A series of dialogues between mythological figures, treating the question of human destiny as the personal content of myths. In his foreword, Pavese elaborates on his method in the Dialogues: "What is more acutely disturbing than to see familiar scenes troubled into new life? . . . A true revelation, I am convinced, can only emerge from stubborn concentration on a single problem. I have nothing in common with experimentalists, adventurers, with those who travel in strange regions. The surest, and the quickest, way for us to arouse the sense of wonder is to stare, unafraid, at a single object. Suddenly—miraculously—it will look like something we have never seen before."
Cesare Pavese was born in a small town in which his father, an official, owned property. He attended school and later, university, in Turin. Denied an outlet for his creative powers by Fascist control of literature, Pavese translated many 20th-century American writers in the 1930s and '40s: Sherwood Anderson, Gertrude Stein, John Steinbeck, John Dos Passos, Ernest Hemingway, and William Faulkner; a 19th-century writer who influenced him profoundly, Herman Melville (one of his first translations was of Moby Dick); and the Irish novelist James Joyce. He also published criticism, posthumously collected in La letteratura americana e altri saggi (1951; American Literature, Essays and Opinions, 1970). A founder and, until his death, an editor of the publishing house of Einaudi, Pavese also edited the anti-Fascist review La Cultura. His work led to his arrest and imprisonment by the government in 1935, an experience later recalled in “Il carcere” (published in Prima che il gallo canti, 1949; in The Political Prisoner, 1955) and the novella Il compagno (1947; The Comrade, 1959). His first volume of lyric poetry, Lavorare stanca (1936; Hard Labour, 1976), followed his release from prison. An initial novella, Paesi tuoi (1941; The Harvesters, 1961), recalled, as many of his works do, the sacred places of childhood. Between 1943 and 1945 he lived with partisans of the anti-Fascist Resistance in the hills of Piedmont. The bulk of Pavese's work, mostly short stories and novellas, appeared between the end of the war and his death. Partly through the influence of Melville, Pavese became preoccupied with myth, symbol, and archetype. One of his most striking books is Dialoghi con Leucò (1947; Dialogues with Leucò, 1965), poetically written conversations about the human condition. The novel considered his best, La luna e i falò (1950; The Moon and the Bonfires, 1950), is a bleak, yet compassionate story of a hero who tries to find himself by visiting the place in which he grew up. Several other works are notable, especially La bella estate (1949; in The Political Prisoner, 1955). Shortly after receiving the Strega Prize for it, Pavese took his own life in his hotel room by taking an overdose of pills.
Cesare Pavese lasciò dentro una copia di questo libro, sulla prima pagina, il suo messaggio di addio al mondo la sera del 27 agosto 1950, in una stanza di un albergo torinese. C'era scritta, insieme ad altre, questa frase: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». Di dolore e di angosciosa disperazione sono intrise le pagine di questo testo, lucidamente congegnato tra incanto e ragione, sul tema di un mito necessario e impossibile, contraddittoria immagine assoluta di quel nucleo primitivo di violenza, sesso e sangue, sul quale si fonda l'esperienza umana, tra potenza e legge, caos e cosmo, arbitrio e nòmos, carne e spirito. Sulle tracce del Ramo d'oro di Frazer e delle suggestioni antropologiche di Kerenyi, Pavese compone nello spirito del modello leopardiano una raccolta di favole, di racconti fantastici che esprimono motivi umani (come li definì un entusiasta Italo Calvino), nei quali il lettore è messo a colloquio scenico con attori e attrici che rappresentano l'umanità alle soglie della coscienza, sempre alle prese con il dubbio e le domande su destino, libertà e morte, in un vagabondaggio mnemonico che ci mostra un volto arcaico e pagano, compassionevole e timoroso, ma anche magnetico e essenziale. E' certo che con questo libro Pavese lotta ancora per trovare il suo posto nel mondo e uscire dalla separatezza; forse, poeta dello stupore, si smarrisce nel non trovarlo, o volgendosi indietro come Orfeo si condanna, in quanto ogni breve narrazione è anche distruzione inconsolabile, nostalgico ritorno a luoghi che devono essere abbandonati, definitiva e irreversibile perdita di quanto recuperato, convertito e salvato. Perché nell'uomo e nel senso delle sue storie si scopre e si rivela tumultuoso e indomabile un demone, un daìmon che tutto disfa e annulla, vanifica e disperde. Così nelle trame spietate e infelici della sorte riservata ai mortali, non resta che vivere la vita e ricordarsi in un segno che è stata, dare nome di ricordo al destino, gettare una parola nera sulla terra, osservare il ripetersi di un atto magico e partecipare al canto collettivo. Molto di inespresso e provvisorio in queste parole, un qualcosa di ineluttabile che è fallimento, discesa, conflitto, proiezione. Pavese interiorizza lo scontro tra umano e divino e ne porta le ferite sul corpo, con prospettive e allusioni all'oscurità del subcosciente, sempre preda di una sofferenza psichica che si frammenta lacerante nella rinuncia al razionale, dove il sé incontra il possibile in una donna che sfugge, inafferrabile, fonte di angoscia e motivo di alienazione, specchio di un'impotenza originaria: onda, foglia, vento, falò, vigna, mare. Non sono sufficienti dunque l'epos e l'elegia, né il transfert delle passioni e dei desideri, il logos che libera dalla maledizione, ogni cosa si declina in negativo, in un'ottica che assegna alla dimensione umana uno spazio primitivo e religioso, nel quale l'utopia della parola mortale, che vede oltre il sangue, è oltrepassata e sconfitta senza appello né preghiera dalla tragica e rischiosa immutabilità del divenire e dalla tensione irrevocabile della ingannevole natura.
In una fittizia cornice narrativa che coglie a piene mani dalla mitologia greca, Pavese inserisce brevi dialoghi tra svariati personaggi. Dei, eroi, personaggi resi famosi dal mito, ma anche individui comuni, umanizzato con grande sapienza, divengono i portavoce dei temi da sempre cari all'autore. Il senso della vita nelle sua infinite sfaccettature, il senso di una ricerca che sembra non diversi mai concludere e solo di rado approdare a scoperte felici, si snodano in queste pagine scritte con stile superbo e grazia delicata.
nei dialoghi con Leucò di Pavese c'è un pezzo che si intitola "L'inconsolabile" che è una nuova versione del mito di Orfeo e Euridice, dove Orfeo si è girato non per un errore o un impulso, ma per una scelta deliberata. ha visto la morte negli occhi e questa visione è stata come un marchio. quello che è stato, tornerà a ripetersi, quindi è una sciagura tornare a rivivere le cose. si è girato perché avrebbe riperso un'altra volta Euridice. mentre lo leggevo mi è venuto in mente che Gesualdo Bufalino ha scritto un racconto speculare ne L'uomo invaso, che si intitola il ritorno di Euridice, dove a parlare è Euridice che racconta la sua versione dei fatti, in una chiave un po' ironica. Per Euridice Orfeo si è girato di sua spontanea volontà, ma non l'ha fatto in preda a un'inconsolabile malinconia legata al destino umano, ma l'ha fatto perché così aveva ancora un dolore da cantare, per la sua gloria personale. della serie, gli dei tessono sciagure perché agli uomini non manchi la materia del canto. Farabutto. A presto, un terzo racconto. Devo pensarci su.
