C’è una donna in questa storia che, di fronte alla figlia appena nata, ha una sola da ora non potrà mai più permettersi di impazzire. La follia nella sua famiglia non è solo un pensiero astratto ma ha un nome, e quel nome è Venera. Una bisnonna che ha sempre avuto un posto speciale nei suoi sogni. Ma chi era Venera? Qual è stato l’evento che l’ha portata a varcare la soglia del Mandalari, il manicomio di Messina, in un giorno di marzo? Per scoprirlo, è fondamentale interrogare la Mitologia Familiare, che però forse mente, forse sbaglia, trasfigura ogni episodio con dettagli inattendibili. Questa non è solo una storia di donne, ma anche di uomini. Di padri che hanno spalle larghe e braccia lunghe, buone per lanciare granate in guerra. Di padri che possono spaventarsi, fuggire, perdersi. Per raccontare le donne e gli uomini di questa famiglia, le loro cadute e il loro ostinato coraggio, non resta altro che accettare la non basta sognare il passato, bisogna andarselo a prendere. Ritornare a Messina, ritornare fra le mura dove Venera è stata internata e cercare un varco fra le memorie (o le bugie?) tramandate, fra l’invenzione e la realtà, fra i responsi della psichiatria e quelli dei racconti familiari. Nadia Terranova ci consegna con queste pagine il suo romanzo più personale e più intenso, che ci interroga sul potere della memoria, individuale e collettiva, e sulla nostra capacità di attraversarla per immaginare chi siamo.
Nadia Terranova (1978) è nata a Messina e vive a Roma. Tra i suoi libri, Bruno. Il bambino che imparò a volare (Orecchio Acerbo 2012, illustrazioni di Ofra Amit) che ha vinto il Premio Napoli e il Premio Laura Orvieto ed è stato tradotto in Spagna. Collabora con «IL Magazine» e «pagina99». Gli anni al contrario (Einaudi Stile Libero 2015) è il suo primo romanzo.
Non mi ha per niente convinto il nuovo libro di N. Terranova, di cui avevo particolarmente apprezzato "Addio fantasmi": l'autrice scava nella propria storia familiare, cercando (con grande affanno) di portare alla luce la storia della sua bisnonna, internata nel manicomio di Messina nel 1928. Purtroppo la narrazione è continuamente frammentata dalle considerazioni dell'autrice, che non lascia spazio, né respiro, alla figura della sua antenata Venera, che si limita ad essere oggetto di riflessione altrui e non soggetto e protagonista della sua vita. Nel tentativo di ridarle riconoscimento e dignità, l'ha resa muta ed invisibile, e ciò è imperdonabile. Anche l'interessante appunto sugli studi di metagenealogia familiare e le considerazioni in merito alla costruzione di una identità familiare, tra tabù, segreti e narrazioni distorte, in realtà è solo abbozzato. Il risultato è molto deludente e la lettura diventa pesante, lenta e farraginosa. Bocciato.
Nadia Terranova torna in libreria per parlare, attraverso una storia personale, della storia del manicomio messinese, il Mandalari, negli anni venti del novecento.
Venera è la bisnonna di Nadia, che la mitologia familiare ha provato a relegare nella dimenticanza. Le ricerche di Nadia sono volte a riportare la storia di Venera dentro dei confini più veritieri
“Non so in che giorno del calendario sia stata ricoverata in quella che allora si chiamava Villa di Salute, ma nel sogno è sempre marzo, il mese in cui nella mia famiglia succede tutto, nasciamo o moriamo. Noi non abbiamo un altro tempo, solo l’eterna primavera in cui il resto del mondo, impegnato a risvegliarsi, finalmente si dimentica di noi: è allora che possiamo dedicarci ai riti, accostarci a culle e bare, chinarci a dare il benvenuto ai figli e il commiato alle anime. Mia figlia è nata a marzo, mio padre è morto a marzo, mia madre è nata a marzo, sua sorella è morta a marzo.”
Quello che so di te non è solo un romanzo sulla follia, ma anche sull’essere madri e sul rapporto tra madre e figlie.
“Dalla stanza accanto, arriva il caos. Mia figlia canta, il nonno balla, mio marito sta parlando al telefono con qualcuno e ogni tanto si interrompe per rispondere alla bambina che lo riempie di domande. Mia madre atterra da un pianeta straniero e, mentre la Mitologia si sbriciola e perde pezzi, chiede con tutto lo stupore che ha: « Dici che mia nonna è stata in manicomio? Ma io di questo non ho mai saputo niente ».”
