Santa Croce i conciaioli si tramandano il mestiere come una fede, imprigionati in capannoni che sembrano cattedrali, tra distese di pelle rese eterne dal «La pelle è ovunque, la pelle è il luogo in cui precipitano tutti i ricordi di gente come noi». È lí che Michelangelo si ostina a restare. «Cosa siamo diventati?» non fa che chiedersi, mentre cerca di difendere ciò che resta della sua famiglia e della vita di prima. Prima che suo padre facesse fallire la conceria del nonno, che sua madre scomparisse in un caldissimo giorno d'estate e che suo fratello smettesse di parlare per sempre. Non lo sa, Michelangelo, se la sua è una battaglia persa in partenza. Ma è quella a cui non può rinunciare, fatta della stessa materia del suo un piccolo mondo marchiato a fuoco che assomiglia spaventosamente al mondo che abitiamo tutti.
Santa Croce è il paradiso del pellame, se la guardi dall'alto può sembrare «una città futuristica e, nello stesso istante, il luogo piú antico e immutabile di una civiltà furiosa». Una volta la Cavalcanti e Figli non aveva concorrenti tra le concerie della Toscana, con commesse da ogni parte del mondo e la forza granitica di un impero. Ora, invece, non rimane quasi piú niente. Giusto le responsabilità dei padri e il dolore dei figli, giusto l'incapacità di parlarsi nonostante il bene, giusto le pelli. Le pelli che la chimica sa rendere eterne come eterne rimangono le omissioni di una famiglia che ha consumato la sua esistenza nel cromo. Nel mondo immobile di Michelangelo è l'opportunità di fare carriera nella conceria che li ha inglobati a risvegliarlo. Potrebbe diventare responsabile di processo, potrebbe diventarlo a venticinque anni, a patto che convinca il padre a vendere le mura della loro industria. Ma per quel padre sempre piú inerme, sempre piú simile alle piante che cura con amore ogni giorno, cedere sarebbe come ammettere di aver distrutto il tessuto che doveva tenerli tutti uniti, e una pelle conciata male non serve a niente. Cosí Michelangelo si mette a cercare la basterebbe una sua firma, ma soprattutto basterebbe sapere dov'è, perché se n'è andata, per capire quando si sono rotti e cosa davvero sono diventati. Basterebbe questo, forse, almeno per salvare suo tutto è per salvare Emanuele. Tirarlo via dal buio, tornare indietro. Grazie al suo immaginario febbrile e a una lingua dove ogni parola è pesata con un'ossessione contagiosa, Gabriele Cavallini ci trasporta in un mondo di rara forza, raccontato da chi lo conosce dall'interno, con competenza tecnica e disperata vicinanza. Cuoio è il romanzo di un impero che non c'è piú, fondato e distrutto nel tempo di tre generazioni. È la storia delle violenze che colpiscono uomini e animali con la stessa intensità di comete brucianti. Ed è la parabola di due fratelli, la stessa che inizia con Caino e Abele e prosegue fino a noi, confondendo i contorni delle colpe. Perché certe vite nascono ferite, e tutto ciò che possono fare è tenersi vicine e cercare di preservare la luce.
3⭐e mazza approssimata a 4. Un buon esordio che ci porta nel micromondo lavorativo delle concerie fatto di violenza e patriarcati. Spicca soprattutto la capacità di Cavallini di sviluppare bene una storia e dargli una degna conclusione. Il finale è infatti la parte più forte e sperimentale che sfrutta il montaggio per arrivare all apice del climax. Ricorda Amygdalatropolis di Yaeger soprattutto nella linea narrativa del fratello Ema.
Colpisce subito per ambientazione: Santa Croce sull'Arno con le sue concerie, non è solo lo sfondo. Per me, che conosco bene questo territorio toscano, la sensazione iniziale è stata quella di trovarmi davanti a una storia che poteva restituire dignità e verità a un mondo raramente raccontato; e poteva esser un modo per dire tutto.
