Fratelli d'Italia nacque come uno sfrenato «viaggio in Italia» degli anni Sessanta, uno smisurato Grand Tour di ventenni on the road. Quando fu pubblicato nel 1963, era un romanzo di avventure intellettuali e picaresche attraverso le follie del boom economico e le metamorfosi della società e del paesaggio, delle illusioni e dei caratteri. Oggi, reinventato, ci viene incontro come l'opera «totale» di una vita. Così rinasce tutto nuovo questo libro irriverente e imponente, che racconta l'Italia di allora e di oggi più di qualsiasi summa, con l'estro insolente di un autore che ha saputo infondere nella lingua e nella letteratura italiana una leggerezza e una mobilità senza precedenti. Comico ed enciclopedico, spettacolare, efferato, divertentissimo, questo romanzo di formazione, di conversazione e di idee si presenta anche come una ricapitolazione allucinatoria del Novecento europeo: pieno di figure storiche e personaggi reali, di scoperte e polemiche, di peripezie mondane e aneddoti autentici e battute pazzesche. Notti senza fine di giovani che discutono dei loro autori e dei loro amori fino all'alba, progettando grandi opere-sogno letterarie e teatrali e musicali vere o immaginarie o fantastiche. Affetti e utopie e irrisioni e rivolte contro un oppressivo establishment culturale e politico. Ma anche la verve della café society, quando Roma era una capitale cosmopolita e «passavano tutti di qui», e le donne erano «molto più belle e più intelligenti e spiritose e anche più alte degli uomini corrispondenti». E che cosa significa aver vent'anni e molti desideri, nell'Italia di Petronio, di D'Annunzio e di sempre… Sul fondo, mercuriale e struggente, ironicamente nascosto nel proliferare delle trame, un timbro che non si lascia dimenticare, quello di «un gelido orgoglioso disperato romanticismo intellettuale».
Lo scrittore e saggista Alberto Arbasino nasce a Voghera il giorno 22 gennaio 1930. Laureatosi in Giurisprudenza, si specializza poi in Diritto internazionale all'Università di Milano. L'esordio come scrittore avviene nel 1957: il suo editor è Italo Calvino. I primi racconti di Arbasino sono inizialmente pubblicati su riviste, poi saranno raccolti ne "Le piccole vacanze" e "L'anonimo lombardo".
Grande estimatore di Carlo Emilio Gadda, Arbasino ne analizza la scrittura in varie opere: ne "L'ingegnere e i poeti: Colloquio con C. E. Gadda" (1963), ne "I nipotini dell'ingegnere 1960: anche in Sessanta posizioni" (1971), e nel saggio "Genius Loci" (1977).
Scrive anche reportage Da Parigi e Londra per il settimanale "Il Mondo", poi raccolti nei libri "Parigi, o cara" e "Lettere da Londra". Ha collaborato anche per i quotidiani "Il Giorno" e "Corriere della sera"
Si chiamarono Gruppo 63. Erano avanguardia ma si definivano neoavanguardia. Alberto ne faceva parte, uno dei fondatori, uno dei membri più attivi.
Questo suo romanzo miliare lo pubblicò proprio nel 1963. A maggio la prima edizione. A luglio già la seconda. Aveva 33 anni Io ne avevo 23 quando l’ho letto.
La prima versione (lire tremila). Romanzo breve, ‘solo’ 532 pagine. Perché Alberto ci rimise le mani nel 1967 e lo portò a 663 pagine. Poi ancora nel 1993, e questa volta gli fece raggiungere la mole di 1130 pagine. Il doppio.
Desideria
Ricordo i miei sorrisi, i ghigni, e qualche risata vera a spezzare il silenzio della lettura. Ricordo il senso d’Italietta che grazie a lui diventava qualcosa di meno provinciale: forse non proprio internazionale, ma almeno un po’ meno asfittica, un po’ meno chiusa. Un poco più collegata, un po’ più parte di qualcosa di più grande. Potevo provare ad allargare le braccia, e respirare.
