¿Se puede abandonar a un padre y a una madre? ¿Se puede dar un portazo, bajar las escaleras y decidir no volverlos a ver? ¿Cuestionar el origen, escapar de su control? Tras una década alejado voluntariamente de sus padres, un hijo decide por fin echar la vista atrás y narrar a su familia con «la fuerza brutal de la novela». Celebra, así, un aniversario desgarrador: sin acusar y sin salvar, con un tono «escandalosamente sereno», en palabras de Emmanuel Carrère.
El resultado es un retrato de una familia arrasada por la violencia omnipresente del patriarca; un retrato lúcido y desolador, con el foco puesto en una mujer condenada a una sumisión muda y desesperada: «Mi hermana y yo estábamos en época escolar, mi padre en la del trabajo […]. Mi madre estaba dentro de su silencio». El régimen de posesión y aislamiento al que los somete el padre se agrieta solo con el timbrazo de un teléfono mal tolerado, con compañeros de clase esporádicos, con una amiga de la madre a la que pronto expulsan...
En este microcosmos concentracionario, poco a poco se instala en el hijo, y en los lectores, un deseo irrefrenable de renacer: ser uno mismo, vivir la propia vida, abrirse a los demás sin temor a represalias. El aniversario es ante todo una novela de liberación, que desmantela y desenmascara el totalitarismo de la familia. Nos hiere con su honestidad, nos desarma con su delicadeza y se transforma en un espejo en el que vislumbrar algo que quizá no conocíamos directamente y que, sin embargo, nos afecta.
Scrittore e giornalista italiano. Autore di romanzi e racconti, ma anche di reportage, opere teatrali e traduzioni di opere dal francese e dall'inglese. Nel 2002 pubblica il suo primo romanzo, Morto un Papa. Nel 2008 vince il Premio Super Mondello, il Premio Recanati e il Premio Brancati con il romanzo Se consideri le colpe . Nel 2011 vince il Premio Bagutta con il romanzo Ogni promessa.
Si è salvato da una stella solo perchè la lettura di Luigi Lo Cascio gli dà una verve che la scrittura ahimè non ha.
cosa spinga, un autore italiano, nel 2025, a scrivere un libro direttamente dall'ombelico del rapporto irrisolto coi genitori, in prima persona, con toni tra il patetico (ehi, guardate che famiglia disfunzionale!) e il vittimistico (ehi, non me la sono cavata male alla fine!), senza nessuno ma proprio nessuno spunto di stile o di trama o un guizzo di novità ripercorrendo la trita e ritrita via crucis di tutte le famiglie infelici (alla faccia di Lev), proprio non lo capisco.
Bajani non si nega nessuna stazione di una via crucis che ha come comun denominatore la noia mortale (si ha solo un sussulto quando il padre tanto che sono tornata indietro pensando di avere saltato un capitolo nell'ascolto). Non per una mancanza di interesse per i fatti suoi (che comunque sono presentati in modo da non suscitare il minimo interesse), ma perchè sembra di leggere/ascoltare un libro già letto mille volte, cambia lo sfondo (la città, la provincia, la campagna, la montagna, il mare), il lavoro del padre, l'occupazione della madre, la presenza di figure sullo sfondo, ma alla fine è sempre il solito italico libro. Un'agonia in prima persona del piacere della lettura.
Come tutti gli anni, da quando Krodi ci costringe moralmente a farlo, mi sobbarco la lettura, anzi l'ascolto* di qualche candidato allo Strega. A volte va bene, a volte va male, a volte va di noia. Questa volta la terza. *parto con l'audiolibro così ammortizzo i trasferimenti in auto, se sono buoni passo all'ebook, se sono ottimi al cartace0. Se sono pessimi li mollo a qualsiasi punto, senza remore.
Per quasi tutto il tempo della lettura, ero convinta che il titolo del libro fosse “L’avversario”. E mi ripetevo che il titolo fosse perfetto, perché la figura del padre è l’avversario che il figlio, la moglie e la figlia devono combattere per affrancarsi dal giogo che ha imposto loro. E poi d’altro canto non mi capacitavo di come Bajani avesse dato al suo romanzo lo stesso titolo del romanzo di Carrère (che tanto ho amato!).
Stamattina sono andata in libreria e ho visto il libro sugli scaffali; l’ho mostrato con entusiasmo al mio compagno dicendogli “Ecco l’ultimo di Bajani, “L’avversario”, mi mancano quindici minuti di audiolettura e poi l’ho finito.” E lui mi ha guardata perplesso e mi ha detto “Ma il titolo è “L’anniversario”, non “L’avversario”.” Non mi capacitavo che fosse come diceva lui. Ho preso in mano il libro et voilà, l’inconscio mi ha giocato un brutto scherzo: L’anniversario unito a Carrère si è trasformato ne “L’avversario”.
