come, per inciso, lo sono gli estremisti ebrei, ma non è che questo rende le vittime del massacro meno meritevoli di attenzione e/o compassione, iniziamo a legittimarne l’esistenza (dignitosa), poi si potrà parlare di diritti umani e rispetto per le minoranze. Infine l’autrice stigmatizza lo slogan urlato nelle manifestazioni “dal fiume al mare” sostenendo che implica il concetto di annientamento dello stato di Israele, peccato sia esattamente ciò che vorrebbe anche la maggior parte degli israeliani per la propria nazione, solo che loro sono guidati proprio da quel governo che sta radendo al suolo Gaza e la Cisgiordania e sterminando i palestinesi che le abitano. Direi che c’è una bella disparità di potere e capacità di intervento.
Insomma, ci si prova a contestualizzare tutto e si ammettono molte colpe degli israeliani, ma credo si sarebbe dovuti andare più a fondo ed essere più obbiettivi e onesti.
Un saggio indispensabile per questo tempo disgraziato che viviamo dove l’orrore si aggiunge all’orrore. Autrici come la Foa che fanno della ricerca storica, della documentazione e dell’onestà intellettuale al di là del credo religioso e politico una ragione di essere e forse di vivere rappresentano una luce nelle tenebre e nel buio in cui la civiltà sta sprofondando. Il saggio che ha il dono, raro, della sintesi ci guida nell’intricata e complicata esistenza di una terra e di due popoli che la abitano, una contesa mortale ed all’ultimo sangue ma non è stato sempre così ed in varie occasioni si è sfiorata non solo la pace ma anche una soluzione basata sulla convivenza basta citare gli accordi di Oslo o quelli di camp David del 2000. Poi c’è stato il 7 ottobre e gli estremisti di ambedue le parti hanno preso il sopravvento e la signora Guerra ha dettato le sue guerre ed il suo prezzo da pagare .
L’autrice si chiede se il sionismo sia colonialismo, apartheid, razzismo e la risposta non può che essere sì. Si chiede se ciò che Israele sta facendo a Gaza, in Palestina, sia genocidio e la risposta è sì. Tutto il resto è fuffa. Sempre prontissimi a riconoscere la Shoah, ma sempre titubanti (seppur in minima parte, come in questo caso) quando le vittime sono gli altri; e loro, solo loro i carnefici. Siete diventati ciò che odiavate.
Questo saggio, dal titolo provocatorio, analizza la situazione del conflitto tra Israele e Palestina riassumendo dapprima le tappe storiche dei conflitti e delle trattative (fallimentari) di pace per poi analizzare l’ideologia di radice ebraica che muove Israele nelle sue compagne contro la Palestina. Parallelamente, si analizzano gli eventi del 7 ottobre, con l’attacco di Hamas a scapito di civili e militari israeliani. Molto interessante soprattutto l’ultima parte, in cui si comprende cosa si intenda per "suicidio di Israele". Si tratta di suicidio fisico, territoriale (per i conflitti con più di un paese del Medio Oriente), suicidio politico (per l’estremismo presente nel governo attuale e per le strategie fallimentari di Netanyahu) e, infine, quello morale e etico (per i crimini contro l’umanità commessi a scapito dei civili della Striscia di Gaza). Un saggio molto fruibile, dal tono equilibrato, ricco di spunti di riflessione per inquadrare questa difficile situazione politica e umanitaria.
"E in qualche misura, coi necessari compromessi, la vita ripartirà in Israele e nei territori palestinesi. Compromessi, perché dopo questa terribile esplosione di odio la strada non dico per la pace ma per una semplice convivenza è lunga. Le ferite devono rimarginarsi, quello che è stato distrutto deve almeno iniziare ad essere ricostruito. Netanyahu e il suo governo devono pagare non solo per quello che hanno fatto ai palestinesi di Gaza, ma anche per quello che la loro politica ha comportato per la stessa Israele."