Alberto mirava alto, e non lo nascondeva: il romanzo-saggio, quello che fa subito pensare a quell’altro romanzo-saggio (e romanzo monstre) del suo (e mio) molto amato Robert Musil, L’uomo senza qualità. Ma Fratelli d’Italia è anche un finto romanzo di formazione che poi diventa romanzo-on-the-road per poi trasformarsi in romanzo-cestino, ma leggi sciocchezzaio perché il modello è Bouvard et Pecuchet. E per finire, opera aperta, enciclopedica, opera che nel suo tentativo di essere onnicomprensiva diventa non conclusiva (vedi le riscritture, l’aumento costante del numero di pagine nelle nuove versioni).
A far da battitore il protagonista Antonio, che comincia con la A come Alberto, e che nella seconda stesura diventa Andrea, sempre con la A iniziale, per poi tornare di nuovo Antonio quando il romanzo sfonda il muro delle mille pagine. Antonio dichiara da subito che: La finalità del romanzo o del dramma dovrebbe essere prima di tutto il “divertimento”. Peccato solo che “divertimento” in italiano sia una parola sospetta, che odori tanto di avanspettacolo. Andrebbe usata in senso più alto, più esteso. Come ‘entertainment’, ma ancora più nobile. Fino a comprendere Mozart, Orazio, le Alpi. Antonio e i suoi amici, tra cui l’altro protagonista del romanzo l’Elefante, parlano molto di romanzo e letteratura.
Ho trovato queste parole che per me sintetizzano, se sintesi può esserci, il romanzo: Una pratica sistematica e serrata di critica ‘sul’ linguaggio, d’irrisione dei mass media, di rinnovata corrosione e costante dileggio dei miti culturali contemporanei, catalogati quali feticci scorreggioni da un mattesco Linneo che castiga qualche volta ridendo e qualche volta no. Le ha scritte Arbasino stesso: ma riferite a “Opera aperta” e “Apocalittici e integrati” del suo amico Umberto Eco.
Ci sono i libri che ti cambiano la vita. E questo è uno di quelli che con me c’è andato molto vicino. E se non l’ha fatto e perché nello stesso anno leggevo i sette tomi della Recherche. E l’irlandese errante. E Virginia. E… E ciascuno ha contribuito. Ognuno ha portato il suo mattone. Ma forse è più giusto dire che ognuno ha smantellato qualcosa di quello che precedeva. Era il mio modo di liberarmi del padre e della madre, di creare il mio spazio. Un mondo in cui sentirmi partecipe, e non solo spettatore. Per smettere di sentirmi confinato in un banco.
Ecco, sono arrivato alla fine del grande viaggio, della lunga marcia, tra soste e corse, risate e sorrisi e musi lunghi, gambe dolenti e voglia di ripartire.
Fratelli d’Italia è una scatenata sarabanda di nomi, titoli, luoghi, libri, opere, incontri, pranzi, giochi di parole (anche altissimi e bassissimi) incastrati, contrapposti, suddivisi ed elencati in una struttura di base che è creata dalla sovrapposizione e commistione di diverse forme. Le principali sono quelle del viaggio (e del Viaggio in Italia… e io che da decenni vorrei leggere quello di Goethe!) e del romanzo-conversazione. Una struttura perfettamente adatta per sciorinare tutta la lussuria arbasiniana per allusioni, citazioni, esclamazioni, pastiche, puntini… E non si sottolineerà mai abbastanza la passione della lista, la vertigine dell’elenco: «Vedere la realtà per Elenchi!» (Certi romanzi); con ricerca del ritmo, di congiunzioni e elettive affinità d’ogni natura, rime, assonanze, trasformazioni, ibridazioni, aggettivi dissonanti col sostantivo per sorprendere e divertire. E le domande retoriche? Arbasino ha inventato una forma tutta sua della domanda retorica, usata come parte integrante dell’accumulo.
