« Le fait que Rigoni Stern existe est en soi miraculeux. » PRIMO LEVI
NOUVELLE TRADUCTION
Russie, front de l’Est, hiver 1942. Le sergent-chef Mario Rigoni Stern dirige une compagnie de mitrailleurs alpins italiens.
La vie dans les tranchées le long du fleuve Don est particulièrement difficile. Les italiens essuient de violentes attaques russes. Pour échapper à l’encerclement, ils sont contraints de battre en retraite. Un long exode sous le feu de l’ennemi attend les soldats déjà harassés par de longs mois de guerre. À travers les prairies enneigées, la souffrance pousse les hommes aux limites de leurs capacités. Ils marchent, dans la neige et le froid. Mais, envers et contre tout, jamais l’optimisme et l’humanité ne les quitte. Une chose les maintient en vie, encore et encore, insufflée par leur chef de bataillon : l’espoir.
Mario Rigoni Stern témoigne de l’un des épisodes les plus marquants de la mémoire italienne de la Seconde Guerre mondiale et de son propre combat pour la survie.
Mario Rigoni Stern was an Italian author and World War II veteran. His first novel Il sergente nella neve, published in 1953 (and the following year in English as The Sergeant in the Snow), draws on his own experience as a Sergeant Major in the Alpini corp during the disastrous retreat from Russia in the World War II. It is his only work to be translated into English and Spanish. Other well-known works also include Le stagioni di Giacomo (Giacomo's Seasons), Storia di Tönle (The Story of Tönle), and the collection of short stories Sentieri sotto la neve (Paths Beneath the Snow). He was awarded the Premio Campiello and the Premio Bagutta for Storia di Tönle, and the Italian PEN prize for Sentieri sotto la neve.
Vorrei lasciarvi questo come augurio di buon Natale:
“[durante un'azione di guerra in un villaggio, seconda guerra mondiale, ritirata delle truppe italiane in Russia] Corro e busso alla porta di un’isba. Entro. Vi sono dei soldati russi, là. [...] Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola [...]. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. [...] Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. - Spaziba, - dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. - Pasausta -, mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. [...] Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. [...] In quell’isba si era creata tra me i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.”
E' un libro di una potenza straordinaria, sul quale sono stati scritti ottimi commenti da chi mi ha preceduto. L'ho riletto a distanza di oltre quarant'anni e ho fatto bene: non solo per il valore della testimonianza, ma anche per la qualità letteraria dell'opera. E' un libro diretto, asciutto, scritto volutamente con una lingua semplice, senza costruzioni arzigogolate e frasi a effetto, con un lessico povero e periodi poco espansi. E per questo è efficacissimo, checché ne pensasse Vittorini ai tempi della pubblicazione. La lettura mi ha indotto una piccola riflessione. Ricordo che durante il mio percorso scolastico (ho iniziato a frequentare la scuola a metà degli anni Sessanta), a partire dalle elementari, proseguendo alle medie e per lo meno nel biennio delle superiori, si usava dedicare in classe diverse ore alla lettura, guidata dall'insegnante, di interi romanzi. E così non solo si favoriva l'interesse per la lettura, ma anche la condivisione di tutto quello che un libro può suscitare: conoscenze, riflessioni, emozioni... Oggi non si usa più. Si leggono stralci di mille opere, commentati dagli autori dei libri di testo che ti spiegano tutto sullo scrittore e sul significato dell'opera e l'obiettivo è sempre quello: l'analisi del testo, la scheda libro, lo studio nozionistico... insomma è tutto finalizzato solo a portare a termine i programmi scolastici. Che tristezza: quanto più utile sarebbe riprendere la sana abitudine di leggere in classe interi romanzi! Penso a quale esperienza unica e irripetibile potrebbe essere, sotto tutti i punti di vista, la lettura condivisa a scuola di un romanzo come questo. ---------
Albus Eugene Percival Wulfric Brian Dumbledore Mi ha fatto un gran regalo, postando in un feedback qua sotto il link alla visione di un grandissimo spettacolo di Marco Paolini tratto da Il sergente nella neve. Condivido il link qui sopra, così chiunque dovesse capitare da queste parti potrà vederlo. Paolini è bravissimo e questo suo monologo è imperdibile. Grazie, Albus!
“Vi era un bel sole: tutto era chiaro e trasparente, solo nel cuore degli uomini era buio.”
Mario Rigoni Stern, sergente della 55ma compagnia del battaglione Vestone del 6° reggimento Alpini racconta la sua avventura durante la ritirata di Russia tra il dicembre 1942 e il febbraio 1943.
E' una storia di trincea, di freddo, di fatica fisica e mentale, di disagio, di mortai che sparano, di scarsità di cibo, di mancanza di comunicazione con il mondo e con i propri cari, di rabbia, di marce forzate, di neve masticata per simulare il cibo, di paura, di voglia di tornare a casa.