Pavese, ma cosa hai creato? Davvero, penso sia uno degli incontri più belli, le parole più belle che io abbia mai letto. Sono parole così forti, poetiche che ti entrano dentro. Credetemi se dico che io ogni singolo dialogo vorrei saperlo recitare a memoria, avere sempre con me quelle parole in tutti i momenti della mia vita. Cos’è “I dialoghi con Leucò”? è un elogio all’umanità, un continuo dialogo con se stessi. È il senso del mito greco. In tutti i miti attraverso i dialoghi si combatte sempre contro una parte di se stessi. Il libro si apre con il dialogo “La nube” dove Nefele rivela a Issione che ormai il mondo non è più governato dal caos ma “esiste una legge”, l’uomo esce dal mondo istintivo per entrare nella storia, nel mondo della coscienza. Gli dei hanno in mano il destino dell’uomo ed è questo il filo conduttore che percorre tutti i dialoghi: il destino, l’inevitabilità del destino e i limiti che questo inserisce tra gli uomini. Schiacciati dalla mano del destino, l’uomo smette di essere bestia e eroe. È tutto già scritto. “Ho sempre visto le sventure toccare a suo tempo dove dovevano toccare”. Pavese ci regala una visione molto pessimistica della vita: se tutto è già scritto, qual è il senso di tutto? di tutti questi affanni? Il senso per Pavese è la scoperta, la rinascita e il ricordo. Iniziamo dalla scoperta. C’è un dialogo, “Gli uomini”, bellissimo. Cratos e Bia- il Potere e la Forza- discutono sul fatto che Zeus, il signore del tutto, che vinse i Titani non se ne stia indisturbato sul monte ma cammina tra gli uomini. Cosa vede Zeus negli uomini? Gli uomini non sono altro che miserabili cose che dovranno morire. Bia risponde con una delle frasi più belle del libro: “Sono poveri vermi ma tutto fra loro è imprevisto e scoperta. Si conosce la bestia ma nessuno sa cosa c’è in fondo a quei cuori. Soltanto vivendo fra loro e con loro si gusta il sapore del mondo”. La bellezza dell’essere umano con tutte le sue contraddizioni si sente in ogni parola di Pavese. La potenza dell’uomo è il suo attaccamento disperato e profondo alla vita; una vita triste e dolorosa ma bella e bella perché effimera, capace di trasformare ogni giorno in una scoperta. Un’altra ricchezza dell’uomo che gli immortali invidiano è la morte, che li costringe a industriarsi, ricordare e prevedere. “Le loro storie devono viverle e morirle”: la grandezza dell’essere umano è raccontarsi, essere storie, diventare un senso. In un altro dialogo “L’isola” tra Calipso e Odisseo; Calipso è immortale e ha smesso di sentire la vita, vive la ripetizione esatta di ogni istante. Il destino di Calipso è non avere destino, non avere orizzonti. Odisseo vuole avvicinarsi all’orizzonte, lui è smania, irrequietezza, è la vita stessa. “Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?” “Se lo sapessi avrei già smesso”. La rinascita: Pavese vede nel dolore, nella tristezza, nell’essere nel tumulto delle cose una cosa necessaria perché diventa un occasione per rinascere. Soltanto attraverso l’essere irrequieto e smarrito posso essere vivo. Abbiamo bisogno di vita, di sangue e di morire, per rinascere. In “Il lago” c’è la storia di Ippolito che muore e viene resuscitato da Diana. Ippolito vive una non-vita bellissima: c’è la luce, il sole, i monti, c’è bellezza. Ma a lui non basta, a noi non basta. “Ho bisogno di avere una voce e un destino” “Tu sei stato felice” “Chiedo di vivere, non di essere felice”. Commuoversi per l’improvviso rivelarsi del mondo, tornare a stupirci, la gioia di vivere. Abbiamo anche la storia di Arianna che viene abbandonata da Teseo sull’Isola di Nasso. Arianna chiede a Leucotea: “che ne ho avuto di tutto questo senso?” e lei risponde: “Molte cose. Hai tremato e sofferto. Hai pensato a morire. Hai saputo cosa è un risveglio”. Abbiamo tutti una capacità di poesia dentro di noi e tutti dovrebbero usarla al meglio. E infine il ricordo. “Si daranno un passato per sfuggire alla morte” Si vive nel ricordo. Una delle incapacità dell’uomo è quella di non godere gli istanti presenti della vita, la felicità sta nel ritorno al passato, conosciamo il presente solo come passato. “Cos’è il ricordo se non passione ripetuta?” L’uomo che cerca così tanto l’immortalità, la sopraffazione, il sentirsi dio non sa che immortale già lo è finché c’è il ricordo di lui, finché c’è la sua storia. Nell’ultimo dialogo “Le muse”, Mnemòsine, coscienza del mondo guarda e riguarda la stessa nube e la stessa pioggia. Osserva il ripetersi delle cose nella loro staticità. Ma a far risplendere la memoria è l’eccezione nella ripetizione: una piega diversa in quella nube, un incidere diverso della pioggia. L’esistenza è fatta di questi attimi, la continua scoperta. L’uomo non lo sa, e se lo sa lo deve al ricordo non al presente. Se solo riuscissimo a capire questo. Quanto saremo liberi e felici! Grazie Pavese, per questo regalo. Ti porto con me.
Dialogues with Leucò is a book of resonances. In an enigmatic tone, a reflective set that, with erudition and biting humor, plays with mythological stories, humanizing them, demystifying them, giving them life through the spontaneity that naturally carries with it said in the form of conversation.