Comunque commentare questo libro è una sfida persa in partenza: le definizioni, i generi e le categorie, Arbasino se le assegna già da solo, disseminandole nel testo stesso, in particolare all’inizio e alla fine (dove compaiono addirittura due versioni di un “blurb per Giangiacomo”: la prima edizione era Feltrinelli…). Ecco ad esempio una sintetica e efficace definizione di genere: «Romanzo-conversazione di formazione dell’Artista». Ed ecco un pezzo di una auto-descrizione ben più ampia: «Spettacolare, efferato, ingordo di appropriarsi la realtà storicizzando il presente a caldo e divertente fino alla scioccaggine e costantemente sull’orlo della dissoluzione, procedendo per sovrapposizioni e per accumulo, secondo un ritmo apertamente “furioso” […]». Ed infine, buttiamo lì un’altra dichiarazione e critica di quello che sta facendo: «“Così ogni atto creativo nasce insieme come giudizio critico, professionale… Tanto, nelle epoche alessandrine come la nostra l’unica via di salvezza si sa che tutto sommato sarà un gesto creativo-critico… quel distacco da outsider-insider che hanno capito già da decenni… sempre Musil, sempre Stravinskij, magari Hofmannsthal.. […] I pastiches non solo di Proust ma dei pittori, sugli artisti del passato: creazione-ricreazione… | “E se poi interviene la musica, dietro un sound della prosa che non è orale ma mentale…”». (c'è poi un'intera Cena letteraria, che si scatena per una settantina di pagine nella prima parte, ed è naturalmente il capitolo più meta-, con diversi suggerimenti per interpretare l’opera stessa: «Il romanzo-saggio! Cioè sempre il meglio dei due mondi. Come appunto dimostra il Doktor Faustus, oltre che ovviamente Musil. Magari anche come finta autobiografia di idee, l’unica forma narrativa che possa interessarci oggi […]»).
Nomi più importanti di altri: Stendhal, Balzac, Proust, Saint-Simon, Waugh, Forster, Musil, Mann, Faulkner, Gadda, Brecht, Henry James, Compton-Burnett, Huxley, Isherwood, Gide, Conrad, Ford Madox Ford, Auden, Petronio, Joyce, Wilde, Praz, Longhi, Sade, Moravia, Apuleio, Marziale, Giovenale, Persio, Sade, Jean Paul, Firbank, Sitwell, Edmund Wilson, Parini… e ancora Proust e Petronio; e poi Proust e Petronio e Gadda.
Non consigliato a chi: vuole ponderare. L’idea di base è sempre che nulla deve essere approfondito, che chi si ferma è perduto. E qualche volta allora si avverte il peso della leggerezza.
E tutto quanto è molto buco, snob e chic, anzi oltrechic, metasnob e dove si fanno un sacco “di numeri” (una omosessualità giocosa, combinatoria, semplice d’approccio e antipsicologica è onnipresente, dietro ogni cespuglio, ogni stazione, intorno ai locali; mai descritta frontalmente, continuamente dichiarata).
La voce narrante (si fa per dire, narrante) principale è quella dell’Elefante (per le dimensioni, ma «tanto, grasso o magro, non è che le marchette mi facciano lo sconto»): uno svizzero di buona ricca famiglia, che deve laurearsi e fare soldi in borsa a Zurigo, ha letto tutti i libri, visto tutti gli spettacoli, scopato tutti i bersaglieri e le marchette ben prima dei trent’anni. Secondo personaggio principale (l’altra metà di Alberto?) è Antonio, scrittore italiano, compagno del viaggio dell’Elefante, che deve scrivere il romanzo e non disperdersi in tanti pezzetti, saggi, collaborazioni col cinema. E intorno, sempre, ruotano e scompaiono e ritornano i Klaus (compositore, tedesco) e i Jean-Claude (scrittore, francese), le Desideria e le Meneghella. Ci si lascia e ci si ritrova qui e là per l’Italia (e con qualche trasferta, in particolare verso la fine: la Baviera di Ludwig II, la Londra gran bazar…).