L’autrice e’ delicata ma ferma, e racconta la verità, almeno una parte. Ci dà una spiegazione dell’origine di quelli che sono bias cognitivi oggi molto diffusi sulla questione palestinese, e sicuramente concordo su una cosa: la realtà è molto più complessa di quanto possa apparire.
In relazione alle aggressioni e alla politica israeliana, il problema è che sto leggendo “Fateful Triangle” di Chomsky, che seppur arriva a descrivere fatti fino agli anni ‘90, da’ una prospettiva molto diversa, e documenta le affermazioni con innumerevoli riferimenti, cosa in cui Chomsky e’ maestro.
Siamo sicuri che sia iniziato tutto il 7 ottobre? O che questa data sia tanto significativa da poterla considerare una pietra miliare nel cambio di prospettiva e nell’atteggiamento di molti paesi dell’Alleanza Atlantica?
Ci sono colpe da entrambi i lati, ci sono innumerevoli occasioni non sfruttate, e ci sono sentimenti, come il vedersi sempre come vittime che ostacolano il processo di pace….
Citare positivamente "storici" israeliani, come Benny Morris, che si sono dichiarati sionisti e che hanno definito la Nakba e l'espulsione di 700mila palestinesi "necessario", e citare altrettanto positivamente sionisti liberali come Amos Oz, che riteneva inaccettabile che i palestinesi diventassero una maggioranza in terra di Palestina, rende bene l'idea di ciò che sta dietro a questo libro. Si vuole forse presentare come un testo "bipartisan", ma è più che di parte. Fa parte di quella cultura sionista "soft", "liberale", "di sinistra", volta a portare dalla propria parte quella grande fetta di opinione pubblica che, sì, condanna le atrocità più mostruose di Israele, ma sempre con un MA. Interpretazioni storiche assolutamente di parte, e spostamento del focus dalla questione palestinese a Israele, Israele, Israele. Il titolo non è un caso, la copertina non è un caso. Parla di limitazioni e discriminazioni attuate nei confronti del popolo palestinese come "motivi di sicurezza". Anche per descrivere atti terroristici israeliani, condannati, non vengono usate le parole corrette, e anzi, emerge grande disparità rispetto a quando, invece, si citano episodi in cui le vittime (spesso di loro stessi) sono gli israeliani. Non basta la critica al governo di Netanyahu, e non basta nemmeno (seppur forse unico punto un minimo positivo del libro) la distinzione tra antisemitismo e antisionismo. Malissimo sulla definizione di genocidio, malissimo sul trattamento paternalistico delle proteste studentesche per Gaza. Libro pericoloso.
Anna Foa affronta l'attuale drammatica situazione che vede impegnato Israele su più fronti, ma più di tutti a Gaza e nella West Bank.
Ricostruisce la storia del sionismo e come si è arrivati alla costruzione dello stato di Israele, ripercorre, seppur senza particolari approfondimenti, i conflitti del 48 e poi la crisi di Suez, la guerra dei sei giorni e quella dello yom Kippur, delinea il modo in cui Israele è finito per essere visto dai paesi arabi come una longa manus del colonialismo occidentale.
Sì ripercorrono i momenti in cui la pace è sembrata vicina, come nel caso degli accordi di Oslo, vanificati dall'attentato a Rabin, per poi arrivare alla politica sempre più di destra e sempre più vicina ai rappresentanti dei coloni e sei sostenitori della Grande Israele, fino ad arrivare all'attuale governo che conta due ministri di chiara tradizione suprematista e razzista.
Inoltre, si parla di antisemitismo e antisionismo e del modo in cui questi termini vengono strumentalizzati.
Ne viene fuori un disegno che lascia poche speranze per i sostenitori della pace, per i diritti dei palestinesi, ma anche per gli israeliani stessi, che si ritrovano sempre più nemici in giro per il mondo.
Un bel libro per avere un quadro della situazione, scritto in modo scorrevole, che dà poche cose per scontate.