Nel frammento di un dialogo, nella portata devastante di un intenso scambio di parole, nella eccelsa carica espressiva che le anima, nella musicalità di un quasi verso, nel loro significato più recondito, ma che appare immediatamente intuibile, è riposta tutta la forza e la malìa di quest’opera. Nella pagina che si anima di presenze ancestrali, tutto è logos, parola e pensiero insieme, verità e menzogna, sicuramente mistero e insieme finitezza. Impongono un limite, i dialoghi: alla ragione, al pensiero, alla struttura formale stessa della quale si nutrono. Vivono di una concisione perfetta e in essa si moltiplicano, ogni significante rimanda a eterni significati. Parlano gli dei. Parlano gli uomini. Dialogano tra di loro. Ricordano i primi un tempo che fu, loro che “non esistono; sono”; loro che sconfissero i Titani, loro che temono gli uomini che uccidono gli dei e che per “esprimere un fiore distruggono un uomo”. E gli uomini ambiscono a essere più che mortali nella loro impossibilità di vivere, combattono la noia, convivono con la propria sorte dalla quale non possono sfuggire, hanno paura degli dei e quando non li temeranno più li uccideranno, ma non sarà questo il loro destino perché come ricorda Circe ”l’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. Netta è la separazione tra umano e divino, l’uno non raggiungerà mai l’altro perché il primo ha costruito il secondo e se ne nutre e vi si aggrappa ma “tutto quello che gli uomini toccano diventa tempo” e lì finisce l’immortalità. La ricchezza degli uomini è la morte, l’attimo che vivono e che non sanno cogliere nell'imprevedibilità preziosa dell’istante. Tempus fugit e “si daranno un passato per sfuggire alla morte” e ricorderanno la felicità vissuta.
"L'uomo mortale non ha che questo d'immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia."
Belli questi dialoghi con Leucò, brevissime rivisitazioni di miti. Sono tanti i personaggi che dialogano fra queste pagine, dei e dee, semidei, eroi, anche uomini e donne comuni che tutti si interrogano sul significato della vita mortale e sul senso della vita in generale, sotto esame nelle sue mille e mille sfaccettature. In queste pagine si trova alla fine il senso stesso dei miti e della loro attualità che ancora oggi ci sorprende. I miti parlano di noi, hanno sempre parlato di noi e sono stati in grado di farci comprendere che ci sono cose che sono comuni a tutti, indipendentemente da chi siamo o crediamo di essere. L'amore, la morte, la ricerca della felicità, il ricordo, la gloria, la fragilità della vita, la mortalità. Pavese ha creato una splendida rilettura del mito dallo stile lirico e poetico. Sicuramente non semplice perchè non è solo ricco dal punto di vista stilistico, ma sopratutto perchè tocca temi profondi. Lo fa però con una delicatezza tale da rendere ogni pagina una preziosa poesia che sarà difficile dimenticare.
Stile lirico, che non scivola nell'eccesso e ben si adatta a questi eleganti dialoghi in cui Pavese, per mezzo di una forza che pare giungere da tempi antichi, riesce a rendere con estrema chiarezza la sensazione del divino. Allo stesso modo le sue parole acquisiscono l'immortalità dei personaggi, staccandosi dalla pagina per divenire spesso inintelligibile al lettore.
One of these dialogues between gods, heroes, and men occurs between two hunters, on the topic of Lycaon, lord of Acadia. Zeus changed him into a wolf as a punishment for inhumanity. He was a monster as a human, so Zeus made him into a wolf. The two hunters have inadvertantly kiilled him, thinking he was a normal wolf. Should they bury the 'wolf' after they skin him, or just leave him for pickings. Is he a corpse or a carcass?
The second hunter says: "Because you don't know the way of the blood. The gods add nothing, take nothing away. All they do is touch you lightly--and nail you where your are. What once was wish or choice, you find is fate."
Blood, fate, destiny, detachment, cruelty, desire, immortality, death, existence. Pavese pokes at the wound of mortality, and records the running commentary of the mythological agents and observers.
• Esile libretto che sfida le convenzioni del romanzo, della poesia e del saggio per proporsi come una raccolta di frammenti mitici, carichi di simbolismo e filosofia. Pubblicato nel 1947, è un incontro tra cultura greca classica e pensiero esistenzialista novecentesco.
• La forma scelta da Pavese, il dialogo, si discosta dal rigore dialettico per abbracciare un tono lirico e intimo. I ventisette brevissimi dialoghi sono conversazioni tra figure mitologiche – dèi, eroi, ninfe – che discutono temi eterni: l’amore, la morte, il dolore, il destino. Non c’è sviluppo narrativo, né un intento didattico; i dialoghi si snodano come meditazioni poetiche, frammenti di verità che emergono dal contatto tra il divino e l’umano. Ogni dialogo è una riflessione su un nodo esistenziale, un incontro tra la finitezza umana e l’eterno.
• Uno dei fili conduttori è la consapevolezza della tragicità dell’esistenza. Pavese legge il mito come la manifestazione di un conflitto insanabile: quello tra il desiderio umano di significato e l’indifferenza del cosmo. Il mito diventa una lente per osservare l’uomo di fronte al proprio limite: l’uomo che ama, soffre, desidera e infine soccombe. L’amore e la morte sono intrecciati inestricabilmente, non come opposti ma come manifestazioni dello stesso enigma. Non c’è la grandeur della tragedia greca, né il titanismo romantico, qui dèi e eroi sono stanchi, malinconici, quasi umani nella loro fragilità.
• "Immortale è chi accetta l'istante. Chi non conosce più un domani."
• "Sorridere è vivere come un'onda o una foglia, accettando la sorte. È morire a una forma e rinascere a un'altra. È accettare, accettare, se stesse e il destino."
• "ODISSEO Ma non eri immortale? CALIPSO E lo sono, Odisseo. Di morire non spero. E non spero di vivere. Accetto l'istante. Voi mortali vi attende qualcosa di simile, la vecchiezza e il rimpianto. Perché non vuoi posare il capo come me, su quest'isola? ODISSEO Lo farei, se credessi che sei rassegnata. Ma anche tu che sei stata signora di tutte le cose, hai bisogno di me, di un mortale, per aiutarti a sopportare. CALIPSO È un reciproco bene, Odisseo. Non c'è vero silenzio se non condiviso. ODISSEO Non ti basta che sono con te quest'oggi? CALIPSO Non sei con me, Odisseo. Non accetti l'orizzonte di quest'isola. E non sfuggi al rimpianto. ODISSEO Quel che rimpiango è parte viva di me stesso come di te il tuo silenzio. Che cosa è mutato per te da quel giorno che terra e mare ti obbedivano? Hai sentito ch'eri sola e ch'eri stanca e scordato i tuoi nomi. Nulla ti è stato tolto. Quel che sei l'hai voluto. CALIPSO Quello che sono è quasi nulla, caro. Quasi mortale, quasi un'ombra come te. È un lungo sonno ha cominciato chissà quando e tu sei giunto in questo sonno come un sogno. Temo l'alba, il risveglio; se tu vai via, è il risveglio."
"L'uomo mortale, Leucò, non ha che questo d'immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo. Davanti al ricordo sorridono anche loro, rassegnàti."