Nella versione definitiva, del 1993, la macrostruttura è in quattro parti: Primavera-estate; Festival; Roma; e Nord. L’esile legame narrativo che congiunge i capitoli è dato all’inizio dal progetto di un film (cui deve lavorare Antonio) che deve intitolarsi (da contratto) L’Italia si chiama Amore. Il Festival è quello di Spoleto, e la seconda parte, per quanto è possibile con Arbasino, è una narrazione continuata, che ruota intorno agli spettacoli; e soprattutto intorno allo spettacolo del pubblico, del mondo – artisti, nobiltà, demimonde – che circonda le opere. Mentre Roma innesca una serie di funambolici collegamenti con la letteratura latina, in pagine che sono tra le più belle di tutto il libro; dove spunta, in Arbasino, anche il “moralista” “lombardo” che si riconosce in Catullo sceso nella capitale all’abbacchio. Non a caso contano qui molto le considerazioni dell’Elefante: «vivono davvero come nella Roma dei primi imperatori. Le somiglianze sono impressionanti, in Catullo, in Orazio, in Marziale, che sono qui tutti pieni di segnalibri nelle loro copertine rosso-antico delle Belles Lettres; o in quella satira di Persio […]». E sempre il Satyricon, «con questa passione smodata per l’aneddoto storico e la conversazione letteraria». E poi ancora Persio: «con uno sguardo così acuto e così nostro coetaneo… giacché queste sei satire non soltanto ci raccontano una Roma che conosciamo bene, oltre i materassi di glicini… Rasentano addirittura lo straziante nel non vantar mai la mancanza di ostentazione, tentando di riuscire a lavorare e vivere senza sbracare, senza perder troppo tempo nella café society letteraria, senza far pesare troppe affettazioni stoiche…». E Catullo, che «suona davvero come un incantevole Chopin o Ravel della cultura latina, dall’eternità alla frivolezza…». «Che commenti si saranno sentiti intorno, quando si spogliavano alle terme, fra quelle peppie tremende che loro stessi raccontano…»
In Nord si sconfina dalla Lombardia verso la Baviera e Londra, ma arrivano anche racconti mitici Dalla Spagna. E dentro Nord trova posto il Finale, che per essere all’altezza deve essere almeno di un cento pagine, dove domina anche visivamente la forma frammento, la prova di romanzo: pagine che potrebbero corrispondere a «questi ammassi di appunti» di Antonio che – dice l’Elefante alla fine del capitolo precedente – «lascia fuori in mezzo ai suoi ritagli». Come tutto il libro, è infinitamente citabile per sua natura. Sciorina possibili inizi, possibili personaggi di un romanzo hard e futuristico-distopico; o di un altro con protagonista un Trimalciozzi, ancora sempre col desiderio di rifare all’oggi Petronio…
Più di una volta tornano alcuni grandi classici del repertorio di Arbasino: 1) l’indignazione contro la letteratura del neorealismo vista ballatoio; che si coniuga con le lamentele sul mondo culturale italiano, asfittico e in ritardo; quindi con lunghe tirate di indignazione (solitamente di Antonio) contro il trasformismo e l’opportunismo del letterato italiano che vuole sempre salire in cattedra a dare lezioni ma non rischia mai di porsi in reale opposizione al potere. Si unisce allora con il 2) tema della “gita a Chiasso” (sempre molto utile e divertente, ma a volte diventa fastidiosa la costante esterofilia quasi senza cedimenti, che è in realtà una regolarissima tradizione italiana… difficile sentirsi per questo “contro”…). Non dimentichiamo la, da me amatissima, 3) Bambinaccia; oppure 4) l’ossessivo (di nuovo di Antonio) e divertentissimo scontro con i disastri dell’educazione lombarda-micragnosa-controriformistica, riassumibile nell’idea: non siamo qui per il piacere, “non si può mica sempre…” (e qui il punto di confronto è sempre Gadda; basti vedere tutto il capitolo Condizione del dolore, dal titolo in avanti; e, a parte, andrà letto L’ingegnere in blu). 5) i lunghi pezzi di gruppo, con orchestrazione di raffinatezze e compiacimento, scambi di battute, nel ricamare su giochi di parole, su trame di film dimenticatissimi, su nomi di persone, su titoli, su luoghi comuni che non si sopportano più... 6) l’ansia della fine, del vedere tutto prima che si deteriori, prima che scompaia irreparabilmente, che è anche paura di arrivare sempre troppo tardi (l’anno prima sì che…) e angoscia della distinzione.