Un breve saggio che non può certo essere onnicomprensivo. Uno spunto di riflessione e di approfondimento su un argomento spinosissimo che divide e che crea fazioni. La lettura di testi sull'argomento si presta alla ricerca di conferme sulle proprie posizioni o di critiche ed accuse per visioni divergenti. Il presente difficilmente si presta a posizioni equilibrate che non ci toccano e non esiste mai UNA vertà assoluta. Uno piccolo saggio con una linea temporale storica, necessariamente concisa e non esaustiva e le riflessioni dell'autrice. Un ottimo punto di partenza per fautori e detrattori per non limitarsi ad una lettura ed una critica ma stimolo per approfondire e studiare. Non ho apprezzato la lettura di Daniela Cavallini, a volte didascalica in modo molesto, a volte piatta e monotona. Forse non il libro più adatto da ascoltare in versione audiolibro.
Un gradito regalo natalizio per comprendere meglio le ragioni di una delle tante tragedie contemporanee che si consumano davanti ai nostri occhi, e di cui molti ignorano le cause. L'autrice non vuole dare giudizi ma raccoglie in poche pagine, con grande chiarezza, fatti e personaggi che hanno determinato l'attuale stato delle cose in una terra tormentata.
Un saggio che racconta i fatti in modo imparziale, analizzando le problematiche da più punti di vista. Un libro da leggere se dell'argomento sapete poco o se volete capire meglio quello che è successo negli ultimi due anni.
Scritto ad agosto 2024 e pubblicato ad ottobre, Il suicidio di Israele di Anna Foa invecchia in fretta: l’accelerazione degli eventi mediorientali lo rende più un’istantanea sfocata che un’analisi duratura. Anna Foa prova a mantenere un tono imparziale, ma qua e là spuntano commenti decontestualizzati e alcune imprecisioni storiche (come quando afferma che i partigiani non avrebbero mai commesso crimini contro i civili). Ancora più problematica è l’affermazione che Israele sarebbe «isolato» sulla scena internazionale: i massicci aiuti militari statunitensi dopo l’ultima escalation con l’Iran mostrano l’esatto opposto. L’excursus storico e le distinzioni tra termini come sionismo, antisionismo, antisemitismo, Israele ed ebraismo sono tra le parti più riuscite del saggio, e di fatto è proprio questo il nucleo più solido del libro, molto più del “suicidio” evocato nel titolo, che resta una formula provocatoria più che una chiave di lettura politica approfondita. Il problema principale è che trarre conclusioni su una guerra ancora in corso — e su un’accusa di genocidio che Foa si rifiuta persino di nominare — è rischioso, se non impossibile. I rapporti di forza cambiano di continuo e ogni analisi rischia di diventare obsoleta nel giro di poche settimane.
Quello che succede oggi in Medio Oriente è per Israele un vero e proprio suicidio. Un suicidio guidato dal suo governo, contro cui – è vero – molti israeliani lottano con tutte le loro forze, senza tuttavia finora riuscire a fermarlo. E senza nessun aiuto, o quasi, da parte degli ebrei della diaspora Libro fondamentale. Perchè, da un pultpito che non può essere tacciato di razzismo o antisemitismo, spiega a chiare lettere come sta EFFETTIVAMENTE la questio israelo-palestinese, partendo da una precisa analisi storico-politica.
