I segreti e i silenzi avvolgono i protagonisti di questa storia come il malbianco infesta il tronco degli alberi. Tra i Petrovici, infatti, ci sono da sempre piú fili nascosti che verità condivise. Ma le domande del figlio che si è smarrito, e per questo si volta a guardare le proprie orme, diradano via via le nebbie di una memoria famigliare lacunosa e riluttante. Se «di certi fantasmi ci si libera soltanto raccontandoli», prima di tutto bisogna conoscere il passato da cui proveniamo.
Dai boschi di Taranto al gelo dei campi di prigionia tedeschi, Mario Desiati torna con un grande romanzo che indaga il rapporto tra l'individuo e le sue radici, il trauma e la vergogna, interrogando con coraggio il rimosso collettivo del nostro Paese.
Marco Petrovici ha quarant'anni e vive a Berlino, quando all'improvviso, un giorno, inizia a svenire. Per scoprire l'origine di questi suoi disturbi e ritrovare un po' di pace, decide di tornare in Puglia, dai genitori ormai anziani che vivono immersi in un bosco di querce e lecci nella campagna tarantina. Schiacciato dai sensi di colpa per non essere il figlio che Use e Tonia speravano, si ferma nella casa di famiglia per occuparsi di loro, ma allo stesso tempo si convince che le cause del suo malessere vadano cercate nella memoria sepolta di quel loro cognome cosí strano. A partire da un ricordo d'infanzia dai contorni fumosi - un balordo un po' troppo famigliare che suona il violino sotto la neve di Taranto -, con l'aiuto di zia Ada, della letteratura e della storiografia, della psicoterapia e di un diario ritrovato non per caso, Marco cura il «malbianco» che opprime la sua famiglia. Facendosi largo tra reticenza e continue omissioni, scopre la vita segreta della bisnonna Addolorata, trovatella e asinaia, e ricostruisce le vicende di nonno Demetrio e di suo fratello Vladimiro, entrambi reduci di guerra, una guerra combattuta e patita in modi molto diversi. Chi sono davvero i Petrovici? Da dove arrivano? E cosa c'entra con loro un'antica ninna nanna yiddish che inconsapevolmente si tramandano da quasi cent'anni? Questa è la parabola di chi rivolge lo sguardo dietro di sé, alle proprie origini piú profonde, per vivere il presente e immaginare un futuro libero da quel malbianco che nasconde la vera essenza delle persone. Raccontando la frenesia e i turbamenti di un protagonista consumato dalla storia che si porta addosso, Mario Desiati ci consegna il suo romanzo piú lirico, inquieto, ambizioso e maturo.
Erano anni che non leggevo un romanzo italiano così dettagliato, con una tale profondità, non solo emotiva ma anche storica. Malbianco, infatti, racconta una storia che si intreccia con la Storia e lo fa senza sembrare un'invenzione, cosa che invece spesso i romanzi di ricostruzione fanno. Marco Petrovici, il narratore di questa vicenda, si trova di fronte alla necessità di capire le radici della sua famiglia, le radici dei silenzi che la circondano ed è ossessionato dall'idea di togliere la patina bianca che si è depositata sopra la loro storia, in particolare sopra la vita di suo nonno Demetrio e dello zio Vladimiro. La ricerca lo porterà nei traumi della seconda guerra mondiale, a cercare informazioni sulla disfatta in Russia dell'esercito Italiano nel 1943, a immaginare cosa potessero provare i detenuti militari e cosa sia avvenuto dopo l'8 settembre. A tutto questo si frappone il cuscinetto del tempo: sono passati ottant'anni dalla fine della guerra, Demetrio e Vladimiro non ci sono più, e i traumi, i silenzi e le omissioni, sono ricadute sulla stirpe Petrovici. Il tentativo di risalire questo intreccio è da un lato avvincente, dall'altro doloroso. In ogni caso davvero molto bello. Il libro si compone di quattro sezioni più una bibliografia ragionata che rende tutto più limpido e valorizza al massimo l'enorme lavoro di Mario Desiati nella costruzione letteraria di questa storia.