La domanda del commilitone Giuanin scandisce la narrazione, cadenzata, continua:
“Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?”
Arriveremo a casa? Torneremo vivi? Cosa ci facciamo qui? Questa domanda ossessiva guida gli Alpini; l'idea del ritorno. Nessuna ideologia, nessun senso di patria, nessuna speranza di vittoria. Tornare, al più presto, vivi.
Cosa rimane di positivo in mezzo a tanto dolore, a tanti uomini che si uccidono senza una ragione a loro evidente, a tanta assurdità? La conferma, improvvisa, inattesa, del fatto che sotto sotto, in certe condizioni, non ci sono nemici e amici, ma solo persone.
"Corro e busso alla porta di un’isba. Entro. Vi sono dei soldati russi, là. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste piú. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. – Spaziba, – dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. – Pasausta, – mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Cosí è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto piú del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro."
Rigoni racconta in modo diretto, chiaro, senza enfasi la guerra. Che senso ha leggere libri come "Il sergente nella neve"? Per ricordarci che "Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere" e per provare a evitare che succeda.
“Dove abbiamo camminato quella notte? Su una cometa o sull’oceano? Niente finiva più. Abbandonato sulla neve, a ridosso d’una scarpata al lato della pista, stava un portaordini del comando di compagnia. Si era lasciato andare sulla neve e ci guardava passare. Non ci disse nulla. Era desolato, e noi come lui.” .. “La tormenta è cessata, però tutto è grigio: la neve, le isbe, noi, i muli, il cielo, il fumo che esce dai camini, gli occhi dei muli e i nostri. Tutto di uno stesso colore. E gli occhi non vogliono più stare aperti, la gola è piena di sassi che vi ballano dentro. Siamo senza gambe, senza testa, siamo solo stanchezza e sonno, e gola piena di sassi.” .. “Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini.” .. “Ora è guarito dalla ferita ma non dalle altre cose. Oh no, non si può guarire.” .. “E tanti e tanti altri dormono nei campi di grano e di papaveri e tra le erbe fiorite della steppa assieme ai vecchi delle leggende di Gogol e di Gorky. E quei pochi che siamo rimasti dove siamo ora?” ————————————————————————
Ho sempre voluto leggere i libri che raccontano della guerra non per la guerra in sé, che sarebbe meglio ignorarla o non conoscerla affatto per risparmiarci del dolore antico e presente, quanto piuttosto per conoscere la psicologia, il tormento, la convinzione, la determinazione, l’ideale, l’umanità e la disumanità che alberga negli uomini dietro alle divise, di qualsiasi colore esse siano. Perché ognuno di loro potrebbe essere stato mio padre, mio fratello, un mio amico, il mio innamorato e allora perché togliere l’anima e la personalità ai soldati? Crederli solo come degli automi addestrati per uccidere e basta? È un discorso che non mi è mai piaciuto e che ho sempre rigettato. Posso dire di preferire il guerrigliero al soldato ma entrambe le figure imbracciano le armi e rischiano la vita per combattere, anche se il primo lo fa per convinzione e per difendere il popolo, mentre il secondo può farlo anche o solo anche se costretto e lo fa per difendere un sistema, un governo, un ideale che forse nemmeno gli appartiene. Un discorso troppo ampio che non è dato approfondire qui. Qui voglio parlare di questo romanzo bellissimo che si lascia leggere con facilità disarmante nonostante ci sia sofferenza e angoscia ad ogni pagina. Sembra di vedere un film. Si sta con il fiato sospeso temendo l’attacco fatale che può spazzare via la vita di tanti giovani che vorrebbero solo tornare a casa e vivere di quelle cose semplici che in mezzo alle tormente di neve e al freddo russo sembrano quasi dei miraggi irraggiungibili. Impossibile non farsi straziare il cuore da questa lettura. Impossibile non provare un po’ di commozione attraversando queste pagine in cui sembra di poter entrare e vivere in prima persona.
Nell’inverno del ’42, l’ottava Armata italiana accompagnava ungheresi e tedeschi sulle rive del fiume Don, nella Russia sudoccidentale. Un inverno di neve, di vento, di trincee e di avanzate: l’Armata Rossa, forte di casa e di truppe, pungeva i capisaldi e attentava ai confini, anche quello in cui era all’attivo il sergente Rigoni.
Sulle rive di uno dei fiumi più lunghi d’Europa, resistendo a un esercito aggressivo, Rigoni e gli altri soldati stanno aspettando l’ordine di ripiegare. Quando arriva, non tergiversano: il pensiero è ai chilometri da percorrere, alla neve da lasciarsi alle spalle, al letto caldo una volta superate le fatiche.
Rigoni racconta quello che vive: chiama per nome i suoi compagni, le armi che usa, la neve che opprime e nasconde il nemico; si mantiene fedele ai fatti, alla crudezza della guerra, alle speranze, ai sogni, alle motivazioni che non fanno il camminante, ma certo lo aiutano. In ballo c’è la salvezza, ma anche casa. E per ottenerle non ci si può lasciar prendere dalla stanchezza; camminare in avanti, stremati, è l’unica via di scampo.