Molto di quello detto lo sapevo; altro lo aggiunto. Ma l'analisi è ineccepibile. E, come sempre, pare inascoltata
Una situazione che portava acqua al mulino dei due opposti oppositori della pace e della nascita di uno Stato palestinese, Hamas e il governo israeliano. Nemici ma concordi su una cosa sola, sabotare la soluzione dei due Stati, distruggerne la possibilità stessa nel futuro
Fin dall’inizio della guerra, invece di cercare di tirare dalla sua parte i palestinesi della West Bank e di prospettare la creazione dello Stato, mossa che avrebbe potuto dividerli da Hamas, il governo appoggiava le aggressioni contro i palestinesi attuate tanto dai coloni quanto dall’esercito nei territori dell’Autorità Palestinese e aumentava all’estremo la pressione militare su Gaza, con il solo risultato di far crescere il consenso palestinese intorno a Hamas
Da una parte si dice che Israele è un paese democratico, l’unico del Medio Oriente, senza considerare che un paese che porta avanti un’occupazione da oltre cinquant’anni esercita almeno una democrazia limitata; dall’altra si esalta Hamas e la sua azione terroristica come legittima resistenza all’occupazione, paragonandola in Italia alla Resistenza contro il nazifascismo, Resistenza che non ha mai commesso crimini contro i civili, senza tener conto del fatto che l’attacco di Hamas non è stato un atto di resistenza ma un crimine contro l’umanità.
“una finestra di opportunità per una pace tra Israele e alcuni Stati vicini esistette certamente fra la fine del 1948 e il luglio 1952” (Morris 2001: 339), ma che essa non fu sfruttata da nessuna delle parti, né da Israele, poco disposta a concessioni importanti, né dai leader arabi, molto condizionati dalla loro opinione pubblica e dagli Stati arabi vicini. La nuova situazione comportava tuttavia il rischio di altre guerre: da una parte i confini del 1948 tagliavano in due molti villaggi arabi e separavano comunità e famiglie, con le conseguenze sociali ed emotive che si possono immaginare, dall’altra tutto questo non garantiva neanche la sicurezza di Israele perché la strozzatura di soli quindici chilometri al suo centro la esponeva al rischio di nuovi attacchi.
Leibowitz negava ogni diritto divino degli ebrei alla terra di Israele e sosteneva che l’occupazione avrebbe avvelenato l’animo degli israeliani trasformandoli in “giudeo-nazisti”. Tornava il paragone coi nazisti, già fatto nel 1956 dalla stampa israeliana a proposito dell’eccidio di Kfar Kassem. Oggi questa equiparazione ha un sapore decisamente antisemita, ma bisogna ricordare che esso ha origine in Israele sulla bocca di personaggi che certo non possono essere accusati di antisemitismo e preoccupati in primo luogo dei principi morali degli ebrei.
Si sente spesso dire che Israele è uno Stato confessionale. Durante le ultime manifestazioni prima del 7 ottobre è stato anche uno degli slogan più diffusi dei manifestanti, “l’Iran è qui”. Ci si riferiva all’acquiescenza del governo nei confronti dei partiti religiosi che lo sostengono, non solo i sionisti religiosi ma anche gli ultraortodossi. In realtà Israele è una strana mescolanza di laicismo e religione: in molte zone gli autobus non circolano il sabato, il giorno di riposo settimanale, e quando lo fanno suscitano reazioni durissime da parte dei religiosi; nei supermercati si vendono solo cibi kasher, anche se molti negozi, anche a Gerusalemme, città assai meno “laica” di Tel Aviv, vendono maiale e crostacei, cibi proibiti dalle norme alimentari ebraiche. Non esiste il matrimonio civile, e chi si sposa civilmente va a farlo a Cipro. È il frutto del patto fondamentale che all’epoca della fondazione dello Stato Ben Gurion ha stretto con i religiosi, lui laico convinto ma persuaso che in una o due generazioni non ci sarebbero più stati religiosi e che non valesse la pena creare una spaccatura nel nuovo Stato sulla questione religiosa. In realtà, è successo il contrario. I sionisti religiosi, fanatici della grande Israele data da Dio al popolo ebraico, si sono moltiplicati grazie al gran numero di figli, così come si sono moltiplicati gli ultraortodossi, gli haredim, coloro che sono stati esentati fino ad oggi, per studiare i testi sacri, dal servizio militare.