“L’ultima volta che ho visto mia madre, mi ha accompagnato alla porta di casa per salutarmi. Dopo di che ha aspettato di vedermi sparire nell’imbuto delle scale prima di chiuderla.”
Andrea Bajani narra la storia comune a molte famiglie, ahimè, una storia di ordinaria violenza domestica, in cui i membri sono ostaggio delle manie di controllo di uno di essi. Personalità completamente sottomesse a quella alfa. E per uscire dall’ombra, per affrancarsi da tutto quel dolore, occorre recidere le radici. Occorre morire a ciò che si è stati, tagliare i ponti con la propria famiglia, per poter finalmente rinascere e crescere, occorre precipitare, per poi risalire, perché
“ogni cosa, cadendo, continua a cadere, anche quando ormai ha toccato il suolo. Perché di ogni cosa, in fondo, conta il peso. E poi una sospensione dell’angoscia, persino un calore, una specie di vago senso di Natale.”
Verboso e compiaciuto nello stile (“un ceffone di futuro” e altre espressioni simili non si possono sentire), di maniera e con metafore piuttosto scontate. Molto psicanalitico e intimista nell’approccio al contenuto, dove avrebbe potuto risultare più tagliente, se avesse lasciato più spazio al racconto e meno alle immagini ed eventi simbolici. Convoluto e autopsicoanalitico, una sorta di diario catartico che lascia il lettore a guardare fatti che non riesce a sentire propri: non per mancanza di empatia, ma per l’approccio dell’autore. Questo perché tutto sembra molto razionalizzato, elaborato, strutturato al fine di creare una narrazione di livello “alto” e drammatico, ma con il risultato di rendere il racconto artefatto, estremamente rimaneggiato e progettato, non sincero e spontaneo. Tra le pagine Bajani definisce la sua opera un romanzo, ma in realtà si tratta di una lunga seduta di psicoanalisi in cui cerca di scandagliare i comportamenti e i sentimenti dei genitori, attribuendo loro supposte emozioni, di cui non abbiamo conferma.
“Un vitalismo non scevro di una consuetudine con il naufragio” è una delle tante, troppe fioriture trovate nelle pagine.
Non volevo leggerlo, perché gli ultimi romanzi di Bajani non li avevo trovati convincenti (e con “Il libro delle case” mi ero anche un po’ annoiata), ma alla fine ho deciso di farlo perché tra i candidati allo Strega era uno di quelli che mi aveva incuriosita sin dall’inizio, ma anche perché i libri divisivi finiscono sempre per tentarmi. Mi è piaciuto in maniera sorprendente, sempre sul chi va là, sempre pronta a segnare il momento in cui la noia avrebbe preso il sopravvento; e invece no, dicevo, un po’ perché le tematiche familiari, quelle che raccontano le famiglie disfunzionali in cui i figli devono trovare il modo di difendersi (che forse è un po’ la mia storia e anche per questo transfert e immedesimazione finiscono per prendere il sopravvento) mi catturano sempre, un po’ perché Bajani non aggiunge ricchezza a una lingua che rimane perlopiù scarna, essenziale così come la trama, che non scende mai nel dettaglio, ma sottrae, lasciando al lettore il compito di colmare alcuni vuoti e volutamente nel dubbio (pur tenendoci a sottolineare che non si tratti di un memoir, inserendo in copertina il sottotitolo “un romanzo”, ma anche dati inequivocabilmente autobiografici) su quello che si è letto: un romanzo, un memoir, autofiction, di tutto un po’?