“Dovrei mutarmi in albero per trovare in me la memoria. Non c’è corpo che non serbi memoria del passato: non soltanto il proprio, anche quello dei suoi genitori e dei loro genitori e dei loro genitori e dei loro genitori ancora.”
Marco Petrovici ritorna nella sua (mia!) Puglia, a Taranto, da Berlino, per andare indietro nel suo passato, alle radici delle origini della sua famiglia.
E lo fa osservando gli alberi e traendo spunto da loro per indagare la storia del suo “albero” genealogico.
“Una volta nel bosco, osservo a lungo i rami piú alti degli alberi, come a cercare nelle loro forme un’armonia amica. Dentro il bosco mi connetto al brusio delle foglie fruscianti, ai corpi rugosi dei lecci, e in ogni crepa dei loro tronchi so esserci memoria del tempo trascorso.”
La ricerca delle radici del suo cognome “Petrovici”, porta Marco a fare un viaggio nel tempo, studiano i vari documenti, fino ad arrivare negli anni della seconda guerra mondiale
“Il bosco ha preservato la memoria dei Petrovici, ha dato un senso ai ritorni, ha curato le ferite, ha protetto la tenera diffidenza del figlio verso il padre. Il bosco ruba l’occhio dalla vecchia statale che unisce Taranto a Martina Franca, oltre le radure ricoperte di pietre grandi quanto dune lunari, si stagliano le querce con foglie che sembrano di metallo.”
Marco Petrovici prova a preservare la memoria dell’albero genealogico della sua famiglia, che paragona a un castagno, per impedire che il malbianco lo faccia morire/svanire
“-Quando sono tornato da Berlino piantare un castagno è stata la prima cosa che ho fatto per riprendere contatto con la terra. – Perché proprio un castagno? – È l’albero della protezione, della pace. E poi amo gli aculei che proteggono il frutto. – Dov’è adesso questo castagno? Non l’ho mai notato… – Non c’è piú, se l’è mangiato il malbianco. – Il malbianco? – Un fungo, un parassita, assomiglia a una nebbia che scende sulle foglie, sui germogli e sui frutti, riveste l’albero con un feltro bianco e ne fa sparire i colori. Il malbianco è come un velo sotto cui spariscono gli alberi. – Anche gli alberi genealogici, – dice amara Ada. – Non ci avevo pensato. – Anche l’omertà è un velo bianco.”
Mario Desiati ha scritto un bel romanzo, molto più maturo di Spatriati, pur essendoci dei temi ricorrenti, quali l’essere spatriati, la Germania, la Puglia e il ritorno alle radici.
Molto interessante il capitolo sulla biblioteca di Malbianco, che testimonia il grande lavoro di ricerca fatto da Mario DESIATI per scrivere questo romanzo. Un invito a preservare la memoria
“Ma nel bosco c’è un silenzio guasto, un silenzio bianco di segreti e omissioni. Nel bosco si diffonde un suono di violino, le corde arroventate dall’archetto mosso da un reduce della campagna di Russia. Le note attutite dal manto soffice della neve come un mattino del 1987 sul ponte di Taranto.”
con le stelle ho abbondato per eccesso, non mi è facile trarre le conclusioni su questa lettura che mi ha vagamente disorientata. quanto i silenzi riferiti alle vite dei componenti della famiglia ci condizionano nel vivere la nostra di vita? è meglio accettarli o approfondirli? quanto è importante conoscere le proprie origini? il protagonista dovrebbe essere Marco Petrovici ma alla fine riconosco come co-protagonisti i fratelli Petrovici, nonno e zio di Marco che come tanti hanno vissuto la Storia sulla loro pelle rimediando ferite inguaribili. (il mio personaggio preferito è la zia Ada comunque). romanzo sicuramente meditato dall'autore e approfondito con una nutrita bibliografia. Mi sono lasciata consigliare da un libraio il mio primo giorno di ferie, probabilmente io in autonomia non l'avrei acquistato, le prime uscite di solito le lascio decantare.