Come la Shoah è stata, dopo il processo Eichmann, al cuore dell’identità ebraica israeliana, così la Nakba è stata al cuore di quella palestinese. Due memorie, due identità contrapposte ma molto simili, non perché la perdita della casa e l’esilio possano confrontarsi alla pari con la camera a gas, ma perché “entrambe sono identità nazionali in cui la dimensione della catastrofe e del trauma svolgono un ruolo centrale e dove la narrazione nazionale ruota in gran parte attorno a motivi legati all’essere vittime e alla perdita subita” (Bashir e Goldberg 2023: 24).
La memoria della Nakba, come quella della Shoah per gli ebrei, alimenta così identità radicalmente contrapposte. Lo sarà per sempre o esiste una possibilità di dialogo anche per identità e memorie? Ma è possibile conciliare la memoria con la giustizia nel momento in cui una delle due vittime è anche vittima dell’altra, come nel caso dei palestinesi?
Proprio riconoscendo le discriminazioni e le sofferenze che il sionismo ha inferto al popolo palestinese, con le ricordate vicende della Nakba nel 1948, il regime militare imposto ai cittadini palestinesi di Israele dal 1948 al 1966 e l’occupazione dei Territori che prosegue ininterrotta dal 1967, per il post-sionismo è necessario voltare pagina, passando da ‘uno Stato ebraico e democratico’, come Israele si è ufficialmente definito nel 1992, a ‘uno Stato democratico per tutti i suoi cittadini’, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica, nazionale, religiosa” (Marzano 2017: 211)
in Italia il movimento delle donne “dimentica” gli stupri del 7 ottobre e il pride emargina i movimenti LGBTQ ebraici costringendoli a non partecipare (come è avvenuto a Roma) e di nuovo “dimenticando” gli omosessuali impiccati da Hamas a Gaza. Tutto vero. Ma la colpa non è certo solo dell’antisemitismo, o dell’ignoranza e del fanatismo dell’estrema sinistra, ma del comportamento dello Stato di Israele e del suo governo dopo il 7 ottobre, dei morti innocenti causati nella guerra di Gaza, dei proclami di pulizia etnica fatti dai ministri di quel governo, che risuonano sinistri alle orecchie del mondo.
a questione dell’uso della Shoah. Che Ben Gurion abbia visto nel dopoguerra nello sterminio degli ebrei d’Europa l’occasione storica per la creazione dello Stato, è evidente. Che per raggiungere questo obiettivo abbia deciso che era necessario presentare i conti di quei sei milioni di morti non solo alle nazioni europee, nessuna delle quali, in misura maggiore o minore, era del tutto innocente della Shoah, ma anche agli abitanti arabi della Palestina, è stato forse considerato una necessità. Possiamo discutere se l’uso che Ben Gurion, nel 1961, ha fatto del processo Eichmann elevando la memoria della Shoah a pilastro identitario dello Stato sia stato o meno cinico e strumentale, ma nulla lo rende uguale al cinismo con cui oggi il governo israeliano la usa contro i palestinesi macchiando questa memoria indegnamente e speriamo non indelebilmente.
La brevità di questo saggio non rende giustizia a una storia articolata e difficile come quella del conflitto Israelo-palestinese. Non rende neanche giustizia all'intricata storia del sionismo, movimento che ha sicuramente necessità di essere studiato e compreso, per poter comprendere così una delle due fazioni in gioco. L'ho trovato forse un po' semplicistico, inferiore di qualità a "j'accuse", scritto anch'esso dopo il 7 ottobre.
Scrittura non sempre lineare, ma comunque nel complesso chiara. Potrebbe essere un lavoro da ampliare per essere definito un buon saggio sull'argomento. Buono per un'infarinatura generale
vorrebbe validare una tesi ma è piena di semplificazioni eccessive e frasi mezzo dette, mezzo dette male, che fanno sembrare che dica tutto e il suo contrario. Onestamente mi pare un bigino mal riuscito di Israele, Palestina di Gresh. Non aggiunge e non toglie. Capisco poco il premio strega (visti a che gli altri saggi in gara).