Non è il solito romanzo che parla di storie di famiglia, anche se l'autrice ci racconta il percorso fatto per ricostruire un evento che ha segnato la vita della sua bisnonna. Si parla di maternità, si fanno riflessioni sulla maternità oggi rispetto a cent'anni fa più o meno, maternità con tutte le implicazioni fisiche e psicologiche. Ci sono informazioni tecniche sui disturbi psichiatrici (molto riassunte ma precise) ma non è certo un saggio. Di romanzato non c'è molto, nel senso che i personaggi sono così come sono, le ricostruzioni sono poche. In molte famiglie si potrebbero raccontare storie simili, tramandare " voci " di fatti accaduti a questo o a quel parente, fatti che in qualche modo contraddistinguono le famiglie stesse. Nadia Terranova ha tradotto queste voci con una scrittura magistrale, facendo emergere emozioni personali e riflessioni assolutamente condivisibili.
Nadia Terranova sa scrivere bene, in “Addio fantasmi” l’avevo apprezzata molto. Qui, ripromettendosi di conoscere a fondo l’antenata Venera e la sua pazzia, scava, scava, scava… e stanca.
Il libro si presente come un mix tra romanzo, saggio e giornalismo d’inchiesta. Forse era meglio se rientrava in una categoria più precisa? Non so.
Mi è sembrato un libro scritto dall’autrice per l’autrice, ma non per chi legge. Penso che in parte questo sia dovuto al fatto che è un romanzo molto intimo e personale - caratteristiche di per sé anche di pregio - ma è come se l’autrice non mi avesse fatto entrare in questa storia.
Mi sono anche annoiata parecchio per gran parte del tempo; solo nell’ultima parte sono stata presa, ma ora della fine sono comunque rimasta insoddisfatta. Peccato perché le premesse erano davvero buone.
Non mi sento di giudicare la storia raccontata in questo libro, che ho trovato molto personale, intima, e ho apprezzato il coraggio e la forza d’animo della scrittrice.
Detto ciò, questo libro secondo me è un’occasione sprecata. L’autrice aveva per le mani del materiale che le avrebbe consentito di scrivere un romanzo familiare molto convincente, ma il tutto si perde fra gli eccessivi e ridondanti sentimentalismi di cui questo libro è intriso e che non ho trovato per niente necessari.
Molte parti le ho dovute rileggere più volte perché faticavo a capire il senso di alcune frasi. In genere apprezzo libri scritti con un linguaggio più semplice, tutti questi fronzoli linguistici e sintattici che mascherano i significati più semplici delle frasi non fanno proprio per me.
Nel corso del romanzo, Nadia Terranova ripete spesso che, dopo la nascita di sua figlia, tutti le chiedevano della bambina, mentre lei voleva parlare solo del libro. Ironico, direi, considerato che a mio avviso la storia della bisnonna è stata solo il pretesto per la stesura del romanzo, perché in realtà l'autrice si concentra principalmente sulla sua esperienza di maternità. Ho fatto davvero fatica a terminarlo.
L'autrice tenta di ricostruire una figura resa opaca dal tempo e dai miti familiari: la bisnonna che aveva trascorso alcuni giorni in manicomio a Messina. Le premesse sono interessanti, ma il romanzo è costruito interamente sulla narrazione dell'IO dell'autrice, che assorbe e schiaccia ogni altra individualità. Tutti i personaggi esistono solo in funzione del loro legame con la voce narrante, non hanno altre dimensioni, tema ulteriormente sottolineato dalla quasi totale assenza di nomi reali. Non c'è davvero una figura la cui identità viene svelata lentamente: è solo il pretesto per un lungo monologo su di sé, sulla propria esperienza con la maternità, sulla propria paura ed il proprio dolore. "Quello che so di te" si chiude a riccio, lasciando l'idea che non ci sia assolutamente nulla da sapere.