1-A: «Ma quando la cucinetta della letteratura per la casa ricuoce fatterelli e figurette che ti interessano poco e conosci pur troppo, allora non solo si preferisce leggere Praz sull’estetismo dei decadenti e Longhi sull’officina degli squarcioneschi… Viene spontaneo andare piuttosto a Santa Cecilia per un Mahler o un Berlioz che non c’è in dischi […]». 2-A: «“E un po’ di Politecnico di Zurigo o qualche collegio in Engadina, no?”. | “Per gli autodidatti sarebbe anche bastato fare la solita, famosa, noiosa, utilissima Gita a Chiasso verso i mitici e orribili anni Trenta, invece di buttare i migliori anni della nostra vita a lamentarsi in quel popoloso deserto di letterati che appellano Firenze, e perdendo tempo a immaginare la ruota mentre gli altri viaggiavano in treno…”» 3-A: «La più prepotente delle bambinacce pesta il pavimento con violenza: la pancia gonfia le sospinge l’arricciatura della pettorina sotto le ascelle, e lei tiene una collanina e un paio di braccialetti in mano, perché certamente le fanno caldo. Si volta sospettosa di qua e di là, poi dà un pugno in testa a una bambina più piccola. E tutti: “È lei! È lei! ‘Non sarò bella di faccia – ma sono forte di braccia! – Sono la Bambinaccia’”. E ancora: “Ho almeno sedici anni! – Ne dimostro ventotto! – E mi vestono sempre – come ne avessi otto!”.» 4-A: «Il “sarebbe troppo comodo!” che è il contrario del no problem…» 5-A: «Al caffè della piazzetta, adesso li sentiamo ridere come pazzi. È piovuto, non si gira. “Cielo rosso!” fa uno. E giù risate. “Cielo giallo, cielo proibito!”. Urli, addirittura. “Cieli senza domani! Un’isola nel cielo!”. Non si tengono più. “In tutti i titoli di film con la parola ‘cielo’ la si sostituisce con culo” spiega una sgallettata a Antonio. “Non si sbaglia un colpo! Prigionieri del cielo!... Nel regno dei cieli!... I diavoli del cielo!... Il cielo può attendere!...” | “Il cielo sulla palude!” facciamo noi. “Sìì! Lì sopra, fermo, che non si muove!”… “Senza cielo!”… “Sììì! con la Isa de Paolis! Non ce l’ha!”… “Una tigre nel cielo! I pascoli del cielo! I pellegrini del cielo!”. Tutto un giubilo. “Quel cielo di Lombardia, così bello quando è bello!”… “Due cose riempiono l’anima di meraviglia e di terrore: la legge morale dentro di me e il cielo stellato sopra di me!”. | Gli urli, le risate. “Mi par di toccare il cielo con un dito!”… “Apriti cielo!”… “Ma per amor del cielo! Sono cose che non stanno né in cielo né in terra!”… Si può andare avanti per ore.» 6-A: «Non come adesso (è cambiato tutto in un momento!)» 1-B: «Tutti gli inseriti e integrati nelle gerarchie e nei sistemi biasimano un freelance senza rimorsi perché va a Broadway e al Louvre invece che a Mirafiori o a Matera…». 2-B: «Ma bastava arrivare fino alla stanga della dogana, due ore di bicicletta da Milano, e pregare un buon contrabbandiere di fare un salto alla più vicina drogheria Bernasconi e comprare, oltre a un paio di pacchetti di Camel e ai Manoscritti di Marx e al Tractatus di Wittgenstein e a un Toblerone per la povera zia Pina a Roma o a Eboli… anche un po’ di narrativa di Forster, della Compton-Burnett, di Waugh, di Henry Green… e magari le cose più importanti di Husserl e Leavis e Bachelard e Scheler e Bataille e Blanchot e Trilling e Auden e Heidegger e Cleanth Brooks… tutte già pubblicate allora, e lì pronte… fin dagli anni Trenta…» 3-B: Anche a Londra! «Da Meneghella il telefono non risponde. “Ci si veniva con Raimondo l’altr’anno, la domenica” le spiega Antonio per strada. “Great fun: sulla porta del pub più outrageous c’è sempre anche qui una bambinaccia non bella di faccia ma forte di braccia. Questa legge fumetti a pacchi in paltò color vinaccia, adesca i clienti, e loro assai contenti, li porta dietro un muro, in un mews molto scuro, e lì si siede sopra e li schiaccia. Somiglia a qualcuno che si conosce”. | “Little Dorrit?” chiede Giulio. | “Little Nell! Cattivissima!” fa Antonio; e mentre si sta arrivando Desideria si mette a gridare: “Non è possibile! Ce l’avete messa voi stamattina!” E infatti la bambinaccia è lì in piedi sulla porta, enorme, pesantissima, cattivissima, coi sui fumetti e il suo paltò viola tipo Esercito della Salvezza, e anche un collettino di gatto; e ci guarda torva mentre entriamo, pronta a picchiare.» 