Ho collezionato un sacco di cassetti dove riporre mucchi di nuove informazioni, vedute, punti di vista, orrori & cotillon. Nel primo, inutile sottolinearlo, staziona Anna Foa, la cui figura, lo ammetto, mi era ignota fino alla conoscenza di questo volume, citato a più voci in alcuni media. In un secondo cassetto ho riposto un’insaziabile curiosità verso le religioni, il che è sufficientemente sorprendente, vista la mia siderale distanza da dogmi, rituali tribali, caste privilegiate, detentori assoluti del sapere e via sacerdotando. Trovo le religioni stimolanti per ciò che nascondono, sottintendono, per i rituali così legati alla terra ancestralmente dominati da culti del rurale quotidiano, cementificati in liturgica quanto inattaccabile ortodossia, smaccati evidenziatori antropologici. Così è l’ebraismo, a me del tutto oscuro, e, proprio per questo, attraente nei propri monolitici rituali. Chiudo il cassetto e passo ad altro, al pertugio più ostico, all’apertura più insidiosa. Tra un maglioncino infeltrito e una camicia rattrappita, e dopo aver consumato le poche pagine de “Il suicidio di Israele” vi si nasconde una domanda che zampetta sistematica tra i dubbi più ostinati e non vuole saperne di sgusciar via: cosa rende la violenza, violenza? Come sempre, Treccani-mon-amour: “Atto o comportamento che faccia uso della forza fisica (con o senza l’impiego di armi o di altri mezzi d’offesa) per recare danno ad altri nella persona o nei beni o diritti. In senso più ampio, l’abuso della forza (rappresentata anche da sole parole o da sevizie morali, minacce, ricatti), come mezzo di costrizione, di oppressione, per obbligare cioè altri ad agire o a cedere contro la propria volontà”.
“Un governo appena decente avrebbe dovuto, di fronte all’eccidio del 7 ottobre, preoccuparsi in primo luogo degli ostaggi. Avrebbe dovuto, nella sua politica verso i palestinesi, distinguere i terroristi di Hamas dai palestinesi dell’ANP, e attuare immediatamente una politica nei confronti di questi ultimi volta ad isolare Hamas, non a farne crescere la reputazione come il baluardo della resistenza. Questa non è stata la politica di questo governo. E come avrebbe potuto, se l’unico suo obiettivo è sbarazzarsi dei palestinesi e creare la grande Israele, voluta da Dio?”
Costringere il prossimo alla propria volontà, con ogni mezzo. Redimere le controversie con la violenza, appunto, evitando ogni possibilità di dialogo. È l’aspetto che più ha colpito nella lettura: il rifiuto di rispondere alla violenza con la violenza, ma la volontà di metabolizzare e valutare rintuzzando odii e velleità belligeranti. In un quarto cassetto poggio una riflessione: “Non agire e non reagire, ma attendere, riflettere, ponderare”. L’ultimo cassetto è ancora chiuso. C’è un adesivo sghembo fissato male. C’è scritto a mano: “Violenza”. Non riesco ad aprirlo, non mi va proprio. È un buco nero che inghiotte sentimenti, sensazioni, umanità. Temo la violenza perché, a volte, ne sono succube, perché ha un’irresistibile fascinazione, perché è una reazione a noi congeniale, atavica, e così facile da indossare. Giorni fa ho scritto di muri, fisici e non. Violenza è anche muri insormontabili, nessuna comunicazione, nessun intreccio, nessuna promiscuità che possa allentare l’odio e l’incomprensione. Son rimasto a lungo a fissare quell’adesivo. Ho camminato fino alla finestra. Son tornato indietro. Ho poggiato di nuovo gli occhi su quella targhetta dal tono così definitivo: “Violenza”. Ho preso la chiave e chiuso a doppia mandata quel maledetto cassetto e sono uscito. Ho trovato un promettente e tiepido sole. Il cielo pulito, poche auto in giro, un gatto che annusa distratto un ciuffo d’erba poco lontano. Tutto sommato si sta prospettando una bella giornata.