Ma al di là dell'etichetta, che incuriosisce, certo, ma in definitiva non è importante se non per la lotta che certa critica letteraria, (e tanti lettori) ha deciso di intraprendere nei confronti di questa tendenza della letteratura contemporanea a scegliere di muoversi perlopiù nei territori del memoir e dell’autofiction, quello che mi ha colpita è stata la scelta degli studenti delle scuole di assegnare ad Andrea Bajani e al suo romanzo il Premio Strega Giovani (gli studenti, non Bajani - ho anche invitato il Premio a cambiare nome, così la finiamo con questo equivoco che si ripete tutti gli anni), perché mi sono chiesta quanta immedesimazione, quanta familiarità ci sia stata da parte di questa generazione nelle vicende di un romanzo che tratta essenzialmente di violenza domestica e in cui la figura di un padre autoritario (quasi mai violento fisicamente) finisce per prevaricare tutti, dai figli alla moglie ai suoceri negando loro una identità propria, sottoponendoli a forme diverse di coercizione psicologica e fisica al punto da segnare, nella memoria del protagonista, dell’io narrante, del forse Bajani, un punto di rottura tale da portare a festeggiarlo, idealmente dieci anni dopo, scrivendone, ricordandolo, analizzandolo con una calma scandalosa (“scandalosamente calmo” lo definisce Emmanuel Carrère) e raccontandone la raggelante normalità. Mi chiedo, ecco, questo successo, questo premio (che domani potrebbe diventare anche letterario con il riconoscimento maggiore dello Strega) assegnato dai ragazzi delle scuole, non potrebbe essere in realtà la punta dell’iceberg, assumere una valenza di carattere anche sociale nell’indicare un disagio, una identificazione, una proiezione di sé?
Di tutto questo mi è piaciuto il distacco apparente con il quale il protagonista ripercorre la vita familiare in sua presenza e assenza, la distanza fisica e mentale che si rende necessaria per raccontare una storia come questa e la necessità, che è anche quella veicolata dal tono della narrazione, di arrivare a un punto della storia (e della vita) in cui parlarne (scriverne) non faccia più né male e né bene.
Un LP che gira a vuoto quando le tracce sono finite; il ticchettare monotono di una sveglia nel silenzio di un salotto in penombra. La lancetta fa rumore ma probabilmente non si sposta se è vero che dopo sei capitoli l’impressione è di essere ancora al punto di partenza. Bajani scrive in modo chiaro, ma ha un difetto: è barboso. I Periodi sono corretti sintatticamente, filano, non fosse che uno finisce di leggerli e pensa: ma un po’ di verve? Un po’ di brio? Un po’ di sana passione? Credo che il massimo effetto, per contrasto, una prosa del genere lo raggiungerebbe facendo seguire la lettura ad una qualsiasi opera di Victor Hugo. Il narratore quarantenne racconta la scelta di rompere i ponti con la propria famiglia d’origine e lo fa nel decennale dell’evento. La curiosità maggiore che ho avuto è stata cercar di capire se si trattasse di autofiction. A fine lettura ho iniziato ad aprire alcuni link finché non mi sono imbattuto nel video in cui l’autore spiega perché la puntina giri a vuoto e la lancetta non si sposti. Metto il link in calce, il video però è interessante solo nel caso il libro lo abbiate già letto, o quantomeno, io non lo avrei guardato se non avessi letto il libro. Lungo la narrazione non compaiono i nomi propri di nessuno dei componenti della famiglia, i membri sono padre madre fratello e sorella, il processo di spersonalizzazione lo si nota fin dalle prime pagine. Credo che si tratti di una tecnica per favorire l’immedesimazione di chi legge, ma chi sarà riuscito a ritrovarsi nel distacco mostrato del protagonista? Nella sua anaffettività? A me più di quella dei genitori, ha colpito la sua. È un “Niente di vero” con toni tragici anziché ridicoli. A questo proposito, l’intervista sottostante, ha la sua parte più interessante proprio all’inizio, quando Bajani contestualizza il sottotitolo “Un romanzo”. Scrivendo ho continuato ad ascoltare le sue parole in sottofondo e devo dire che anche la parte finale dei 58 minuti apre una prospettiva imprevista da cui giudicare il libro.
4.5 Il dolore di chi vive in una famiglia disfunzionale lo comprende solo chi ha vissuto in una famiglia disfunzionale. Penso sia questo il motivo per cui questo libro risulti molto divisivo, perché questo libro colpisce piú di tutti quelli che hanno sperimentato sulla propria pelle quella sensazione lí. Un libro chirurgico, potete, che poco importa quanto sia vero o quanto inventato, quello che conta è che quelle sensazioni lí, quell'impotenza, quella voglia di fuggire ogni istante son quanto di piú vero e meglio descritto per chi l'ha vissuto. Ed è questa la meraviglia della letteratura: che è la cosa piú vicina possibile agli esseri umani ed è anche per questo che ci fa sentire meno soli e ci regala mille vite vissute.
Ho finito questo libro qualche minuto fa. Il senso di angoscia che mi pervade, in un certo senso, certifica la riuscita di questo romanzo struggente, vero. La scrittura di Andrea Bajani è come un dono non richiesto che santifica le parole.