Nella neve si sprofonda, di cibo non ce n’è a sufficienza, le bombe a mano non esplodono per il freddo e, se c’è una ferita, il suo continuo sfregare con il cuoio la rende ennesimo pericolo da scampare. Villaggio dopo villaggio, isba dopo isba, Rigoni e i suoi compagni si fanno stanchi, tesi, silenziosi; chi si lascia prendere dallo stremo non si rialzerà, ma il riposo è spesso frammentato e il cammino duro, e molti si lasciano cadere dal richiamo della soffice neve.
Rigoni, qui, incanta: nel raccontare la guerra, si focalizza sugli esseri umani che ne sono stati protagonisti. Eccola, la meraviglia ultima del racconto: le persone che Rigoni incontra, le persone che Rigoni perde, le persone che Rigoni chiama nemici ma con cui poi condivide una cena. Il senso di umanità: il nemico che si fa nemico solo quando impugna un fucile.
La prosa di Rigoni scorre e dà vita a uno di quei testi che consiglierò sempre, da ora, a chi voglia approfondire la letteratura di guerra. Bello, terribile e profondo.
IL LIBRO sulla guerra, vivido, semplice ed esplicito come se anche noi fossimo lì nell’immobilità sempre uguale dell’attesa in trincea, guatando i compagni russi dall’altra parte del Don cha appaiono e scompaiono, nei piccoli rituali che scandiscono le giornate: la gavetta come scodella, i pidocchi che corrono ovunque, le poche ore di sonno rubate alla veglia a far da vedetta che cede alla tentazione di guardare le stelle, la foto della fidanzata appesa, la pulitura della piccola artiglieria con il lubrificante, gesto che diventa delicato come se tra le mani non ci fosse un’arma ma un corpo femminile. Ma ecco la concitazione dell’attacco meditato, preparato, e sempre diverso da come immaginato, le pallottole che si infilano miagolando nella neve, il sangue che fuoriesce dalle ferite e trascolora il bianco in rosso, le raffiche, gli appostamenti. Poi finalmente il lungo cammino della ritirata che si snoda come una lunga esse nera sulla neve bianca, formiche con la testa bassa che si seguono e ad ogni passo affondando, lo zaino pieno di munizioni, la neve nella bufera che turbinando entra ovunque e punge come ago di pino, ogni passo uno in meno da fare per arrivare a casa. Qualcuno disteso supino a lato, trasognato guarda la colonna in ritirata muoversi nella neve, placidamente si addormenta, cosa penserà in punto di morte? All’ultimo momento avrà visto i pascoli verdi della Val Camonica? Udito i campanacci delle vacche? O il fruscio del grano che si flette in onde dorate nei campi, forse la foto dell’innamorata? Forse gli occhi di una madre che versa il latte nella tua tazza al mattino.
"Il Sergente nella neve" è il racconto di un’esperienza di guerra, una delle più terribili che si possano immaginare, destinata a segnare per sempre la vita di un uomo. Essere uno dei pochi sopravvissuti alla campagna di Russia significa avere combattuto eroicamente contro un nemico che si rispettava, si temeva e non si riusciva a odiare; avere conosciuto il freddo, la fame, gli stenti, la fatica e la disperazione; avere guardato ogni giorno la morte in faccia, a vent’anni; avere rimpianto ogni momento la propria casa e le persone care e avere dubitato di riuscire a farvi ritorno; avere visto tanti compagni cadere e sentire senso di colpa per non averlo potuto impedire e addirittura per essere scampati allo stesso destino… Mario Rigoni Stern riesce a raccontarci tutto questo senza enfasi, in uno stile di volta in volta asciutto o lirico, leggero o sconvolgente, intimo o tagliente, dando rilievo sia al fatto storico, che al lato umano di tutta la vicenda. In tal modo ci consegna una delle prove più alte e suggestive della memorialistica di guerra e, insieme, un romanzo di rigorosa ed efficace struttura compositiva, degno di essere annoverato tra i capolavori letterari del Novecento. Non fatevi ingannare dalle dimensioni ridotte, questo libro è immenso.