“Gli israeliani dovranno trattare con Hamas, colpevole della terribile strage del 7 ottobre, ma i palestinesi dovranno trattare con chi è colpevole di aver distrutto le loro case e ucciso le loro famiglie. Non possiamo dare per scontato che l’odio lasciato da tutti questi traumi cesserà un giorno. Ma non ci sono altre strade che questa”.
Anna Foa è una storica italiana, laureata in storia moderna all'Università "La Sapienza" di Roma. Dapprima pubblica saggi centrati su temi riguardanti la storia della cultura nell'età moderna, la stregoneria e il rapporto tra eresia, ateismo e magia, mentre dalla fine degli anni ottanta si concentra sulla storia degli ebrei in Europa e in Italia. Ha partecipato a programmi culturali Rai in cui ha discusso largamente sui temi relativi al processo di Eichmann e all'antisemitismo.
Il libro, pur trattandosi di un saggio breve, narra della questione arabo-israeliana partendo dalle radici, ovvero dalla diaspora. Anna Foa espone in maniera esatta e accessibile a tutti, la trasformazione che ha subito nel corso del tempo il concetto di sionismo, originariamente nato come “ideologia che considera gli ebrei un popolo e che ne sostiene il diritto al ritorno nella loro terra originaria, la Palestina” e modificato nel tempo fino ad assumere un altro volto, quello caratterizzato da movimenti religiosi a tratti coloniali. L’autrice ripercorre le tappe cruciali della storia israeliana: gli ebrei vittime di pogrom nella Russia zarista, la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 e la conseguente Nakba, la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, l’attacco del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas ed infine la politica dell’attuale governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu.
L’autrice offre al lettore un elenco ordinato degli avvenimenti storici senza scavare in profondità, si ha la sensazione di immergersi nella storia solo in parte e tale metodologia conferisce al libro un tono prettamente superficiale.
Tuttavia, questo libro può essere uno strumento utile per chi vuole comprendere le origini delle attuali tensioni nel Medio Oriente, ma soprattutto può essere utilizzato come vademecum per riflettere su concetti complessi come sionismo, antisemitismo e diaspora.
Nella parte conclusiva del saggio, Anna Foa chiarisce il significato del titolo, il “suicidio” causato dalle scelte politiche dell’attuale capo del governo israeliano, Benjamin Netanyahu, prive di valori democratici. L’autrice utilizza l’espressione “rischio d’involuzione in senso antidemocratico” per indicare la regressione che lo Stato di Israele sta generando con le scelte di natura politica, sempre più distante dalla democrazia. Il linguaggio è chiaro e semplificato, permettendo a chiunque di far permeare con facilità gli eventi narrati. Tuttavia, leggendo alcuni articoli sulle ultime interviste rilasciate da Anna Foa è facile apprendere che questo libro ha fatto discutere molto. Alcune critiche sono arrivate da parte di comunità ebraiche, le quali non hanno accolto positivamente il giudizio dell’autrice nei confronti del governo israeliano, considerando persino provocatorio il termine “suicidio”, ritenuto troppo eccessivo. A tratti si ha l’impressione che Anna Foa abbia voluto intenzionalmente portare alla luce le responsabilità di Israele, mettendo in ombra quelle palestinesi. In realtà credo che questa sensazione sia influenzata esclusivamente dal titolo del libro, poichè come specifica nella premessa: “Una soglia è stata varcata, dagli uni come dagli altri”. Nel complesso ho apprezzato molto “Il suicidio di Israele” in quanto lo reputo stimolante per generare riflessioni e approfondimenti sulla relazione tra Palestina e Israele. Lo consiglio a chi desidera comprendere meglio le origini del conflitto e un assaggio degli eventi cruciali che hanno contribuito a consolidare l’attuale situazione dei due popoli.