O último ato foi ligar para o serviço de atendimento ao cliente Infostrada, a pedir a ativação de uma nova linha telefónica para minha casa. Dois técnicos instalaram-na inserindo novas tomadas na parede ao lado das anteriores, aquelas a que estava ligado o telefone para que os meus pais telefonavam. Da central tentaram o novo número, e ele tocou. Desliguei da tomada o telefone antigo, que tocaria no vazio. Desviei assim a minha família para um beco sem saída num dia chuvoso em dezembro. Levaria mais alguns meses até o desativar e deixar que dissessem a quem telefonava: «O número de telefone para o qual ligou não está atribuído.»
O interessante nesta leitura é que vamos descobrindo, aos poucos, mas nunca totalmente, as razões de um rompimento tão drástico do protagonista com os seus pais. Para mim, ficou muita coisa por dizer mas, no pouco que foi dito, entende-se que há uma relação muito conturbada e perturbadora entre todos os elementos daquela família. Sente-se o ambiente de opressão e de violência. Um livro que se lê quase num sopro.
Il dilagare del genere dell'autofiction, o, peggio, della fiction che simula l'autofiction, mi irrita oltremodo. È come se oggi fosse sempre piu difficile trovare scrittori discreti, generosi, che si ricordino di scrivere anche per gli altri, oltre che per se stessi. Ecco qui un altro libro di questo tipo. Meno vivido degli Anni, meno ironico di Niente di Vero, meno bugiardo di Yoga. La narrazione è mediata, psicoanalitica, attendibilissima; in definitiva, non sono nemmeno sicura che possa definirsi un romanzo, anche se il protagonista stesso ci rassicura più volte, didascalicamente, che di questo si tratta. Alla fine c'è anche una sorta di dichiarazione di intenti stilistici, che ci spiega che il linguaggio è volutamente preciso e asettico. Va bene, lo accettiamo. D'altra parte siamo arrivati fin lì, non possiamo fare altro. Però diciamo anche questo: ci sono varie forme possibili di precisione. E questa è la forma piu pretenziosa e meno altruista che mi sia capitato di leggere da un pò di tempo a questa parte.
“Si possono abbandonare i propri genitori? O meglio, ci si può sottrarre a loro, semplicemente togliendo il proprio corpo di mezzo con un gesto netto e definitivo?“
Ebbene qui il narratore rende onore al decimo anniversario di questo suo deliberato abbandono. Tremebondo e salvifico. La sua storia (l’ennesima storia) di famiglia infelice diventa scrittura, rielaborazione terapeutica, sublimazione. Potenza della letteratura, mai abbastanza celebrata.
Una madre completamente sottomessa, un padre accecato dalla rabbia. Una madre che si fa opprimere fino a raggiungere il limite dell’inesistenza (“Per lei la morte non contava nulla, esattamente come non contava niente la vita”); un padre profondamente disturbato che tesse le sue tenebre con il fil di ferro della minaccia e dell’intimidazione.
Il figlio, colui che scrive, compie l’atto sacrilego per eccellenza: la fuga nel silenzio e nell’oblio. Pagata a caro prezzo, è chiaro, ma la posta in gioco è troppo alta: è la liberazione dalle catene, il viaggio salvifico verso l’autodeterminazione. Una cancellazione è impossibile, ma una ricostruzione è praticabile. Eppure la madre, la madre, rimane personaggio centrale e misterioso intorno al quale danzano coreografie di parole in perpetuo avvicinamento a un senso che rimane discosto e sfuggente.
Un romanzo breve e denso che ti immerge in un disagio crescente e mobile, ti fa sentire naufrago in mezzo al mare, figlio/figlia di genitori ignoti o ignorati, lasciati a riva col loro carico di dolore. Perché a ciascuno basta la sua pena, e diventare adulti è tagliare quel legame, non farlo diventare cappio, non condannarsi a soffocare.
Lo racconta Andrea Bajani, in “un libro scandalosamente calmo” come genialmente lo definisce Emanuel Carrère, che di storie pericolanti sul ciglio dell’abisso se ne intende.
Mi sembra che ci sia una costante nei libri che vincono il Premio Strega: sono sempre narrativa realistica e raccontano un risvolto della vita italiana, di solito triste. Libri che tra qualche decennio si rileggeranno per dire che l’Italia, in quegli anni, era anche così.
Il libro in sé non è male, ma non adoro questo tipo di storie. Di solito leggo per passare un po’ di tempo tranquillo, senza pensare troppo, qui invece mi veniva l'ansia.