Nel pomeriggio c'erano nell'isba solo una ragazza e un neonato. La ragazza si sedeva vicino alla culla. La culla era appesa al soffitto con delle funi e dondolava come una barca ogni volta che il bambino si muoveva. La ragazza si sedeva lì vicino, e per tutto il pomeriggio filava la canapa con il mulinello a pedale. Io guardavo il soffitto e il rumore del mulinello riempiva il mio essere come il rumore di una cascata gigantesca. Qualche volta la osservavo e il sole di marzo, che entrava tra le tendine, faceva sembrare oro la canapa e la ruota mandava mille bagliori. Ogni tanto il bambino piangeva e allora la ragazza spingeva dolcemente la culla e cantava. Io ascoltavo e non dicevo mai una parola. Qualche pomeriggio venivano le sue amiche delle case vicine. Portavano il loro mulinello e filavano con lei. Parlavano tra loro dolcemente e sottovoce, come se avessero timore di disturbarmi. Parlavano armoniosamente tra loro e le ruote dei mulinelli rendevano più dolci le voci. Questa è stata la medicina. (pag. 127)
"Dai fidi tetti del villaggio i bravi alpini son partiti; mostran la forza ed il coraggio della lor salda gioventù. Sono dell’Alpe i bei cadetti, nella robusta giovinezza, dai loro baldi e forti petti spira un’indomita fierezza. Oh, valore alpin, difendi sempre la frontiera, e là sul confin tien sempre alta la bandiera. Sentinella, all’erta per il suol nostro italiano, dove amor sorride e più benigno irradia il sol. Là tra le selve ed i burroni, là tra le nebbie fredde e il gelo, piantan con forza i lor picconi, le vie rendono più brevi. E quando il sole brucia e scalda le cime e le profondità, il fiero Alpino scruta e guarda, già pronto a dare il ‘Chi va là?’." (Inno degli alpini)
Cronache autobiografiche di guerra. Con un resoconto vivido e accurato, il sergente del corpo alpini Mario Rigoni Stern, ci prende per mano e ci regala il suo ricordo della ritirata di Russia, nel 1943 durante il secondo conflitto mondiale. Le truppe italiane ripiegarono in vari villaggi nelle pianure del Don con sorti alterne. Veri i protagonisti e molto umane le loro connotazioni, bello anche lo spettacolo teatrale portato in scena nel 2007 da Marco Paolini. Da leggere assolutamente.
E tanti e tanti altri dormono nei campi di grano e di paveri e tra le erbe fiorite della steppa assieme ai vecchi delle leggende di Gogol e di Gorky. E quei pochi che siamo rimasti dove siamo?
Una prosa diretta, franca, a volte evocativa, è quella di Rigoni Stern, capace di far sentire il freddo dei quaranta gradi sotto zero della Russia, la fame, il torpore dopo innumerevoli ore tra il vento e il ghiaccio. E poi i tanti dialetti che si mescolano, i continui ricordi di casa, i progetti per il futuro. Un ottimo libro di memorie, che scava nel profondo umano e nella storia italiana.
Per fortuna nella ritirata dalla Russia c'era un soldato diventato poi, a detta di Primo Levi, uno dei più grandi scrittori italiani e che ci ha regalato questa importante testimonianza della Campagna di Russia. In particolare appunto della relativa ritirata a piedi, in pieno inverno, 40° sotto zero, nella neve, con le scarpe rotte, spesso senza. Chilometri e chilometri a piedi, fame, freddo, tormente, sonno, stanchezza, combattimenti. Soldati dimenticati da tutti e cancellati dalla storia del nostro paese. Dalle prime pagine sai che non riuscirai a smettere di leggere e ti sentirai parte della storia in sé e di quella parte occultata di storia italiana. Chi è riuscito a tornare doveva essere, oltre che fortunato, anche con una salute di ferro, perché altrimenti non si spiega. Che racconto affascinante. Leggetelo, leggetelo, leggetelo!
Che dire ? Scritto ormai settant'anni fa, non si trova un solo vocabolo datato, obsoleto. Non manca neanche una parola, ma non ce n'è nessuna che sia superflua. Periodi soggetto - verbo - predicato punto, soggetto - verbo - predicato punto. E che ci vuole d'altro per descrivere la sopravvivenza disperata ?
Dicono tutti - e dalle nostre parti, essendo gloria letteraria locale, fortunatamente lo si fa - che andrebbe insegnato nelle scuole. Ma più ancora andrebbe mandato a memoria dagli aspiranti scrittori odierni, tipo quelli che intitolano un libro "Exit strategy"......
Lontani da casa, in un mondo che sembra alieno durante una guerra che nemmeno si capisce, cercando di sopravvivere, spesso senza riuscirci. Questo è il destino toccato a un'intera generazione, di cui questo romanzo testimonia la ricerca di ritrovare la propria umanità durante il conflitto e la ritirata. Quando feci il militare nel Battaglione Torino, ricordo la medaglia d'oro al valore che era stata assegnata al mio battaglione, completamente sterminato in Russia. Mi mette tristezza, oggi come allora... cosa vale una medaglia per il futuro di cui quei ragazzi sono stati privati?
• Testimonianza a dir poco toccante della ritirata dell'ARMIR, ottava armata del Regio Esercito, dal fronte russo durante la Seconda Guerra Mondiale. Dire che è un resoconto autobiografico è riduttivo, è certo un memoriale ma raccontando la tragedia della guerra senza retorica e in modo estremamente limpido e diretto, diventa storia di tutte le guerre.