"Circe: [...] Quello che mai prevedo è appunto di aver preveduto, di sapere ogni volta quel che farò e quel che dirò - e quello che faccio e che dico diventa così sempre nuovo, sorprendente, come un gioco, come quel gioco degli scacchi che Odisseo m'insegnò, tutto regole e norme ma così bello e imprevisto, coi suoi pezzi d'avorio. Lui mi diceva sempre che quel gioco è la vita. Mi diceva che è un modo per vincere il tempo.
Leucotea: Troppe cose ricordi di lui. Non l'hai fatto maiale né lupo, e l'hai fatto ricordo.
Circe: L'uomo mortale, Leucò, non ha che questo d'immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo. Davanti al ricordo sorridono anche loro, rassegnàti.
"Sorrir é viver como uma onda ou uma folha, aceitando a sorte. É morrer numa forma, e renascer noutra. É aceitar, aceitar, a nós próprias e ao destino." (Britomártis e Safo)
"Nenhum mortal é capaz de compreender que morre e olhar a morte. Precisa de correr, de pensar, de dizer. De falar aos que ficam." (Sátiro e Amadríada)
Inspirado na Mitologia grega-romana, Cesare Pavese imagina 27 diálogos, entre deuses e humanos, sobre a relação do Homem com a sua mortalidade, a vida, a natureza e os deuses.
Este era o livro que Pavese tinha consigo na noite em decidiu a sua morte; na página de título despediu-se ("Perdoo a todos e a todos peço perdão. Está bem? Não façam mexericos.") e dentro do livro deixou um papel com três frases, uma dos Diálogos com Leucó: "O homem mortal, Leucó, só tem isto de imortal. A lembrança que leva e a lembrança que deixa." (Circe e Leucótea)
Na mitologia grega, Leucó é uma deusa do mar que salvou Ulisses da fúria de Poseidon. "Foi então que o viu a filha de Cadmo, Ino — chamava-se agora Leucótea quem antes fora de fala humana: no mar salgado granjeara da parte dos deuses uma honra divina. Apiedou-se, comovida, de Ulisses, que tanto sofria." — Homero (Odisseia, Canto V)
(Jean-Jules Allasseur - Leucothea, Louvre)
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"A literatura é uma defesa contra as ofensas da vida." — Cesare Pavese
Cesare Pavese nasceu em Santo Stefano Belbo, Itália, no dia 9 de Setembro de 1908 e morreu em Turim, Itália, no dia 27 de Agosto de 1950. Estudou em Turim, onde se formou em literatura inglesa. Antifascista e militante do Partido Comunista foi preso em 1935, altura em que iniciou o seu diário, publicado postumamente com o título O Ofício de Viver. A última entrada do diário ("Tudo isto é asqueroso. Palavras, não. Um gesto. Não escreverei mais.") data de 18 de Agosto de 1950. Na noite de 26 para 27, suicida-se, com comprimidos, num hotel em Turim. Esta sua decisão foi longamente amadurecida, como relata no seu diário, e teve origem na sua última desilusão amorosa. Profissionalmente teve sucesso - sendo considerado um dos maiores escritores/poetas italianos do século XX - mas foi sempre profundamente infeliz, pois as mulheres que amava não lhe correspondiam.
Nota: sinto um carinho especial por Cesare Pavese porque me ajudou "contra as ofensas da vida", quando li o seu diário...
Credetemi sulla parola quando vi dico che, appena cominciato, mi è venuta voglia di piangere. L'ennesimo libro di poesie (perché qui è di poesia che parliamo, credetemi anche su questo) troppo "intelligente" per me, povera ignorante, che mi sarei limitata a lasciarmi scorrere le parole davanti agli occhi senza capire un'acca. Poi boh, dal nulla, un'illuminazione. Ad un certo punto, quelle parole hanno cominciato ad avere senso per me, a parlarmi come se si stessero riferendo alla mia esistenza e al mio vissuto. Pavese, che con le sue poesie propriamente dette (quelle in versi) non era riuscito ad arrivare al mio cuore, ha saputo farlo con dei dialoghi in prosa. Mi è quindi tornata in mente la definizione di "poesia" data dal mio professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea durante il suo corso: la poesia non coincide con il verso, la poesia è una "essenza della parola" la cui caratteristica principale è l'universalità. Anche la prosa, in questo senso, può essere poetica, se capace di parlare a tutti e a tutte. A provarvi che con me, alla fine, quest'obiettivo è stato centrato, vi sono le innumerevoli citazioni che mi hanno colpito. Le ho religiosamente riportate una per una nella sezione dedicata ai progressi di lettura, evidenziando in grassetto quelle più profonde e commoventi. I dialoghi più belli, invece, sono stati per me i seguenti: "La strada", "L'inconsolabile", "La rupe", "L'isola", "Il lago", "Il diluvio", "Le Muse". Che questa poesia possa toccare anche voi.
Uno scritto di non facile lettura, caratterizzato da 26 dialoghi tra personaggi della mitologia e della letteratura greca, dove vengono affrontati diversi temi esistenziali e universali. Molto bello il dialogo tra Lesbo e Britomarti.
Non lo so, io di questo libro faccio fatica a scrivere una recensione credibile, vorrei impararmene a memoria più di metà e recitarlo per la strada, poi leggermi tutta la mitologia greca e farla recitare per la strada a qualcun altro perché vabbè, meglio Pavese, credimi. Una volta ho visto a teatro un attore che nel testo infilava un grosso pezzo del dialogo fra Orfeo e Bacca, e anche se lo spettacolo non meritava una seconda visione sto aspettando la replica per andarlo a vedere di nuovo. Ecco, un libro così. Oppure lo odi.
Probabilmente il libro che più di tutti vorrei aver scritto io, che a tenerlo fra le mani mi dà l’impressione di poter toccare tutta l’eternità e la saggezza del Mondo. Non ho parole da spenderci su, solo un’intensa voglia di rileggerlo ancora e ancora, all’infinito, fino ad imprimerlo indelebilmente nella mia memoria, per farne tesoro, insegnamento, Vangelo. Grazie di cuore C.
Reificazione: l’artista crea il manufatto ma non potrà mai essere egli stesso arte. Il Dio crea l’uomo, ma non saprà mai cos’è la vita.
Pavese si allontana apparentemente dalla vita di tutti i giorni, dalla campagna, dalle colline e dalle vicende umane e ci porta nel mito, tra gli dei e altre figure mitiche. Con la scusa del chiacchiericcio ai piani alti però, ci parla pur sempre degli uomini, dell’ardua ricerca della felicità, della natura ostile e del destino di esistere. Pavese sale così in alto che l’ho raggiunto a fatica, arrancando. Forse da rileggere.