È strano come il romanzo sia narrato in prima persona, ma del protagonista si sa poco. Si racconta come se fosse una figura marginale. Qui e lì compaiono brandelli della sua vita, quasi a caso, mentre il fulcro della storia è il padre e soprattutto la madre, che diventa una sorta di protagonista inconsapevole.
Il libro, a mio avviso, rappresenta quel cordone ombelicale metaforico che ci lega alla famiglia che prima si allunga, poi si assottiglia e infine si spezza di netto.
Per chi è in cerca d’ansia, questo è il libro giusto.
"Faz dez anos que, nesse dia, vi os meus pais pela última vez. Desde então, mudei de número de telefone, de casa, de continente, contruí um muro inexpugnável, coloquei um oceano entre nós. Foram os melhores dez anos da minha vida.
Há livros que parecem escritos com o silêncio. O Aniversário é um deles. Um silêncio que grita através das entrelinhas, onde o que mais dói não é o que se diz, mas o que fica por dizer.
A narrativa, em tom confessional, é conduzida por um filho que revisita a própria história e as sombras do lar que o formou. A mãe é uma presença ausente, uma “fantasma funcional”, sobrevivendo através da obediência. O pai, dominador, acredita que o amor se conquista pelo medo — e é nessa deformação que tudo se parte.
...nunca pensei que falar da minha mãe valesse a pena, porque não havia nada para dizer. A sua vida resumia-se à sua vinda ao mundo. A sua presença lá, no mundo, não era digna de nota.
"Retirada a figura do meu pai, o mundo é grande: há espaço para edifícios, para o céu e para a minha mãe."
"Para ela, a morte não contava para nada, tal como a vida não contava para nada. A dela, a dos filhos, a do marido, a de todos.(...)Era fácil classificá-la como superficialidade. E, pelo contrário, era o seu pensamento mais profundo. A morte era uma das coisas que aconteciam, como a vida, a dor e a infelicidade."
"Ela foi atingida mortalmente e sobreviveu deixando-se morrer."
"...ele queria que ela não fosse nada para poder ele ser alguma coisa, e ela queria ser nada porque ser nada era pelo menos alguma coisa."
A frase ecoa como o coração do livro — o paradoxo de quem desaparece para poder existir, mesmo que seja no vazio.
Andrea Bajani escreve com uma contenção quase cruel, sem sentimentalismos. O que o narrador nos confessa é fragmentado, tenso, atravessado por memórias de medo e silêncio que causavam uma dormência e indiferença pela vida.
"Eu não pensava em nada, era tudo automático, claro, já não havia medo, porque o pior já estávamos a vivê-lo."
Ao longo da leitura, o leitor percebe que não há redenção fácil. A mãe, o pai, o filho e a irmã — todos habitam um território de dor herdada. A violência doméstica, a humilhação e o amor distorcido são apresentados sem dramatismo, mas com uma precisão que fere.
O filho observa, cresce, cala-se. Quando adulto, o corpo fala por ele — cólicas, tremores, quedas de cabelo. O trauma infiltra-se no corpo e no tempo. E o leitor compreende: o que não se diz, o corpo grita.
“O amor e o medo juntos levam à destruição.”
O narrador, já adulto, escolhe afastar-se. Bajani não julga — apenas observa. O leitor é confrontado com a decisão de que há vezes em que o afastamento é o único gesto de amor possível por si mesmo.
"Pode-se abandonar os pais? Ou melhor, pode-se escapar deles, simplesmente tirando o corpo do caminho com um gesto claro e definitivo? E condená-los a viver o resto dos seus dias, por assim dizer, com um membro-fantasma?"
Porém, como toda a fuga, esta também tem um preço. Há uma tentativa de garantir a sanidade, mas a solidão instala-se. A ausência da família biológica, mesmo quando necessária, deixa marcas profundas — sociais, emocionais, invisíveis.
Bajani lembra-nos que a família de sangue nem sempre é o lugar da segurança. O narrador cria outra “família”, feita de pessoas comuns, de cafés e gestos simples, mas o passado não se apaga. Este é um livro sobre a coragem e o preço da libertação. Sobre a procura de identidade depois do colapso dos laços que deviam proteger-nos.
"Eram lugares onde eu me sentia bem, onde não tinha de falar muito sobre mim, se não quisesse, nem de abrir o jogo. (...) Muitas vezes dizia a todos eles que eram a minha família, sem nunca contar muito sobre aquela de onde vim."
O livro faz-nos questionar o preço da libertação e a culpa de quem escolhe sobreviver.