Dopo aver letto il saggio mi chiedo le ragioni per cui a questo libro sia stato conferito il Premio Strega 2025 per la saggistica. Trovo il libro poco onesto nel trattare le enormi responsabilità di Israele nel genocidio in corso, parola che la storica evita in tutto il saggio (nella p.84 sostiene che ci vorrebbe l'intenzionalità... come se il governo israeliano non l'avesse mai dichiarata!), ricorrendo ai termini-maschera come ''il massacro di Gaza'', ''la guerra di Gaza''. Inoltre è molto deludente ritrovare i soliti cliché con le sfumature di pinkwashing come quello degli omosessuali impiccati da Hamas, mentre Israele è così aperta alle minoranze (tranne quando si tratta delle comunità dei coloni religiosi pazzi di ultradestra). Poi il libro pecca di non capire proprio le cause per cui i movimenti pro-palestina chiedano alle università italiane di interrompere le relazioni con Israele (lo chiedono da anni anche accademici ebrei come Judith Butler!). E l'ultimo: non tutto quello che è pro-palestina è anti-israeliano, questo giochino ha davvero stufato. L'unica parte un po' più utile che salverei del libro è la ricostruzione della storia del sionismo (o, secondo l'autrice, dei sionismi) mostrando che una parte della diaspora effettivamente credeva nella possibilità dello Stato binazionale, specifichiamo: la minoranza. Ma la posizione dell'autrice stessa, qual è?? Personalmente ho trovato molte più risposte (e posizione più onesta) nel libro di Enzo Traverso ''Gaza davanti alla storia'', 2024.
Anna Foa scrive un libro per tutti ma in particolare, come racconta quasi alla fine, per quei giovani che nei cortei gridano "Palestina libera" senza forse conoscere bene la storia di quella terra. Prezioso il ripercorrere tutta la storia dei rapporti fra lo Stato di Israele ed i palestinesi, fin dalle origini, sottolineando in maniera obiettiva limiti, colpe e sofferenze dell'una e dell'altra parte e soprattutto i tanti errori commessi avallati dalle potenze arabe, europee e dagli Stati Uniti. E poi l'importante riflessione sullo stato attuale delle cose, sull'antisemitismo bandito come clava, sulla differenza fra terrorismo e vendetta, fra democrazia e dittatura... La guerra finirà prima o poi, gli estremismi si ritireranno o verranno farti cadere, allora le ferite dovranno rimarginarsi e l'odio dovrà trovare la strada per cessare...una strada sempre più complessa.
Questo libro ha vinto quest’anno la prima edizione del premio strega saggistica, pochi giorni fa, il 20 giugno. Allora, non è il primo libro che leggo sull’argomento, ma è il primo libro che mi lascia così: 🤷♀️ , almeno fino a 3/4. Dico questo perché finalmente alle ultime 10-15 pagine si capisce il pensiero dell’autrice, che è di condanna nei confronti di Hamas, ma anche nei confronti di Israele, per tutti i motivi che conosciamo ormai purtroppo benissimo, definendo addirittura la politica estremista attuale la causa di un vero e proprio “suicidio” per lo stato di Israele. Purtroppo, in tutto il resto del libro, però, dava un colpo al cerchio e un colpo alla botte, era come se quasi avesse paura di dire la sua, cioè la diceva ma pianino, per non fare torto a nessuno.. e non è che mi sia piaciuto proprio tanto, ecco!
Un libro utilissimo perché ripercorre decenni e decenni di stragi e scava nella storia dei motivi che hanno incancrenito la regione mediorientale fino all’affaccio del 7 ottobre 2022 e ai giorni nostri. In modo laico e per nulla partigiano la Foa critica specialmente Israele. Se una nazione si dichiara democratica può perpetrare un genocidio uccidendo chiunque nella famigerata ‘striscia’ aggiungo io utilizzando la frase biblica: dal più piccolo al più grande? Se Palestina e Israele non si riconosceranno mai sarà impossibile una pace. La prima strada potrebbe essere la caduta auspicata del governo Netanyao e di alcuni ministri accecati dall’odio incapaci quindi di potere immaginare alcuna pace con il ‘nemico’.