• La prosa di Rigoni Stern è essenziale, asciutta, quasi scarna, ma secerne profonda umanità. Non c'è eroismo celebrativo non ci sono accuse rabbiose; lo sguardo è rispettoso e commosso verso i compagni d'arme e persino verso i nemici russi, mostrando come il senso di fratellanza e la lotta per la sopravvivenza trascendano i confini politici. Non c'è sentimentalismo ma quasi distacco, cosa che rende il racconto molto potente.
• Il tema centrale è la disumanizzazione della guerra contrapposta alla resistenza dell’umanità. Le descrizioni dei paesaggi innevati della steppa russa, freddi e ostili, si intrecciano con i racconti di piccoli gesti di solidarietà tra i soldati. Questa dicotomia tra la crudezza del conflitto e il calore umano diventa simbolo di come e quanto l’animo umano dinanzi all'orrore può fiorire.
• La neve è presenza costante e opprimente, elemento implacabile che avvolge e congela le vite dei protagonisti, come la guerra. I personaggi non sono eroi, ma uomini comuni spinti al limite della sopportazione fisica e psicologica. Le riflessioni del sergente Rigoni sono spesso intrise di una malinconia composta, ma non disperata. In mezzo alla devastazione, rimane una fede incrollabile nei valori semplici e autentici della vita: l’amicizia, la lealtà e il legame con la terra natale.
• Una lezione di dignità e speranza, un invito a ricordare e riflettere sulla brutalità del conflitto senza mai perdere di vista l’essenza umana. Proff fatelo leggere a scuola.
Una delle letture più belle di quest'anno. Mi ha emozionato e toccato moltissimo, il tema della guerra non mi lascia mai indifferente. Specialmente se so che chi scrive c'era e l'ha vissuta in prima persona e ci racconta quel che ha vissuto. E come lo racconta Rigoni....una prosa veramente bella, che con semplicità descrive i momenti più duri e quelli più delicati di questa tragica ritirata dal fronte sul Don nel 43
[Apr, 2010] "Sergentmagiù ghe rivarem a baita?". Questa è forse la frase più nota del libro del sergente maggiore Mario Rigoni Stern e credo lo sia diventata a buon diritto. È un concentrato di umanità, di senso del dovere, di solidarietà, di attaccamento alla terra. Già dalle prime pagine ti trovi a fianco degli alpini che, in fase di ripiegamento sulla neve russa, durante la tragica ritirata del gennaio ‘43, si spezzano la schiena sotto il peso della “pesante”. Ma vanno avanti sostenuti da quell’etica del comportamento non certo dettata da un regime tronfio e vanaglorioso, ma da un secolare e costante rapporto di rispetto con la montagna ed il suo universo fatto di silenzi, sacrificio, pazienza, tenacia, umiltà. Quello stesso codice etico che, ogni volta, li fa entrare nelle isbe dei villaggi russi con un atteggiamento di rispetto nei confronti di quella povera gente. È anche per questo che da sempre la figura dell’alpino, a buon diritto, incarna questi valori. Non ha forse lo stesso impatto emotivo di Se questo è un uomo di Levi, ma ne possiede la stessa forza e, come Levi, esalta, anche nei momenti più bui, la dignità dell’uomo. Leggere il libro e poi andare a comprare il DVD di Paolini. E se la libreria babbana è chiusa, non preoccupatevi … Alohomora ...
...i treni arrivavano in orario, ma sui viaggi all'estero lasciamo perdere! Ho voluto leggere in parallelo "Centomila gavette di ghiaccio" e "Il sergente nella neve", entrambe testimonianze della ritirata di Russia dell'esercito italiano nell'inverno 1942/43. "Ritirata" purtroppo è una parola ottimistica, "ecatombe" sarebbe il termine più adatto, visto il numero esiguo di sopravvissuti a questa Anabasi di ghiaccio e fame. I due autori facevano entrambi parte del Corpo Alpino, Bedeschi era tenente medico nella divisione Julia, Rigoni era sergente maggiore nella divisione Tridentina; una differenza non da poco, in quanto la Julia si trovò ad iniziare la ritirata vera e propria in uno stato di sofferenza già acutissimo, a causa dei continui scontri e le molte marce intese a rintuzzare i primi tentativi di sfondamento russi. La Tridentina aveva potuto "limitarsi" a difendere la propria linea originale ed aveva iniziato il movimento di ripiegamento in condizioni pressoché intatte, in seguito dovrà però sobbarcarsi il lavoro più gravoso. I libri sarebbero da leggere tutti e due, sono belli, ipnotici, passo dopo passo trascinano in una spirale di follia che per fortuna possiamo solo cercare di immaginare; nessuno è così crudele per meritarsi tanto. Le differenze tra i due testi naturalmente ci sono, "Centomila gavette di ghiaccio" è scritto in maniera quasi aulica; "Il sergente nella neve" No, "Il sergente nella neve" è scritto da un "sergente", tratta le parole con più semplicità. In compenso a lungo andare Bedeschi mi innervosisce, dallo stile l'aulicità si trasferisce anche ai personaggi, che sono perfetti, eroi dall'inizio alla fine quasi come da cliché, un po' diventa incredibile, un po' mi viene da pensare "Ma se in Italia vivevano davvero tutti questi uomini fantastici, come accidenti ha fatto Mussolini a gestire un crudele regime da operetta per vent'anni, senza che nessuno glielo impedisse?!"; però poi il libro finisce e ti lascia dentro tantissimo e vorresti non dimenticare mai certi passaggi e certi dialoghi. Grazie. Torno a Rigoni Stern, ed il sergente si rivela artista e non solo artigiano della parola, qualcuno l'ha definito l'Hemingway del secondo '900 italiano per la poesia nella pulizia di scrittura e mi sento di dire di sì; e poi qui ritrovo gli italiani, i miei compatrioti, quelli veri, quelli che nel disastro non sono tutti santi ed il racconto perde l'alone del leggendario e riprende i colori nitidi della pellicola. Avrei voglia di prendere un fiasco di vino e due bicchieri, prendere sotto braccio il sergente, metterci a un tavolo e scolarcela.