“Dez anos se passaram sobre aquele dia de dezembro. Escrevo agora sobre isso, um mês depois deste estranho aniversário em que, juntamente com a desagregação de uma família inteira — sobre a qual não há muito a comemorar —, celebro uma libertação. Esses dias de dezembro de há dez anos, recordo-os como uma estrela distante, cuja luz, agora que reparo, continua fatalmente acesa.”
Rotundament a favor de trencar amb la família si s'escau, però sobretot, de fer-ho amb la serenor brutal amb que ho explica Andrea Bajani amb aquest llibre
"L'anniversario" è un libro che si legge in poche ore, e lascia davvero poco dietro di sé. L’opera di Bajani appare sorprendentemente neutra, quasi sciapa, raccontando vicende ordinarie sviluppate in modo piatto, senza particolari guizzi narrativi. Ci sono, è vero, alcuni momenti in cui lo stile sembra improvvisamente risvegliarsi, accendendo per un attimo l’attenzione del lettore, ma nel complesso il testo resta privo di una reale profondità letteraria. Quello che colpisce, però, non è tanto la mediocrità del romanzo quanto l’enorme risonanza che lo circonda: dall’endorsement di Carrère alle librerie che lo spingono con cartonati all’ingresso, dai toni sensazionalistici che lo proclamano un capolavoro fino alle candidature ai più prestigiosi premi letterari. Un clamore che risulta francamente difficile da comprendere. In definitiva, L'anniversario è un libro dal piglio generalista, che sta alla letteratura come il brano di Cristicchi "Quando sarai piccola" sta a Sanremo: scorre via senza lasciare traccia. Boh.
Di per sé la storia mi è piaciuta, lo stile un po' meno. Troppo sterile e asciutto, specialmente in certi punti: a volte mi sembrava di star leggendo un trattato di sociologia o psicologia. Con questo non sto dicendo che non ci sia sentimento dietro ai fatti narrati, ma il modo in cui tali fatti vengono narrati mi sembra fin troppo tecnico e formale per i miei gusti. Anche la mancanza di parti dialogate mi ha spiazzata, è praticamente tutta narrazione. Tralasciando questo aspetto sono certa che molti lettori potrebbero riconoscersi in questa storia o almeno in alcuni aspetti di essa, perché si sa che nessuna famiglia è davvero perfetta al 100%. Ciò può essere catartico, persino liberatorio. Gli uccellini prima o poi devono lasciare il nido, fisicamente e/o metaforicamente, ed è giusto così, a prescindere dal fatto che si viva in una famiglia sana o in una disfunzionale. Questo libro puó parlare a molte persone e a tanti livelli diversi, sarebbe davvero il caso di ascoltarlo.
Vincitore dello Strega 2025, il libro di Bajani sale anche per me sul podio: quello della peggior lettura tra i 63 libri letti da inizio anno. Si contende la palma a che tra le centinaia letti ogni anno passato. Argomento il mio giudizio: 1. La scrittura è inutilmente verbosa, a tratti pesante e non coinvolgente 2. Il modo di esporre è egocentrico. Sembra uno sfogo personale fatto a mo' di terapia 3. È un loop continuo tanto da sfiorare il tedio. Sempre la stessa lamentela. Lo avevo scelto proprio per capire e conoscere la base di assegnazione di un.premio letterario: peccato. Non ho capito. Voto: 3
Operazione editoriale e letteraria veramente discutibile. Nonostante l’approccio quasi chirurgico nella descrizione dei genitori, l’autore porta a galla una sua confusività mai sanata - la relazione tra il padre e la madre non può essere oggetto di valutazione da parte di un figlio che può fare solo una cosa, raccontare se stesso in relazione alle dinamiche familiari. Ecco che ad un certo punto, quasi subito, ho perso la fiducia nel narratore che crea un pastrocchio: pretende di raccontare nel dettaglio il rapporto padre-madre, come se avesse un punto di vista onnisciente, per poi rifugiarsi nella forma romanzo, nell’invenzione.
‘Ci fu davvero? Non lo so, si tratta ancora una volta di una congettura offerta dal romanzo.’
L’autofiction non è cosa per tutti e non è nemmeno sostitutiva di un percorso di psicoterapia - facciamocene tutti una ragione.