Ci mette un po' a decollare, ma poi... niente! Un continuo avvicendarsi di reticenze, di "sapessi... ma non ti dico", di rimandi a capitoli e spiegazioni successive che servono solo a stirare una storia che fin dall'inizio stenta a suscitare un qualche interesse
Forse può sembrare un po’ costruito, ma la bibliografia finale è un’autodenuncia che mostra un progetto intellettuale che intercetta un argomento molto in voga (il trauma trangenerazionale). Nonostante questo, il libro si legge ed è facile empatizzare con il protagonista e gli altri personaggi. Anche le coincidenze nella storia del protagonista e della sua famiglia sono giustificate da una dimensione magico/spirituale con cui si può entrare in sintonia se si è suscettibili a certe tematiche. La scrittura è media ma di contro l’atmosfera della casa e l’ambientazione storica sono molto coinvolgenti. Mi hanno molto colpito le figure dei genitori Tonia e Use, sempre più dipendenti da un figlio inadeguato ma ancora determinate a mantenere il decoro e i segreti della famiglia e fanno tenerezza. Insomma, è un libro mi ha preso ed emozionato. Ma detto questo, madonna che tristezza!
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Quando avevo 17 anni mi innamoravo dei libri come degli gli uomini (si, perchè non mi piacevano mai i ragazzi, ma sempre gli uomini di 30 anni più vecchi): velocemente e per una semplice frase dal risvolto un po’ poetico. Ma mi innamoravo dei libri anche intensamente. Ci sono libri che ho amato di un amore tanto profondo da averlo raramente provato di nuovo. Ecco, questa libro ha tornato a farmi innamorare come quando avevo 17 anni. Ma, ora che sono cresciuta, mi innamoro di cose diverse: della forza della vulnerabilità, del tentativo di interrogare quel rimorso e quella vergogna familiare che ha avvelenato interi alberi genealogici. Della bella scrittura, della poesia che non deve per forza essere in versi e della verità. Con questo libro Mario Desiati prova ancora un volta che è una delle voci più autentiche e speciali del panorama letterario italiano contemporaneo.
Che bello scoprire autori italiani che non avevo mai letto! Desiati riesce a raccontare un frammento della Seconda Guerra mondiale con grande tatto e un pizzico di poesia. Le vicende della famiglia Petrovici - nel passato fino al presente - entrano nel cuore... questo sì che è ricostruire una 'mitologia famigliare' 🤍
Dipende dal motivo per cui si legge. Io leggo per essere rapita, per essere tradotta in un mondo di cui non conosco nulla, e nel migliore dei casi per innamorarmene - del mondo sconosciuto, di chi lo popola e della voce del rapitore. Una sindrome di Stoccolma innocua se non per il fatto che crea dipendenza. Questo libro non ha avuto neppure la forza di tirarmi per la manica. Spiace dirlo, perché la voce dell’autore è senza dubbio bella, ma scrivere bene e comporre ricostruzioni storiche meticolose non basta a fare un romanzo. Qui non c’è nessuna forza, nessun mordente, c’è, forse, o ambisce a esserci, la Storia (per quanto anche quella maiuscola mi sembri condannata al provincialismo) ma di certo non c’è alcuna storia in questa trama, e quindi non c’è rapimento. Sembra un romanzo privato, scritto per i discendenti della famiglia Petrovici, ma è possibile che anche loro morirebbero di noia se costretti a leggerlo. Per me qui non c’è niente se non una noia irriducibile e una serie di quadretti ripetitivi e grevi che non assumono mai (neppure lontanamente) un respiro universale. Per tutto il tempo ho sospirato e pensato: ma che me ne importa di questa gente, chissenefrega se fossero ebrei o sinti, perché dovrei sentirmi coinvolta da questa storia? Nel libro un motivo valido non l’ho trovato. Ho stretto i denti e sono andata avanti sperando che succedesse qualcosa, invano. Desiati è un autore a mio avviso molto sopravvalutato (del resto a me non era piaciuto neppure Spatriati, dimenticabile come questo) forse perché non gioca mai, colloca i suoi personaggi in immobili nevrosi prive di qualunque leggerezza, è incapace di ironia. È, invece, assai sobrio, scrupoloso e colto, e fa sentire colti e sobri e molto adulti quanti lo leggono e dicono di apprezzarlo. Ma proprio nel non giocare sta il suo limite; è il suo prendersi così tanto sul serio a condannare il fazzoletto di territorio tarantino che descrive a non farsi mai Mondo.