Ventisette dialoghi che indagano i sentimenti, i turbamenti e i desideri dell’animo umano. Questi pezzi d’autore profumano di antico, di eternità e di mitologia.
"Strana cosa che per capire il prossimo ci tocchi fuggirlo"
un libro immenso, con i suoi alti, i suoi bassi (e ce ne sono, alcuni dialoghi sembrano molto riempitivi) ma immenso. Un'operazione che non penso sia mai più ripetibile, perchè irripetibile è il talento e il sapere di Pavese.
Riscrivere il mito, riparlare degli dei (anzi far parlare gli dei) per parlare degli uomini, per raccontare il genere umano a 360°.
alcune parti andrebbero sottolineate e memorizzate. "non c'è vero silenzio se non condiviso".
concludo con la frase manifesto: Eracle: Ma sono un uomo Prometeo, non sempre so quello che debbo fare. Prometeo: Pietà e paura sono l'uomo. Non c'è altro.
E gli insegnanti delle superiori? dove erano quando mi dovevano proporre questo anzichè quelle solite barbose antologie? bah.
La tragedia dell’esistenza umana. Il dolore degli uomini, come veniva espresso nel mondo greco, nella mitologia, è il più puro e lacerante perché è esagerato e senza limiti. Il dolore non ha limiti, non ha confini, può avere un inizio preciso ma non una fine precisa. Non si può contenere. E così sembrava pensarla Pavese, che pur sostenendo di non voler fare Omero, ci riesce benissimo. Ha la lingua dolente e antica che si può sentire leggendo una qualsiasi tragedia greca originale.
Un po’ di preferiti, tra i dialoghi:
Gli dei. “Io, per me, non mi stanco di sentirli parlare dei loro terrori notturni e delle cose in cui sperarono. E credi ai mostri, credi ai corpi imbestiati, ai sassi vivi, ai sorrisi divini, alle parole che annientavano. Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Se un tempo salire su queste alture di sassi, o cercarono paludi mortali sotto il cielo, fu perché ci trovavano qualcosa di cui noi non sappiamo. Non era il pane ne il piacere ne la cara salute, queste cose si sa dove stanno. Non qui. E noi, che viviamo lontano, lungo il mare o nei campi, l’altra cosa l’abbiamo perduta.” “Dilla dunque.” “La cosa, già lo sai, quei loro incontri.” —
L’inconsolabile. Orfeo: “E’ andata così, salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani, Cocito, lo Stige e la barca, i lamenti. Si intravedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscio del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo alla vita con lei com’era prima, che un’altra volta sarebbe finita. Ciò che è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo attraversato e che lei si portava nelle ossa nel midollo nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai. Intravidi il barlume del giorno. Allora dissi, sia finita, e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela.”
“Euridice, morendo, divenne altra cosa. Quell’Orfeo che discese nell’Ade non era più sposo ne vedovo. Il mio pianto di allora era di quelli che si fanno da ragazzi e si sorride a ricordarli. La stagione è passata. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi, mi ascoltavo. Il mio destino non tradisce. Ho cercato me stesso, non si cerca che questo.”
— Leucotea: “ Troppe cose ricordi di lui. Non l'hai fatto maiale né lupo, e l'hai fatto ricordo.” Circe: “L'uomo mortale, Leucò, non ha che questo d'immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo. Davanti al ricordo sorridono anche loro, rassegnati.”
— “Io non lo seppi allora, non lo sapevo l’indomani, ma ero già cosa sua, preso nel cerchio dei suoi occhi, dello spazio che occupava, della radura, del monte.”
Un piccolo gioiello. Così come per Le nozze di Cadmo e Armonia, ogni volta in cui leggo opere di mitologia greca (scritte, ovviamente, da persone competenti) mi sembra di avvicinarmi passo passo verso la comprensione di qualche mistero ultimo, se non del Mistero, mi sembra di riuscire a scostare anche se di poco il velo sul Vero, sui segreti più reconditi dell'essere umano.
O forse è solo l'amore profondissimo per la materia: mio, che ne leggo; altrui, che ne scrive. Con questi brevi dialoghetti Pavese, dalla penna in uno stato di grazia, leggerezza e purezza, scava nel cuore di riflessioni sulla morte, il rapporto tra l'umano e il divino, il destino e il fato, eterne quanto è eterno il mito e tutto ciò di cui il mito è simbolo.
[io a Pavese:] Tu dài nomi alle cose che le fanno diverse, inaudite, eppure care e familiari come una voce che da tempo taceva.
E poi tutto il resto: Qui la legge è il nevaio, la bufera, la tenebra. E quando viene il giorno chiaro e tu ti accosti leggera alla rupe, è troppo bello per pensarci ancora.
Esser cieco non è una disgrazia diversa da esser vivo.
Cosa sono i mortali se non ombre anzitempo.
[Gli dei] Per esprimere un fiore distruggono un uomo.
Penso a volte che noi siamo come il vento che trascorre impalpabile. O come i sogni di chi dorme.
E se vai per le strade, sai che la terra è tutta piena di divino e di terribile.
E la mia fuga era guardare nelle cose e nel tumulto, e farne un canto, una parola.
Ma tu lo senti questo tedio, quest'inquietudine marina? Qui tutto macera e ribolle senza posa. Anche ciò che è morto si dibatte inquieto.
Siete stranezze, voi mortali. Vi stupite di ciò che sapete.
A che serve passare i giorni se non si ricordano?
Questa stanchezza e questa pace, dopo i clamori del destino, son forse l’unica cosa che è nostra davvero.
Abbiamo tutti una montagna dell’infanzia.
E i discorsi più veri sono quelli che facciamo per caso, tra sconosciuti.
Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dei spariranno.
Non è niente l’inverno. L’inverno si pena ma si sa che fa bene ai raccolti. La canicola no. La canicola brucia. Tutto muore, e la fame e la sete ti cambiano un uomo.
Bella è ogni cosa abbandonata e ritrovata.
Era bella, signore, era fatta di terra e di sole.
Tu sei mai stata in un vigneto in costa a un colle lungo il mare, nell'ora lenta che la terra dà il suo odore? Un odore rasposo e tenace, tra di fico e di pino? Quando l'uva matura, e l'aria pesa di mosto? O hai mai guardato un melograno, frutto e fiore?
perché non imparano a viverlo come un attimo eterno nella loro miseria? Perché non capiscono che proprio la loro labilità li fa preziosi?
Pavese, in una lettera al suo editore, lo reputò l'unico suo libro "che valeva qualcosa". Mi precipitai subito a comprare i Dialoghi con Leucò e ammetto che, in più di un punto, lo amai follemente; ma per molti versi mi risultò incomprensibile ciò che l'autore voleva dire. È chiaro che non ero ancora intellettualmente pronta per comprendere totalmente quest'opera. In ogni caso, la consiglio perché Pavese si ama e basta.