Famiglia interrotta Ho inserito la lettura di questo libro insieme a quella che avevo in corso, “L’educazione” di Tara Westover, (entrambe poi hanno al centro una famiglia disfunzionale, ma è stato casuale), perché mi sono iscritta a un gruppo di lettura che a breve si incontrerà proprio per discutere del romanzo di Bajani. Premetto che avevo un’esperienza negativa dello scrittore: “Se consideri le colpe”, letto diversi anni fa, non mi era piaciuto, non era nelle mie intenzioni riprovarci con questo autore, ma l’esperienza del gruppo di lettura mi ha solleticato, da qui l’abdicazione ai miei propositi. Pregi: scrittura accurata, originale, parole sempre ben pensate, quindi forma ineccepibile; personaggi -madre e padre - molto ben caratterizzati; libro di poche pagine. Difetti: a volte mi è sembrato artificioso, eccessivo, inaspettato (siccome non è un thriller, secondo me questo aspetto gli ha nuociuto) rispetto alla figura del padre, che emerge da subito come dominatore, maschio nel senso più brutto della parola - a me è sembrato a tratti anche bipolare - ma che poi presenta comportamenti non “preparati”; oppure ero io non preparata a quell’arrivo. E’ un libro descrittivo più che narrativo, mi è sembrata una trama fotografica: la fotografia si compone e si articola nel tempo, ma rimane statica, proprio in quanto fotografia. Come tutti, lo scrivente compreso, fossero ingessati, statue e non esseri viventi. Mi ha lasciato un senso di vuoto. Non è una lettura che consiglierei.
...pur scartabellando nei faldoni dei ricordi visivi la memoria trova poco
Invece trova molto da dire, Bajani, sulla figura di una madre che è ombra nella vita della famiglia, anzi di un padre padrone, che psicologicamente instabile, dà vita a una famiglia disfunzionale che getta le basi per un futuro difficile anche per i figli. Una donna che si ritira dalla vita dietro la figura narcisistica di un marito despota, che non prende neppure le difese dei figli, che non reagisce mai ai sopprusi, neppure ai momenti di violenza. Una madre opposta a quella del romanzo di Franchini Il fuoco che ti porti dentro, ma la cui descrizione, con quel suo assentarsi dalla vita pur di non prenderla mai, la vita, nelle proprie mani, è impregnata della cultura di quel patriarcato di cui ancora oggi la nostra società porta i segni.
Ho trovato interessanti i diversi livelli del racconto, memoir, romanzo ma, pur rendendomi conto che il personaggio centrale resti la “non vita” della madre qualcosa di più sul padre e sulla sorella poteva essere espresso. Del padre si avverte il clima di terrore costante che riesce a imprimere alla famiglia, una personalità malata dalla quale non si può far altro, per difendersi, che trovare la via della fuga. Sulla sorella, unica vera guerriera in una famiglia di sconfitti, avrei voluto qualche pagina in più. E infatti mi rimane qualcosa di incompiuto. Comunque scrittura che amo sempre, quella di Bajani.
Il tentativo di ricostruire una storia familiare andato male, una sfilza di capitoli di “sarà andata così? Non lo so, non ne abbiamo mai parlato/non me lo ricordo/uso lo strumento del romanzo per inventare”. Mi ha lasciato la sensazione delle ultime canzoni di Giorgia, un ottimo esercizio di stile ma zero emozioni. L’impressione è quella di aver utilizzato la madre per risolvere i suoi problemi. In conclusione il libro mi ha dato fastidio, quindi credo che l’obiettivo iniziale sia stato raggiunto.
Devo dire che non mi è dispiaciuto, anche perché l'argomento trattato è di forte impatto, difficile rimanere indifferenti. Peró lo stile di scrittura ed il distacco della voce narrante me lo hanno reso un po' superficiale alla fine. Diciamo che un tema così delicato avrei preferito vederlo sviscerato molto più a fondo.
Scrivo questo commento mentre mi asciugo le lacrime, non perché L'anniversario sia un romanzo particolarmente struggente, ma perché negli ultimi tempi mi affligge un qualche disturbo non meglio identificato per cui mi commuovo davanti a qualsiasi cosa, fosse pure La Pimpa (è così pura e innocente...).
Premessa doverosa perché ho letto recensioni veramente tagliate con l'accetta, fischia se siete spietati. Alcune evidenziavano dei difetti che peraltro anche io ho percepito, però, non so?, alla fine questo libro non mi ha fatta incazzare, mi ha solo commossa.
La lettura dei primi capitoli mi ha suscinato un misto di confusione e fastidio: non capivo come il protagonista potesse descrivere in modo così freddo e soprattutto vago la propria madre. Lo trovavo irrealistico, non mi quadrava. La spiegazione è arrivata come una sberla a circa metà dell'opera: il protagonista non stava - come credevo - descrivendo una vittima, ma una complice. Questa realizzazione così improvvisa mi ha scossa, e mi ha emozionata fino alla fine.