Però, se si legge non per essere avvinti dalla trama e coinvolti dai personaggi, ma per altro, tipo per appagamento estetico, o perché si è appassionati alle minuzie della storia locale, o per nostalgia dei mattoni verbosi che andavano alla grande a metà novecento, allora si apprezzerà questo romanzo. Forse. Oppure lo si sostituirà all’alprazolam prima di dormire. Per quello funziona a meraviglia.
È stato bello rivedersi, è stato bello leggerti ancora.
Sempre più complicato Mario, sempre più complessa la sua scrittura, diventa sempre più grande questo autore "con i tratti adolescenziali della coscienza proiettati sul suo aspetto". Malbianco è una lettura molto impegnativa, un po' saggio storico un po' romanzo, che racconta la Storia, quella che nessuno ormai vuole più sentire. Non ci sono più padri né nonni che ce la raccontano, Mario ha caricato tutta su di sé questa responsabilità e l'impegno a scoprire, ad andare alla radice. Qualcuno dice che il libro non decolla, ad un certo punto sembra che stia lì lì per farlo, ma poi non decolla mai. È così, perché anche noi che leggiamo dobbiamo seguire la marcia lenta dei protagonisti in una guerra sanguinosa e inutile. Oltre a questo c'è l'immensa cultura letteraria e poetica di cui Mario si fa portavoce e promotore in questo libro: la poesia ("Scegliete un rigo, un solo verso da imparare a memoria, ma sceglietevelo, quello a cui aggrapparvi quando non avrete niente a cui aggrapparvi") e la letteratura ("Mi hanno insegnato a fare attenzione al respiro quando un verso finisce e si va a capo, oppure quando si mette una virgola, o un punto. Il respiro è leggere, dunque è letteratura, e la letteratura è la vita.")
Malbianco è un romanzo intenso e maturo, in cui Mario Desiati affronta il tema della memoria familiare e delle radici con una profondità nuova rispetto alle sue opere precedenti. Il protagonista, Marco, rientrato da Berlino, sente il bisogno di guardarsi indietro e di colmare i silenzi che hanno accompagnato la sua infanzia: quelli dei genitori, di una famiglia che ha sempre taciuto la propria storia.
Il romanzo diventa così un viaggio nella terra d’origine e nelle ombre del passato, alla ricerca di ciò che è stato rimosso o dimenticato. I personaggi di Demetrio e Vladimiro sono tra i più riusciti: vivi, complessi, capaci di restituire l’ambiguità dei legami familiari, tra affetto, colpa e appartenenza.
Molto bello il capitolo dedicato alla Seconda guerra mondiale, una sorta di parentesi storica che però illumina il senso del presente, svelando le radici della famiglia Petrovici. Qui Desiati intreccia la Storia con la S maiuscola al destino privato, con una scrittura limpida, scorrevole, ma sempre attenta al dettaglio e alla verità emotiva.
Un romanzo che si legge con piacere, denso di umanità e consapevolezza: segno evidente di una piena maturità narrativa per l’autore, che ho avuto il piacere di conosce al Settembre Culturale 2025 di Agropoli.
Era difícil superar el impacto de Spatriati por muchos motivos, más allá de las puras expectativas, que siempre son un enemigo de primer orden: la cuestión generacional; la cruda, poética y sublime vivencia del sentirse perdido en la vida, el cul-de-sac de las amistades que pudieron ser amor y no lo fueron. En Malbianco, en cambio, Desiati se enfrenta a los traumas enquistados en el ADN de las familias como consecuencia de la guerra, de la posguerra y de la pasión mediterránea por no hablar de todo ello; se asoma a las herencias de sufrimiento que asumen sin alternativa las generaciones jóvenes por lo que sus antepasados no supieron hacer mejor. Y construye un monumento duro de leer pero muy bello a la relación entre tía y sobrino, con sus altos y bajos, que a pesar del dolor acaba encendiendo una pequeña luz de esperanza. Es una oda sutil a todas las zie que deberíamos tener derecho a disfrutar en la vida.