«Sorridere è vivere come un'onda o una foglia, accettando la sorte. È morire a una forma e rinascere a un'altra. È accettare, accettare, se stesse e il destino».
Ancora una volta di destini, suicidi, falò e narrazioni. Forse la prosa più poetica di C.P. incontrata finora. Sicuramente la sua prova più difficile da superare. Da rileggere.
I hated this on so many accounts - possibly the worst book I've read for uni ----- 4 months later: changing the rating to 2 stars instead of 1 because it actually grew on me while I was writing my term paper (I would not want to re-read it, though)
L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. – Circe.
La mitologia è il mio mondo preferito credo da sempre. Dialoghi con Leucò comunica questo mondo in maniera diretta, servendosi del dialogo; un mondo che oggigiorno è, in realtà, più attuale che mai. E quando quest’ultimo è travisato dalla sensibilità di Cesare Pavese, allora si “rischia” di creare un capolavoro come “Dialoghi con Leucò”. Anche questa volta, lascerò che la recensione sia lunga, e mi premurerò di esaminare ogni dialogo nel dettaglio. Ognuno è intriso di simbolismi, di riferimenti biografici e mitologici, che rimandano ai vari cicli della cultura classica, a partire dal primo. Perdonatemi, dunque, se sarà tutto in flusso e potrebbe apparire confusionario. Issione e Nefele fanno parte di questo enorme universo che genera incongruenze. Ecco perché non è possibile che costui abbia generato i Centauri da una nube. I Centauri già esistevano, sono sempre esistiti, ed è il tema dell’interferenza che regna, qui come nella mitologia. L’uomo non ha senso, non ha senso senza la gloria. Ecco che il vecchio Bellerofonte, senza nemici da combattere, sta perdendo sé stesso. Se vuoi vivere, desideri morire, perché la vita è tutt’altro che felicità. Lo dimostrano Marsia, Niobe e Aracne, menzionati da Sarpedonte con le azioni che hanno commesso: il satiro fu ucciso per la sua superbia, Niobe si suicidò dopo la morte dei suoi figli sempre per un atto di tracotanza, Aracne divenne ragno per aver creduto di poter superare Atena. Anche la storia di Tiresia rivela un’assoluta verità dell’animo umano: non ci sono momenti in cui gli uomini sono migliori o peggiori, ma ripugnano in primo luogo agli dèi, che non li sopportano. La duplice natura di Tiresia lo porta a sapere tutto del mondo e a renderlo il più saggio dei saggi, benché non ci veda. Da uomo arrivò a bramare gli uomini e da donna le donne, perché trovò impossibile un appagamento completo per gli opposti, vistone il giudizio diverso e la non conoscenza di sé e del proprio corpo. Quando s’invecchia, anche la gioia della dolcezza del sesso svanisce e diventa esperienza. Ed Edipo può solo apprendere da lui. Tutto il dialogo alla fine non è che un grifos, un indovinello, in cui la cecità di Tiresia lo rende aperto a tutte le cose e illuso al tempo stesso. Edipo prega che ciò non gli accada, e qui abbiamo la reticenza dell’indovino: sa cosa succederà al re di Tebe, che morirà cieco e solo con la compagnia di sua figlia Antigone, ma, come nel mito, Tiresia non vuole rivelare nulla sin quando non sarà necessario. La vita è declino, e nel terzo dialogo Chirone fa un riferimento velato a Esiodo: la decadenza dell’uomo tramite le età che qui non sono menzionate – oro, argento, bronzo, eroi, ferro – è ciò che il centauro ripete a Ermete. Per quanto buoni, i nuovi padroni (gli dèi, contrapposti ai Titani) hanno reso esseri come Centauri e uomini “mortali”. Quindi, la loro bontà ha un prezzo, e un dio come Ermete, tra la vita e la morte, che funge da psicopompo, dovrebbe capirlo più di chiunque altro nel condurre sempre le anime dei morti nell’Ade. Gli dèi, Ermete ripete, sono incoerenti: il Radioso, Apollo, amava Coronide, e per quell’amore accecante e tradito la uccise; il fratellastro ne ha solo salvato il bimbo, Asclepio, che, ritornando alle origini, avrebbe guarito i mortali, li avrebbe resuscitati – come farà con Ippolito – e per rabbia di Zeus sarebbe morto a sua volta per tale oltraggio. Perché Zeus, dopo che suo padre Crono sancì il tempo, ha decretato la morte. E si lega al quarto dialogo, dove la distinzione tra immortale e mortale è sempre più forte. Eros e Thanatos compiangono Giacinto: il destino di Elino, Dafne e Atteone si è compiuto anche per lui. Giacinto, nella sua bellezza e nella sua poca vita vissuta, aveva sentito i racconti di Febo Apollo come se gli avesse narrato di una meravigliosa vita famigliare, come se tutti i suoi amanti non fossero che un bel lontano ricordo. Giacinto ha vissuto all’apice della felicità da vivo e poi è morto: muore come tutti gli esseri umani. E c’è una cosa che separa mortali, immortali ed eterni: se gli uomini sono mortali, immortali sono gli dèi, che nascono ed esistono senza essere e senza morire. Eterni, invece, Eros e Thanatos, amore e morte, che ci sono sempre stati e hanno assistito alla continua evoluzione della storia come forze opposte e contigue. E assalgono i mortali; Endimione, come nota lo straniero, è imprigionato nella dolcezza di un’illusione: l’amore di una dea, di Artemide, l’ha reso pazzo. Testimonia l’uomo che pur di predire ciò che vuole arriva a pensarlo con tutto sé stesso, condannandosi a una bugia eterna che non gli rende chiaro neppure se sia vivo o morto. Si ha la perdizione di sé, ed essere un’altra non mi basta: se non posso essere Saffo, preferisco essere nulla. Un racconto struggente, che forse mi ha colpito più dei precedenti visto il legame che mi unisce a Saffo, o perché vedere menzionate e citate donne come Arianna, Fedra, Medea, Elena, Andromaca non ha potuto che commuovermi. Tutte queste donne hanno in comune il mare: c’è chi ha viaggiato per mare, chi è morta su delle isole, chi ha fatto del mare una parte di sé divenendo schiuma… Saffo è la decima musa, per quanto Pavese non ce lo dica esplicitamente: e i suoi versi, le sue opere, sono destinati a vivere in eterno, nonostante lei si sia suicidata. Il dialogo con Bitromarti testimonia quella sensibilità femminile che si esibisce nei versi; Saffo è insicura, ma conosce tutte queste donne tradite da uomini, ascolta le loro storie mediante le onde, e ne è totalmente partecipe riempiendo il pelago di lacrime. “Ma allora perché ci hanno ucciso?” “Perché vi han fatto, Meleagro”. Meleagro è uno dei miei