Il difetto principale del racconto è, secondo me, la forma. Le frasi articolate e alcune espressioni apparentemente ricercate (ma forse invece un po' dozzinali) suonano artificiose, e stridono molto se inserite proprio dentro una storia che ha un carattere così intimo, simile a una confessione. Invece che avvicinare il lettore, lo allontanano. Nonostante questo, ho comunque apprezzato.
This entire review has been hidden because of spoilers.
promemoria per me stessa: non leggere mai più autori maschili che parlano della propria vita, hanno un ego smisurato e nessuna capacità di comprendere e descrivere le emozioni di qualcuno che non sia se stesso.
Este livro é como se fosse uma ferida. Vai-se abrindo devagar, quase sem se dar por isso, e quando damos por nós já estamos mergulhados num silêncio espesso, desconfortável, mas profundamente honesto.
A escrita é contida e talvez por isso mesmo tão devastadora. Não há excesso, não há dramatismo — há apenas palavras que dizem o essencial, sempre no tom certo, como quem sussurra verdades difíceis ao ouvido. É um romance sobre aquilo que nos separa dos outros e de nós próprios, sobre memórias que doem mais pelo que ficou por dizer do que pelo que foi vivido.
É uma história sobre o que acontece quando nos afastamos, não só fisicamente, mas emocionalmente. Sobre a tentativa de entender um passado que continua a pesar, mesmo quando julgamos ter seguido em frente. E sobre a liberdade que pode existir nesse afastamento, ainda que cheia de dúvidas, culpa e silêncio.
É uma história que fica a arder por dentro. É daqueles livros que nos deixam com um nó. É maravilhoso.
Um dos livros mais fortes e comoventes que li este ano.
Ho letto questo libro principalmente perché le varie “critiche” lette in giro mi hanno incuriosita, e poi perché tratta un argomento che purtroppo mi tocca da vicino; ovvero l’interruzione del legame con i genitori - atto ancora oggi considerato “scandaloso”.
Ho apprezzato tanto il fatto di “scorporare” la figura della madre al dominio del padre per darle una voce propria.
Il protagonista/autore taglia ogni rapporto con la famiglia: cambiando casa, numero di telefono e continente - molti hanno criticato questo suo gesto definendolo menefreghista e insensibile. Io credo invece che sia più un atto rivolto a salvaguardare sè stessi, una necessità vitale per la nostra sopravvivenza psicologica (e parlo anche per me stessa)
Unica pecca che ho trovato: come mi disse la mia psicologa durante le prime sedute “ho ascoltato la tua storia ma ti sento emotivamente chiusa, non mi arrivi” ecco, leggendo la storia di Bajani ho provato la stessa cosa.
Devo essere sincero: dalla quarta di copertina mi aspettavo molto, ma molto, di più. Quindi c'è un ottimo lavoro di marketing a monte.
Ma il libro? Ennesimo libro sull'onda dell'autofiction; un libro sicuramente ben scritto ma dove ho trovato degli irrisolti giganti che si trascina dietro. Ma non solo: è poco evocativo. Non sa far diventare il particolare un qualcosa di universale, non guarda alle cose attraverso "l'imbuto rovesciato" (cit. De Bernardt). Manca molto l'aspetto relazionale a discapito di un aspetto estremamente individuale (o individualistico e con un filo di vittimismo di troppo).
Funziona lo stile asciutto. Il concetto che sta alla base è anche interessante, ma emerge soprattutto il fallimento di un processo terapeutico. C'è ancora molta rabbia, poca chiarezza e appunto dei grandi irrisolti.
“Faz dez anos que, nesse dia, vi os meus pais pela última vez. Desde então, mudei de número de telefone, de casa, de continente, construí um muro inexpugnável, coloquei um oceano entre nós. Foram os melhores dez anos da minha vida.” Este parágrafo prende a atenção e sem dúvida, que esta não é uma banal histórica de família, ainda que muitas sejam famílias como esta no contexto doméstico. O totalitarismo que contado sucintamente e na primeira pessoa é cortante como um bisturi e nos tira o fôlego. Um retrato de família inquietante que, nos confronta com as nossas memórias em aproximação ou distanciamento com o peso do lugar de origem. A escrita de Andrea Bajani é de uma profundidade e clareza que assombra. Uau… mais um autor que ficou no meu radar. Que força contida nas palavras que, são implacáveis.