Questo libro è un vero capolavoro! La testimonianza di Rigoni è vera, diretta, senza fronzoli. Trasmette un senso di ansia, di sconforto, per questi uomini che, mandati al massacro, seppero affrontare con onore e spirito di sacrificio la spedizione in Russia. Dalle parole di questo soldato traspare l'inutilità di questa guerra e la sua gestione fallimentare. I nostri uomini sono stati mandati laggiù al freddo, staccati da casa e dagli affetti più cari e ingannati sulla efficienza dell'armata, con la testa piena di onore e fedeltà, ad invadere un altro stato, a uccidere altri uomini, uguali a loro, identici a loro, con indosso solo una divisa di colore diverso. E loro sono andati, hanno fatto il loro dovere, ma il risultato è stato un inutile sacrificio di vite umane verso una ritirata nella speranza di riuscire a salvarsi.
Il grande Fabrizio De André cantava La guerra di Piero: Dormi sepolto in un campo di grano non è la rosa, non è il tulipano che ti fan veglia dall'ombra dei fossi ma sono mille papaveri rossi. "Lungo le sponde del mio torrente voglio che scendano i lucci argentati, non più i cadaveri dei soldati portati in braccio dalla corrente" Così dicevi ed era d'inverno e come gli altri, verso l'inferno te ne vai triste come chi deve, il vento ti sputa in faccia la neve. Fermati Piero, fermati adesso lascia che il vento ti passi un po' addosso, dei morti in battaglia ti porti la voce, chi diede la vita ebbe in cambio una croce. Ma tu non lo udisti e il tempo passava con le stagioni a passo di "java" ed arrivasti a varcar la frontiera in un bel giorno di primavera. E mentre marciavi con l'anima in spalle vedesti un uomo in fondo alla valle che aveva il tuo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore. Sparagli Piero, sparagli ora e dopo un colpo sparagli ancora fino a che tu non lo vedrai esangue, cadere in terra, a coprire il suo sangue. "E se gli sparo in fronte o nel cuore soltanto il tempo avrà per morire, ma il tempo a me restera' per vedere, vedere gli occhi di un uomo che muore". E mentre gli usi questa premura quello si volta, ti vede, ha paura ed imbracciata l'artiglieria non ti ricambia la cortesia. Cadesti a terra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che il tempo non ti sarebbe bastato a chieder perdono di ogni peccato. Cadesti a terra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che la tua vita finiva quel giorno e non ci sarebbe stato ritorno. "Ninetta mia crepare di Maggio ci vuole tanto, troppo coraggio. Ninetta bella, dritto all'inferno, avrei preferito andarci in inverno". E mentre il grano ti stava a sentire dentro le mani stringevi il fucile, dentro la bocca stringevi parole troppo gelate per sciogliersi al sole. Dormi sepolto in un campo di grano non è la rosa, non è il tulipano che ti fan veglia dall'ombra dei fossi ma sono mille papaveri rossi. E mentre leggevo questo testo triste, angoscioso e toccante, avevo nelle orecchie questa canzone. Un libro da leggere assolutamente!
Il sergente nella neve è una storia di guerra, di freddo, di fatica, di alienazione. È una storia dura eppure piena di pudore. Le brutture peggiori sono appena menzionate: perdite, morti, violenze. È la storia di un uomo che, sopraffatto dalla fatica e dal dolore, rischia di perdere se stesso e la sua umanità. È la storia di un uomo che, nonostante tutto, quell'umanità riesce a tenerla stretta, a mantenerla viva.