personaggi preferiti della mitologia, e la sua tragica fine è segnata da due tragiche donne che lo amavano: sua madre, Altea, e la sua amante, Atalanta. Costei, da principessa cacciatrice, ebbe per prima ferito il cinghiale calidonio; quando Meleagro lo uccise ne ebbe la pelle, e lei promise di metterla sul loro letto di nozze. Meleagro è un uomo e non è nulla senza la sua donna, così come Atalanta è donna e non è nulla senza il suo uomo. Ma la donna crea l’uomo, ricorda Ermete. E allora Meleagro perisce nel sangue di chi lo ha generato, Altea, e di chi lo ha completato, Atalanta. Meleagro è morto nella sua ignoranza, Atalanta avrebbe sposato poi Melanione – o Ippomene – che l’avrebbe conquistata con l’intelligenza furba dell’amore. Restando su questo tema, Achille e Patroclo li conosciamo tutti: l’ambiguità della loro relazione, vista anche in Pavese, li rende probabilmente la coppia più nota della storia dopo Romeo e Giulietta. Achille per primo dice che saranno come Teseo e Piritoo. Rimpiangono i giorni che trascorsero insieme, e lo fanno perché quei giorni, appartenenti alla loro giovinezza, li avevano resi immortali. Di nuovo il paragone con Esiodo è d’obbligo, per me: più si va avanti, e più c’è un degrado del progresso, il che sembra un paradosso. Ma un adulto beve per dimenticare la morte, mentre un ragazzo, per quanto possa uccidere, non sa cosa sia la morte. E quindi, l’avventato Patroclo non è che un ragazzo che beve e Achille un adulto che non lo fa: entrambi, tuttavia, saranno immortalati come i gloriosi guerrieri che sono stati e continueranno a essere. Il mito di Edipo si riprende dalla sua cecità, dal suo smarrimento che è più interiore che visivo. È emblematico poiché, nel discorrere con il mendicante, viene fuori la vera essenza della depressione: non importa quanto si sta bene economicamente o quanto si è stati bene. La sofferenza può prendere tutti, e chi ha tutto, sentendosi vuoto, è come se non avesse né avesse mai avuto niente. Così il mendicante è più felice e più appagato di un Edipo che, dopo aver vissuto nel lusso, ha perso tutto, per prima cosa la dignità. Che cos’è la vittoria se non pietà che si fa gesto, che salva gli altri a spese sue? Il racconto tra Eracle e Prometeo conferma le mie opinioni sulla concezione esiodea di decadenza che pervade il racconto: la morte è arrivata con gli dèi immortali. Né gli uomini né gli dèi possono uccidere i mostri: essi non muoiono mai, ma svanisce la paura che incutono, ed è per questo che Eracle, da uomo, affronta i mostri senza alcun problema e finisce per liberare Prometeo, il quale non può non fare un riferimento velato agli Erga kài Emerai di Esiodo, in cui il lavoro solo è percepito come forma di libertà e giustizia. Giustizia che è stata fatta anche per Orfeo, che ha perso Euridice. Pavese ci rivela l’altra faccia di una storia mai raccontata del tutto: Orfeo, nello scendere all’Ade, non voleva ricercare la sua sposa, bensì sé stesso, per poi perderla. Ecco che, vedendola precipitare nell’oblio, ha perso sé stesso e non lo si riconosce: rinnega la sua esistenza tanto che la baccante decide di ucciderlo per la perdizione in cui è annegato, molto più che nella tristezza. Dioniso è il dio nato due volte che è tale diventato da che era uomo; Orfeo, invece, dopo aver provato le gioie di un immortale si ritrova a essere il peggiore dei mortali, realizzando che la tristezza si può provare solo per le cose vive, non per i morti. Ed è per questo che non piange sé stesso. C’è, dopotutto, una pace al di là della morte. Ed è una pace che tocca tutti: uomini, titani, animali… Licaone, trasformato in lupo per la sua crudeltà, non ne è esente. Soffre, e il suo nome è inchiodato nel destino che per lui hanno decretato gli dèi: quella forza maggiore, che punisce solo guardando alle nostre azioni, che ci ricompensa se ce lo meritiamo e ci condanna, come Atropo fa alla fine delle nostre vite, se la crudeltà supera l’umanità. Sono due facce di una medaglia che si ribalta a seconda dello spazio e del tempo: il dialogo tra Litierse ed Eracle testimonia il primo incontro tra una religione ctonia e ginocentrica con quella astrale androcentrica. L’Oriente contrapposto all’Occidente; l’Oriente patria dei mostri, che uccidono gli Occidentali rendendoli spighe di grano… e poi l’Occidente, effimero, con dèi astrali che sono nulla, senza pragmatismo, senza la minima utilità, ma più potente anche militarmente. Allora? Chi è più umano o meno umano di chi? Chi può deciderlo, se non il destino? Non sono poi diversi i Greci coi sacrifici umani: un padre uccide suo figlio, offrendolo agli dèi, per un peccato originale degli uomini verso i loro padroni. Fanno bene gli dèi a vederli soffrire, e se non ci fossero guardiani forse sarebbe meglio; eppure, la gerarchia ordinata dai celesti determina tutto, anche la fine degli innocenti… Quando non sei innocente, cosa sei? Mortale, certo, ma anche perso. Questo è Odisseo su Ogigia, mentre ad accompagnarlo una morta Calipso. Morta, perché la sua esistenza assume senso e concretezza solo con Odisseo. E lui? Lui è immortale perché non teme la morte, ed è uomo perché altrettanto la teme. La meta che lui cerca non è Itaca, ma è sempre stata dentro di sé, nel suo cuore. Odisseo, un uomo così intelligente, ha provato tanto piacere e si è posto tante domande, ma mai quella giusta. Finalmente è arrivata una risposta: deve ritrovare sé stesso, e lo può fare solo lasciando quell’effimera donna che lo ha trattenuto sette anni. L’immortalità non è poi così bella e lo sa Virbio, a suo tempo Ippolito, che pone un’esistenziale domanda a Diana-Artemide: è meglio vivere per sempre o essere felici per il tempo che resta? Meglio esser Virbio pensando al passato o l’esser stato Ippolito per il presente florido che si presentava? Ed eccoci al dialogo chiave, quello in medias res: Circe e Leucotea – Leucò – le streghe, coloro che sanno. Circe ricorda Odisseo: non l’ha fatto maiale, non lupo, non picchio… l’ha fatto ricordo. È il mortale che ha reso mortale anche lei, affibbiandole nomi su nomi, con l’esigenza di farla donna più che dea. E lei non l’ha ucciso come poteva, l’ha lasciato andare: perché l’uomo, nella sua stupidità, sa imprimersi con forza nella memoria di chi lo ha odiato e di chi lo ha amato. E Circe ha fatto entrambe le cose. Così l’uomo mortale