Il mal bianco si mangia le piante stendendosi come un velo su foglie e tronco, nascondendo l'albero alla luce, peosciugandolo. Anche le omissioni, anche la vergogna, il dimenticare per finta, per forza, le reticenze familiari, i segreti si mangiano gli essere umani da sempre e sempre continueranno a farlo. Marco si racconta così: nel tentativo di togliere il velo bianco steso da una famiglia reticente, silenziosa sulle origini, e scoprirsi finalmente appartenente a qualcosa, a qualcuno. Scava nel ricordi, fa ricerche e unisce tanti puntini anche solo con la fantasia e il desiderio profondo, e riscopre una storia, sia in senso personale che in senso collettivo, bellissima. In sottofondo la guerra, le ingiustizie, la perdita di dignità dei soldati e prigionieri, i genitori che invecchiano e i ricordi che affiorano, una casa nel bosco e una canzone yiddish che pare stampata nei geni. È un libro malinconico, di ricerca e di rivelazione. Bellissimo.
Storia, poesia, delicatezza, sogno e realtà. Attraverso le ricerche del nipote emergono storie di umanità e sofferenza, storie che raccontano gli anni del nonno al fronte, il male che fa la guerra anche e soprattutto a chi sopravvive. Nel mezzo il tormento di chi si sente incompiuto, di chi cerca le proprie origini per trovarsi e che porta un nome come una maledizione. Non è un giallo, sono poche le risposte a molti degli interrogativi sollevati, adatto a chi vuole godersi il viaggio più che la meta.
Storia molto intensa sul trauma. Marco affronta i suoi antenati in particolare il nonno e lo zio che durante la seconda guerra mondiale sono chiamati alle armi. Vuole capirne di più sulla loro esperienza che, indirettamente ,ha coinvolto i famigliari. In particolare tutti gli uomini della famiglia che portano lo stesso suo nome e che sembra in qualche modo che ne influenzino il carattere o addirittura il destino. Bellissime ambientazioni e delicati ritratti. Libro molto documentato e coinvolgente.
Credo che alla fine mi sia piaciuto. Ho avuto difficoltà iniziali ad entrarci non capivo bene dove volesse andare a finire e non ritrovavo la campagna pugliese come mi era stato promesso dalla fascetta e la quarta di copertina. Poi mi ha iniziato a prendere parecchi tutto il racconto sulla seconda guerra mondiale e anche le parti più oniriche perchè ho capito che erano funzionali alla ricerca della sua identità! Mi piace la scrittura di desiati e anche la sua forse un po’ troppo ostentata cultura. Ma va bene così!
A circa metà storia diventa un altro libro, un racconto sull'esperienza di uomini oltre il fronte, lontano dalla patria, persi e imprigionati. Per carità, se avessi voluto leggere un libro sulla guerra l'avrei forse anche trovato interessante. Comunque a un certo punto ho cominciato a saltare le pagine e l'ho finito così. La sua pesantezza si è palesata ancora meglio con la bibliografia. Persino troppo.
Desiati è tornato con questo romanzo ricco e lirico. La Famiglia Petrovoci che, come tante altre, nasconde segreti e mantiene silenzi che si tramndano di generazione in generazione. Taranto e Berlino, storia e ricordi. E il Mlabianco, un verme che I festa il tronco degli alberi creando un velo bianco che copre la vitalità delle piante così come i non detti ricoprono la memoria familiare.
Dopo "Spatriati", che mi è piaciuto poco, non so come abbia fatto Desiati a scrivere questo capolavoro assoluto. Un romanzo sul passato, sulla memoria, sul trauma. Praticamente senza trama, ma denso di poesia.
Secondo dei tre libri finalisti che devo "giudicare" quale giurato del 52 Premio internazionale Flaiano. Cercare, scavare, scoperchiare, non possiamo farne a meno: sarebbe meglio?