Mio nonno faceva parte del battaglione Morbegno e il libro di Rigoni Stern mi ha fatto rivivere i suoi racconti. Non parlava volentieri della guerra più che altro ha raccontato a sua figlia (mia madre). Io da bambina ricordo i suoi lunghi silenzi quando gli facevo qualche domanda imbarazzante riguardo la guerra! Un bel libro, non lo avevo mai letto!
Letto per la prima volta alle medie - come mi aveva colpito e commosso negli anni 80, ancora mi ha colpito ora. Scorrevole, semplice, un occhio di riguardo alla natura. E un impatto psicologico non da ridere. Il libro e' una specie di diario, e racconta una parte della ritirata delle truppe Alpine dalla Russia, nell'inverno del 1943. L'autore era un sergente, e fu uno dei pochi del proprio plotone a tornare in Italia non solo vivo, ma non ferito. Merita molto.
Mario Rigoni Stern nel 1943, sergente maggiore degli alpini, vive in prima persona la ritirata di Russia. Questo classico novecentesco non ha bisogno di miei commenti, la sua lingua reale e pragmatica racconta tutto ciò che ha visto sull'orrore e la bellezza, la pace e la guerra.
"Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini."
Nel blog ho riportato un passo del romanzo leggermente più lungo, perché mi ha colpito molto e trovo che abbia una forza di evocazione, ma anche di esplicazione meravigliosa. Quindi i curiosi possono trovarlo qui: https://unastanzatuttapermeweb.wordpr...
Ho potuto leggere questo libro, lasciatomi in eredità da mio padre, per cui per me, emotivamente, ha un valore enorme. Ma non solo perché mio padre lo avrà letto non so quanto volte ma perché mio padre ha in prima persona vissuto la ritirata in Russia, anche se in un’altra divisione. Ebbe la fortuna di poter torna "a baita" anche se con tre dita dei piedi congelate. Ho letto qui sotto commenti stupendi, per cui non aggiungo altro, vi trascrivo solo un tratto, secondo me il più significativo, che racchiude il senso e l'insegnamento che questo libro vuole darci, che non è solo una testimonianza, un resoconto di guerra ma molto più, ben sì un libro stracolmo di umanità. “Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. – Mniè khocetsia iestj, – dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. – Spaziba, – dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. – Pasausta, – mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell’ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco. Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.”
Mario Rigoni inizia a scrivere "Il sergente nella neve" mentre si trova in un lager austriaco nel 1944. Si tratta di un memoir che ripercorre l'esperienza dell'alpino durante la ritirata di Russia nel gennaio del 1943. Atroce il racconto di questi ragazzi mandati a morire nella gelida steppa russa, male equipaggiati, in costante ricerca di cibo e riparo. Lo stile di Rigoni è semplice, diaristico, eppure carico di immagini forti e capace di farci immergere a pieno nella sua esperienza militare e personale, per tentare di provare a capire cos'è stata davvero la guerra e com'è stato vivere negli anni più bui della nostra Storia.
In poco più di un centinaio di pagine il racconto della ritirata dell’esercito italiano dalla Russia dalla penna di chi vi ha preso parte.
Mario Rigoni Stern ha partecipato alla campagna di Russia con il grado di sergente maggiore ed ha scritto questo libro in un lager tedesco, dove fu rinchiuso dopo l’armistizio del 1943.
Il libro si divide in due parti, “Il caposaldo” e “La sacca”. La prima parte (il caposaldo) è il racconto della postazione sulle rive del Don tenuta dai reggimenti alpini, tra cui quello di Rigoni Stern, mentre la seconda (la sacca) è il racconto della ritirata a seguito dell’impossibilità di tenere il caposaldo per la pressione esercitata dai russi.
Il contrasto tra le due parti non può essere più netto. Nella prima parte domina l’oscurità dei rifugi dei militari e la staticità delle situazioni, mentre nella seconda parte è onnipresente il bianco accecante della neve e la continua marcia degli alpini.
Lo stile è scarno, asciutto. Alcune espressioni dialettali dei commilitoni sembrano in alcuni casi un leit motiv che torna in modo ricorrente per cadenzare il racconto.
Su tutto impressiona la vastità della steppa ricoperta di neve, chilometri e chilometri senza alberi o case. Solo un’enorme distesa di neve dove la colonna dei soldati marcia senza riparo esposta ai venti gelidi, alle tempeste di neve ed agli attacchi dei russi.
Nel racconto emerge lo stato d’animo dei militari, diviso tra la nostalgia di casa e l’urgenza di salvarsi in un ambiente ed una natura ostile. Il tutto in modo diretto, senza retorica.
Un libro che ha il valore di una straordinaria testimonianza storica di uno dei momenti più drammatici della nostra Storia.
“Vi era un bel sole: tutto era chiaro e trasparente, solo nel cuore degli uomini era buio. Buio come una notte di tempesta su un oceano di pece. (...) la mia paura non sapeva dove andare né cosa fare.” [p.41]
La neve, la fame, il silenzio. E il cuore degli alpini che batte ancora.