4-B: «È sempre la vecchia devozione delirante per cui solo facendo una vita molto di merda renderai felici i tuoi cari e il Cielo.» 5-B In Colazione di monsignori: alti prelati americani a Roma che apprezzano il romanzo di Garibaldi, Clelia Ovvero il Governo del Monaco: «Rapidità galoppante dell’azione, meccanismi di suspense trucibalda, scrittura à la diable, battage anticlericale delirante, audacia erotica insorpassata! Siamo nella miglior tradizione anglosassone!» e ricordano (da cattolici americani rich e upper) il povero Fitzegrald: «E quei suoi romanzi?... Brutti, proprio brutti… poveretto… E poi, così mal scritti… Del resto tutta la jazz age è stata un’epoca brutta, tremenda, e quindi ogni testimonianza non poteva ritrarre altro che tristezza e squallore». 1-C: «ostentando fibra morale e seriosità ad ogni costo… dove c’è soltanto un tirare a campare burocratico romano…» «e con l’eterna aggravante italiana d’abbracciare i giudizi di quella maggioranza sempre in ritardo… e per lo più dove si è sicuri che la maggioranza ha torto…» «Il moralismo con la coda di paglia al posto della spina dorsale… E perciò con questo bisogno di cattedre e di cipigli in un linguaggio involuto e sentenzioso… tutti i giorni, nelle occasioni più irrilevanti, su temi triviali… sempre con sussiego e albagia… mentre invece, al momento delle scelte vere, quando sono in gioco i principii… trac! lì pronti a tirar giù la mutanda…» 4-C: «“Preferiscono stare o vagare nella loro stanza, sole, senza far niente… senza mai leggere, senza neanche accendere la luce… soprattutto per economia… finché le altre irritatissime si mettono a urlare: si può sapere cosa fa quella là, di là?... Non, però, meditando a luci spente: mai viene poi fuori dal buio un mondo abbastanza spirituale, interiore, di pensieri, di idee… Solo malori, disgrazie, disturbi: il peso sullo stomaco, un dolore alla spalla, il mal di denti, una punta d’acetone, un bruciore, una puzza, si è dormito malissimo, non si è chiuso occhio, non si ha mai un attimo, le vicine sono state sveglie a divertirsi e il Signore le punirà… E anche mentendo: ‘In una casa c’è sempre tanto da fare! in questa casa, con tutto quel che c’è da fare, non c’è mai tempo per niente’… Lì sedute, con due o tre serve… […] Durante la giornata, quando ci si incontra, ancora adesso… Vogliono sapere perché esci, perché non stai chiuso in casa come loro… Come fai a andar d’accordo coi tempi, che per loro son sempre tremendi… Cosa trovi che “valga la pena” nella vita… La pena!... come se ci fosse stato un delitto?... Dei delitti e delle pene… e valga: come se ci fosse un valore, un plusvalore, un prezzo, nella pena… E perché vivi nelle città? Tanto, per quel che c’è in giro… E perché apri la bocca per parlare alla gente? […] E al ‘Come stai’, mai rispondere con un analogo ‘Come stai tu’ (‘How do you do’, senza punto interrogativo), bensì ‘Peggio di così, come volete che vada?’. E via, con tutti i disgustosi dettagli. E tutte le megere sedute in coro: ‘Anche noi! Mai state così male come in questi giorni!’ (‘Santa e sadica megera’ è una cosa che dice Gadda). Disgraziate che ripetono con insistenza e compiacenza: ‘Noi che abbiamo sempre avuto tante disgrazie!’ E le altre: ‘Mai come noi!’”.»
Oppure ancora il grande problema della mezza età degli artisti: «quando sembrano perdere tutto, genialità, bussola, trebisonda, grinta, magistero… tutto… E invece basta che raggiungano i settanta-ottanta, magari perfidi, e vedi che diventano tutti Grand Old Men per lo più amati e magari belli…».