Credo che per passare la prova "ascolto tramite audiolibro", un testo debba essere quanto meno brillante, scritto bene o comunque destare interesse, almeno su di me. Non è questione di capacità narrativa, e nemmeno di concentrazione o di scorrevolezza. Deve essere un libro molto bello. E questo non lo è. L'ho trovato piuttosto sciapo e ripetitivo. Quasi banale nel tema, già sentito tante volte.
non semplicemente un romanzo, non solo la narrazione della storia famigliare o il racconto della pazzia e della concezione della psicologia femminile nel nostro paese, ma tutto insieme (e molto altro)
Mi è dispiaciuto salutare Venera e anche Nadia Terranova. La sua scrittura è precisa, potente, con guizzi improvvisi e tagliente come una lama. Il suo ripercorrere la mitologia familiare mi ha avvinta e affascinata. Le sue riflessioni sulla maternità e sull'essere madre e scrittrice mi hanno fatta sentire vista, capita. Ho adorato ogni pagina, è un libro che si fa divorare e che ti divora al tempo stesso.
ascoltato in audiolibro. a tratti noioso, ripetitivo, inevitabilmente autoriferito. una interminabile "mitologia familiare" (cit.) tre stelle e non due per la lettrice.
5 stelle plus. è un libro intensissimo a cui non vedevo l’ora di tornare nonostante fossi oberata di scadenze; è contagioso, commovente, arreso. vorrei che lo leggessero tutti quanti!
Arrivato terzo nella cinquina della 79ª edizione del Premio Strega, questo romanzo per me si colloca nei primi due posti del mio percorso personale tra i finalisti. Non tanto per una questione di gusto, quanto per la potenza del progetto narrativo che Terranova mette in atto con lucidità e coraggio.
Quello che so di te è, allo stesso tempo, memoria, autofiction, romanzo familiare e ricerca storica. È un testo che attraversa le generazioni: bisnonna, nonna, madre, figlia; per interrogare non solo l’eredità emotiva e identitaria, ma anche una rimozione collettiva: quella legata ai manicomi, alla malattia mentale, alla violenza istituzionale. Il privato diventa politico senza mai essere didascalico. La storia intima diventa una fenditura nella Storia.
La scrittura di Terranova è limpida, magnetica, mai compiaciuta. Ogni pagina spinge alla successiva con una naturalezza che non è leggerezza, ma precisione. Non c’è alcuna indulgenza nei cliché: né nella maternità, né nel dolore, né nella follia. Tutto resta mobile, contraddittorio, vivo. È uno di quei libri che non cercano di emozionare con scorciatoie, ma che ti portano lentamente dove fa più male.
Il vero cuore del romanzo è il tempo: quello che separa le generazioni, quello che trasforma i traumi, quello che non guarisce ma cambia forma. Ed è proprio questa dimensione intergenerazionale a rendere il libro così profondamente necessario oggi.
Se devo individuare un limite, lo trovo nella caratterizzazione di alcuni personaggi secondari, in particolare il marito, figura narrativa importante ma emotivamente poco sfaccettata, quasi sacrificata all’urgenza del racconto principale. Un difetto minore, che non intacca però la forza complessiva dell’opera.
Quello che so di te è un romanzo che non si legge soltanto: si attraversa. E quando lo si chiude, si ha la sensazione di portarsi dietro qualcosa che non si ricompone subito. Ed è forse questo il suo valore più grande.
Ho passato un lungo periodo senza riuscire a leggere in modo sistematico. E non è per niente una cosa che mi è congeniale, anzi devo dire che non mi succedeva da molti anni. Sono riuscita a riprendere grazie a questo libro, memoir, romanzo di Nadia Terranova. Ci ho messo una decina di giorni, sono andata molto a rilento, ma è stato tutto piuttosto simbolico. Ho iniziato il giorno del Premio Strega per cui lei è arrivata in finale, il giorno dopo averle fatto un po’ di domande per il nostro Abracabook, momento di pace e leggerezza dopo giorni di bufera. E ho finito oggi che è San Camillo, che è il nome di mio figlio che proprio ieri si è fatto molto male. Non credo sia un caso, come non è un caso che questo libro parli di maternità, di attaccamento all’essere donna oltre che madre, della difficoltà della scrittura e soprattutto dell’importanza delle storie - di famiglia.
In «Ciò che so di te» Terranova ripercorre le vicende della sua bisnonna Venera, che fu ricoverata nel manicomio di Messina dopo essere impazzita di dolore per una figlia morta in pancia a pochi giorni dal termine. Nella sua indagine l’autrice srotola tutti i fili che trova delle donne e degli uomini della sua famiglia, per tessere una trama leggera e resistente come il lino. Un regalo per sua figlia, nata da poco: una dote per assicurarle un futuro privo di follia.