Giuanin ce l’ha fatta. È arrivato a Bàita. E con lui, ce l’hanno fatta centinaia di migliaia di alpini italiani, che durante la disastrosa ritirata di Russia provarono a tornare a casa, attraversando l’inferno bianco.
Il sergente nella neve è il racconto di una sopravvivenza impossibile, scritto da chi c’era davvero. Da chi ha avuto vent’anni nella neve, nel gelo, nella disperazione. Da chi ha camminato nel vento che taglia la pelle, mentre i compagni cadevano uno a uno, lasciando nella neve l’unico calore che avevano: il corpo.
È un libro che non si può recensire. Solo leggere. E custodire nel cuore.
Rigoni Stern non cerca effetti. Scrive piano, con pudore. Scrive da uomo semplice e profondo, con gli occhi pieni di morte e di nostalgia. Parla della guerra non come eroe, ma come fratello. E ti porta là, in quella campagna russa dove ogni passo era già miracolo, dove ogni pensiero era un piatto di pastasciutta, un bicchiere di vino, una casa che sembrava irraggiungibile come la primavera.
Leggere queste pagine è come sentire il crepitio delle ginocchia nella neve, il respiro che si fa nebbia, la fame che si mangia anche i pensieri. Ma è anche scoprire la forza, la dignità, la fratellanza.
Ci sono momenti che mi resteranno impressi per sempre. Perle di lucidità, di umanità, di silenzio. Piccoli dettagli che dicono tutto: un gesto, una parola, un piede che affonda nella neve. E dietro, un cuore che batte ancora.
Perché questo non è solo un libro di guerra. È un atto d’amore per la vita, per i compagni, per la memoria.
Un libro necessario. Da leggere, da rileggere, da consigliare. Perché non accada mai più. Perché ogni passo lasciato indietro nella neve non sia dimenticato.
Hoe onder de voet ik steeds weer ben als ik oorlogsliteratuur lees. Hoe ik stiekem vermoed dat ik naar oorlogsliteratuur grijp als ik dreig in mijn dagdagelijks bestaan perspectief te verliezen. Hoe graag ik wil geloven dat als iedereen dit soort literatuur leest, woorden als 'Nooit meer oorlog' ook effectief inhoud zouden krijgen.
Mario Rigoni beschrijft in twee delen zijn oorlogservaringen in Rusland in heldere taal zonder franjes en met onmiskenbaar scherpe blik voor de waanzin van oorlog, zonder het soldatenbestaan te verloochenen. "Het steunpunt" beschrijft de confrontatie met de Russen aan het front rond Stalingrand, waar de Italianen in de bocht van de Don deelnamen aan een uitzichtloze loopgravenoorlog in de ijzige winter van 42-43. "In de tang" vertelt het schrijnende, aan waanzin grenzende verhaal van de terugtrekking van het Italiaanse en Duitse leger in februari 43. Hoe deze ijskoude, barre dagenlange tocht door sneeuwstormen, spervuur, partizanenaanvallen, bij onmenselijke temperaturen door Rigoni en de restanten van de terugtrekkende colonne tot een goed einde is gebracht, grens aan het onwaarschijnlijke. Rigoni beschrijft op indrukwekkende wijze hoe de overlevingsdrang een automatisme wordt dat zijn persoonlijkheid volledig wegdrukt.
Van een ongekende, ontroerende en verrassende schoonheid is de passage waarin hij 's nachts een izba (typisch Russisch boerenhuis) binnenstapt waar drie gewapende Russsiche soldaten aan tafel zitten. Een passage die de kern van onze menselijkheid weet te vatten, zelfs ten midden van oorlogswaanzin. Indrukwekkend en verstillend.
Questa domanda, ripetuta più volte nel racconto, riassume la speranza dei soldati italiani nella ritirata dalla Russia alla propria casa in Italia (la baita per gli alpini).
Mario Rigoni Stern è il sergente maggiore degli Alpini che ci racconta la sua terribile esperienza umana in quella ritirata, a partire dalla vita di trincea fino all’esodo vero e proprio, durato dal Natale del 1942 sino al febbraio del 1943.
E lui, con il suo ruolo di comando, diventa una guida in tutti i sensi per i suoi compagni che saranno decimati durante quella drammatica campagna.
Anche il nemico, visto da vicino in un episodio drammaticamente pacifico che mi ha fatto venire la pelle d’oca, diventa umano nel racconto, affermando un senso di speranza e di denuncia dell’assurdità della guerra.
Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati.
Scritto con uno stile essenziale e scarno, il libro è un capolavoro di realismo: ho apprezzato l’umanità, la sofferenza, la follia, il coraggio e la paura narrati da Rigoni Stern con una prosa autorevolmente disadorna.
Vera testimonianza senza retorica, da leggere con qualche fazzoletto vicino.