Michelangelo Cavalcanti è il filo conduttore di una saga familiare corrosa dal fallimento economico e affettivo: il padre che non si arrende alla rovina, la madre svanita in un giorno d'estate, il fratello muto e irraggiungibile. Michelangelo porta sulle spalle la storia di tre generazioni di conciaioli, con il peso di un'eredità che non è più ricchezza ma maceria. La sua ostinazione, ovvero quella di salvare ciò che resta, soprattutto il fratello, è al tempo stesso commovente e disperata.
Lo stile di Cavallini è ossessivo, quasi febbrile. Cerca la precisione assoluta, a volte raggiungendo vette di lirismo che emozionano, altre volte cadendo in un autocompiacimento che rischia di appesantire. Non mancano termini tecnici legati al processo di concia, che rendono autentico il racconto ma al contempo possono risultare ostici a chi non conosce da vicino questo mondo. lo sì, io e l'autore (che non conosco) siamo quasi coetanei e nati nello stesso luogo. Leggo: laureato in chimica e poi orientato alla correzione di bozze passando dalla scuola Holden e ad oggi ci sforna questo bel libro Einaudi.
Cos'è che mi fa incazzare? Dovete sapere che il distretto conciario, soprattutto dagli anni '90 in poi, ha visto arrivare intere comunità di lavoratori stranieri, in particolare africani, spesso costretti a turni massacranti, a mansioni tra le più dure e malpagate, in condizioni che rasentavano lo sfruttamento. Lasciando italiani senza lavoro e tasche piene ai proprietari. Poi ovviamente l'inquinamento delle acqua, dell'aria, di come molte concerie fanno uscire vapori dai tombini. Non si respira, o meglio: ci tocca respirare. Cavallini sceglie di ignorare la componente migratoria che ha sorretto (e ancora sorregge) buona parte del sistema. Questa realtà, che fa parte integrante della storia sociale ed economica del territorio, nel romanzo resta quasi invisibile. È una scelta narrativa legittima, certo, ma che rischia di offrire un ritratto parziale, sbilanciato verso un'unica prospettiva e meno incisivo di quanto avrebbe potuto essere.
Tornando anche al mio pensiero sulla storia: molti passaggi risultano ridondanti, come se il desiderio fosse quello di scioccare più che di raccontare. La storia familiare, che avrebbe potuto essere una parabola universale sul peso delle eredità e sulla difficoltà di salvarsi dal proprio passato, resta intrappolata nella cupezza senza sbocchi. Non c'è mai un vero respiro, né un contrappunto che equilibri tanta durezza: alla lunga questo logora, lasciando la sensazione che il romanzo rimanga fermo su se stesso, incapace di evolversi.
Per me Cuoio è stato quindi più una lettura faticosa che appagante. Sicuramente Cavallini ha talento e conosce la materia, ma il suo esordio appare acerbo, eccessivamente compiaciuto e a tratti respingente. È un libro che scuote, sì, ma non sempre nel modo giusto: ci si ritrova a chiuderlo con più stanchezza che riflessione, e con la sensazione che l'autore abbia preferito impressionare il lettore piuttosto che raccontargli davvero una storia.
Un romanzo crudo e tagliente, non la classica lettura da ombrellone e soprattutto non adatto a chi non ama leggere descrizioni violente di processi come quelli che accadono in macelli e concerie. La storia di Santa Croce, delle concerie e della famiglia Cavalcanti si fonde e procede con un ritmo serrato, una spirale discendente che procede a velocità crescente verso un finale inaspettato. La famiglia è vissuta come una seconda pelle, nel bene e nel male, e si fonde e unisce alla vita di conceria, creando un mondo tossico come il cromo usato nella concia.
"Io e lui ci parliamo così. In quel momento, chissà, forse avremmo potuto fermarci e parlare, parlare sul serio s'intende, di cosa cazzo è successo a questa famiglia. Ma non lo facciamo mai. Si è creato uno strano rapporto d'intesa per cui, se non parliamo, quello che non diciamo non si realizza per davvero. Lo lasciamo vagare nell'aria, lo lasciamo impestare i muri delle stanze ma mai, mai lo pronunciamo." (p. 138)