È un libro inaspettato, un regalo grande, pieno di parole da sottolineare. Un libro per ritrovare parole belle e affrontare il mondo con sguardo sicuro e mano ferma, senza vertigini.
Il mio rapporto con Nadia Terranova non è semplicemente quello di un lettore con una scrittrice. Si, mi piace il suo stile, anche se a volte, come in questo libro, mi sembra saltapicchi un po' troppo tra argomenti diversi (l'internamento della bisnonna, la depressione post partum, il bisnonno granatiere...). Non sempre mi convince la storia: ho amato il suo primo libro ma non sempre gli altri per me sono stati all'altezza. Il fatto è che io non riesco a considerarla solo una scrittrice. Sarà che abbiamo vissuto a pochi chilometri di distanza, sarà che abbiamo un vissuto simile, ma mi sembra quasi una potenziale amica, una quasi parente. Ogni volta che finisco un suo libro, al di là di quanto mi sia piaciuto, mi viene l'istinto di chiamarla e farci una lunga chiacchierata. Questo mi è piaciuto meno de Gli anni al contrario, meno di Trema la notte e più degli altri. Ma non importa: so che leggerò anche i prossimi e che li chiuderò con una gran voglia di chiamarla.
Il romanzo, che si ispira alla storia personale dell'autrice, è soprattutto una storia di donne. Figura centrale una bisnonna di cui la famiglia racconta la vita e le vicende tragiche tra realtà e falsi ricordi, internata brevemente in manicomio. Personaggio che occupa un posto speciale nei pensieri e nei sogni dell'autrice, spaventata che la follia possa trasmetterti di madre in figlia fino a lei che è diventata mamma da poco, in ansia come tutte le madri. Da qui la necessità di sapere, capire, ripercorrendo la vita della bisnonna alla ricerca di quella verità che negli anni si è modificata, tra rimozioni, alterazioni e non detti. Un bisogno di verità che spinge l'autrice a cercare tracce della bisnonna nei documenti del manicomio dove era stata ricoverata, in disuso da tempo. Forse un bisogno di capire per guarire se stessa. Scrittura senza dialoghi, con pochissimi nomi propri, introspettiva, con riflessioni filosofiche e qualche incursione nei manuali di psichiatria. Gradevole, anche se alla fine la realtà si rivela molto più semplice e ordinaria di quella che appare nel corso della lettura.
Libro che ha una premessa interessante e che fallisce il suo scopo, accartocciandosi su sé stesso e su una narrazione che punta al lirismo e che finisce per risultare confuso. Sembra un dialogo tra l’autrice e sé stessa, in cui si perde totalmente la dimensione di un lettore ideale. I temi centrali, seppur delicati, mancano di forza espressiva, la femminilità, la maternità, il tentativo di creare un ponte tra passato e presente talmente ripetuti e chiaro da diventare ben presto noioso; i personaggi malamente abbozzati, tanto da perdere il confine tra l’immaginato e il reale e apparire, di nuovo, solo confusi.
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Questo romanzo è così intimo che ci si sente quasi in colpa a sfogliarne le pagine. La scrittura amata di Nadia Terranova si perde qui in dettagli sulla maternità molto toccanti, su un passato che - come tale - si riflette nel presente. Continuo però a pensare che manchi qualcosa, forse c’è così tanto sentimento e istinto che non poteva esserci spazio per altro.
Purtroppo è davvero difficile da seguire… Sarà anche che spesso e volentieri sembra che la storia si arrotoli su sé stessa, generando così non poca confusione e facendo quasi passare la voglia di arrivare alla fine del libro. Nel complesso ho come avuto l’impressione di trovarmi difronte ad una grande occasione buttata al vento.
un grande giro di parole per non venir a capo di nulla . Storia interessante non si sviluppa è un pensiero dietro l'altro lasciando il lettore in sospeso alla ricerca di una storia della storia di Venera
Questa storia poteva essere raccontata in mille modi ma lei ha scelto una scrittura poetica, amorevole. Un racconto di famiglia, di donne di madri e non solo. Nella mitologia familiare come nella pazzia non si sa cosa è vero e cosa no, dove è che è cominciato tutto, cosa ha scatenato tutto questo, lei lo vuole sapere, ha bisogno di sapere della sua bisnonna.
“Resto figlia e nipote di donne che cadono. Riesco a voler bene alle mie cadute passate e presenti, a non aver troppa paura di quelle che non posso prevedere.”