desidera la gloria, come Teseo: non guarda in faccia a nessuno e conquista le cose per quel tipico greco orgoglio personale, che celebra l’io sul noi e l’uomo sulla donna. Ma Teseo è solo uomo e ha abbandonato un’Arianna dea, fatta di terra e di sole. Teseo è un uomo crudele e a suo modo stupido, come lui è Atreo e come Atreo gli Atridi e come gli Atridi Paride: per uomini del genere c’è bisogno di donne del genere, e una di queste è Elena. Castore e Polluce sono stanchi di riprendersela dal mare. È il destino che determina le loro sorti. Com’è vero che il capostipite Tantalo ha dato inizio a questa decadenza: da lui i figli e i nipoti sposarono donne crudeli. Ippodamia uccise l’auriga del carro di Pelope; Erope tradì Atreo col gemello Tieste; Clitemnestra avrebbe ucciso Agamennone; Elena, all’apparenza innocente, è la causa della morte di Achei e Troiani. Le donne fanno piangere gli uomini e viceversa. Capita quando si sentono dèi o credono di poterlo diventare per un momento: Giasone vecchio supera in saggezza quello giovane: ha avuto una donna che non piangeva mai, Medea, e che l’ha ucciso privandolo dei figli; ma lui l’aveva tradita. E così è destino che Teseo l’abbia in sposa, benché ella, moglie di Egeo, abbia tentato di uccidere anche lui. Ma la crudeltà che va con la crudeltà è come la bontà che diventa immortale: come Eracle, uno di loro, che divenne dio dopo che le donne lo fecero piangere. E Giasone cosa resta? Un uomo redento che si costringe al ricordo d’esser stato dio, né crudele né buono, ma semplicemente perso. Districato tra mortalità e immortalità solo Dioniso; Leucò, sua zia, lo sa bene: ed è per questo che è il dio che uccide ridendo, perché conserva la saggezza immortale e la stupidità mortale. La stessa che appartiene anche ad Arianna, disperata, che vuole uccidersi ma viene frenata. A quella poveretta altro attende, una rinascita, che avrebbe reso anche lei immortale grazie all’unione con un dio che nacque della sua stessa natura. Perché è facile conoscere l’immortale, l’iddio, e la bestia che cela dentro di sé; più difficile è conoscere l’uomo, Forza – Cratos – e Potere – Bia – lo confermano: saranno anche cose destinate a morire, ma nel profondo dei loro cuori c’è qualcosa che nemmeno Zeus può scoprire e scovare. Tutti, uomini e donne, sono il malanno di questa società di cui compongono la parte più complessa. L’uomo fatto Dio per eccellenza è Gesù, ma nulla sarebbe il suo culto senza che quello di Demetra e Dioniso, la spiga e la vite, fosse mai esistito. Prendono in giro i mortali: Demetra è vista come figlia di Rea e a volte confusa con Rea stessa, con Gea, con Cibele, con la grande Madre. Lei è il monte colmo di vita come Dioniso è la gioia che si ritrova nel vino. I mortali hanno necessità di crearsi religioni e illusioni perché devono dare un nome a ciò che li circonda, quando tutto l’universo non è che un grande organismo ed è improbabile che esista solo una verità. Ma cosa significa realmente morire? Morire significa non lasciare un ricordo, che a sua volta s’inchioda al destino. Quando una persona defunge – verbo che letteralmente significa “non svolgere più la funzione che si ha” – non è detto che sia morta. Non se il ricordo che si ha di lei si perpetua nei secoli. Il Satiro e Amadriade lo sanno: il diluvio universale diviene, dunque, il simbolo di chi vuole spazzare via tutto affinché non vi sia ricordo. Il simbolo della totalità della morte. Il penultimo dialogo è volto proprio a questo, a ricordare, e Pavese non poteva esemplificarlo meglio che sotto la figura di Esiodo che dialoga con Mnemosine, la memoria. Lei che tutto sa, che può essere chiamata come vuole perché tutti rappresenta, dà un’importante rivelazione: nulla muore mai, né gli dèi che smettiamo di venerare per il progresso, né l’uomo nella sua incoerenza: così, Esiodo, frutto di quella stessa decadenza su cui ha poetato, rinnega il lavoro dei campi, rinnega sé stesso, ma si sforza di ricordare l’uomo che è stato e la felicità che ha avuto nel passato, in tempi migliori. Traendo le conclusioni, alla fine, i dialoghi sono l’esaltazione e insieme la presa in giro dell’uomo: deridono la sua necessità di dare un nome alle cose e ai fatti, ma lo apprezzano per quell’ingenuità e quella purezza, quell’impurità, quell’intraprendenza, quelle sfaccettature che lo contraddistinguono. L’uomo lascia tanto di sé all’altro uomo e al dio, lascia la propria impronta e non resta mai anonimo. Solo così, solo in questo modo, l’uomo non muore mai, ma col perpetuarsi della storia diviene immortale ed eterno, da durare ed esistere nei secoli.
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Pavese's little book is a veritable symposium of timeless themes, explored through imagined dialogues among the pantheon of Greek mythology. Each conversation features gods, heroes, and mortals waxing philosophical on their existential escapades.
In the tête-à-tête between Orpheus and Hermes, we find the crux of the matter: the ephemeral versus the eternal, the mortal versus the divine. Orpheus, the virtuoso of the lyre, wrestles with the fleeting nature of human existence and the immortal essence of art. Hermes, the divine courier, counters with musings on the transient beauty of life and the inescapable embrace of death.
Prometheus and Io engage in a fiery discourse on suffering and rebellion. Prometheus, the fire-bringer who thumbed his nose at Zeus, and Io, bovine beauty bedeviled by Hera, ponder their punishments and the broader implications of defying divine decree. Endymion and a Stranger explore the depths of sleeplessness and yearning. Hercules and Iole juxtapose strength and vulnerability. Sappho and Alcaeus serenade us with reflections on love and poetry. Theseus and Ariadne untangle the complex web of human emotions. Ulysses and Calypso spar over the siren call of immortality versus the homely hearth. Achilles and Patroclus contemplate camaraderie and heroism. Cadmus and Harmonia debate the dance of fate and free will. Daphne and Apollo muse on the chase for beauty and the inevitability of change.
Each dialogue is a treasure trove of mythological allusions and philosophical ponderings. In Pavese's capable hands, these exchanges are not only profound but also delightfully witty and engaging, offering a light touch to weighty meditations.