Proprio perché c’è tutto, proprio perché ci si muove sempre, non ci si ferma mai, si odiano i supponenti, i seriosi e i noiosi, si parla sempre tutti e non si sta zitti mai; proprio per questo le due isole di silenzio alla fine del Grande “party” di Festival e alla fine del tutto spiccano e commuovono. A Spoleto, tra commenti sulla lirica, un «vecchino molto garbato e roseo in smoking sciallato blunotte» e americane che ripetono battute di film, scivola nel chiacchiericcio il non detto continuamente domandato (“senti, ma è vero?”), la morte: il cancro di Raimondo. Con finale di capitolo quindi delicato: l’uscita dalla casa nella notte, con Klaus e Antonio e l’improvviso silenzio: «Camminiamo con lo stesso passo da tre moschettieri, uguale, ma senza parlare per un po’ tutt’e tre, lungo la salita.»
E il libro che contiene 'tutto' finisce con la parola “niente”; davvero in poche righe,
Ma adesso che s’è fatto tutto il viaggio, bisognerà confrontare tutto quanto con la versione del ’63, per vedere se è vero – come dice Paolo Mauri – che «era un po’ grezzo e abbozzato», mentre il testo del ’93 «è lavoratissimo, a intarsio, come un autentico Maggiolini»??
Fratelli d’Italia deve ancora affacciarsi nelle librerie (uscirà a maggio ’63, pubblicato da Feltrinelli), che ha già sollevato qualche (qualche!) malumore. Colpa forse di un paio di copie, sfuggite chissà come, lette ad alta voce qua e là, accompagnate da cori di “Scaaandalo!” I frequentatori di certi ambienti mondani si sentono chiamati in causa, e d’un tratto gli amici non sono più amici, i saluti vengono a mancare, e qualcuno (un altro Alberto), più arrabbiato di altri, cerca un modo per vendicarsi. Non lo denunciano, ma solo perché il libro non è ancora uscito e mancherebbe il corpo del reato. Insomma, certa società, che per la prima volta si vede nuda allo specchio, non gradisce, si sorprende, s’indigna. Anche Bassani, direttore editoriale della casa editrice Feltrinelli, osteggia l’opera di Arbasino; non ne condivide la mescolanza di generi, lo stile e il virtuosismo. L’editore taglia corto: “Non desidero entrare nelle polemiche sul romanzo. Quello di Alberto Arbasino è a mio avviso anzitutto un libro, che alcuni leggeranno come un romanzo, altri come un saggio, altri forse ancora come un pamphlet o un repertorio giornalistico”. Il libro esce dopo che l’avvocato cui è stato sottoposto il testo, non riscontrando estremi per eventuali denunce, dà il via. Così Fratelli d’Italia arriva sugli scaffali. Alla prima pubblicazione per Feltrinelli del 1963, ne sono seguite altre due: quella per Einaudi nel 1976 e la terza per Adelphi nel 1993, ognuna rivisitata e ampliata dall’autore, modifiche che hanno fatto lievitare le pagine da 532 a 663, fino all’ultima versione a 1371 pagine. E sono 1371 pagine di puro godimento.
Fra una metafora fuori moda e una parabola che fa tendenza c’è lo svelarsi di quella certa società che si presenta al mondo in tutta la sua inconsistenza, e che però non offre carne in scatola agli invitati né veste abiti dozzinali da department store. Nondimeno, when it comes to books, nelle loro “magioni eccelse, su quei tavolini così fini, sotto i Canaletto e i Bellotto, vedi volumi analoghi a pacchetti di patatine, merendine per bambini, detersivi popolari”. C’è il Paese intero, perennemente inadeguato e in ritardo, pieno di contraddizioni e pochezze. Ci sono letteratura e letterati, scrittura e scrittori, usi e costumi di quel magico momento del boom economico e culturale. E ci son le cose che certa morale non vuol che siano, ma che essendo si esercitano; l’importante è tacerle. Almeno le proprie.
Fratelli d’Italia è un grandioso viaggio letterario-culturale sfrenato e incalzante. E… no ve l’oo ditt? Geniale. Ecco. L’ho detto. Su e giù a gran velocità per questa Hollywood nostrana. Non distogliete lo sguardo, ché il paesaggio scorre rapido e magnifico. Non distraetevi. Preparate taccuino e penna: al termine vi troverete con un elenco chilometrico di nuovi possibili itinerari letterari. Di questo viaggio rimarrà la voglia di ripercorrere, di tanto in tanto, un tragitto a caso e andare in visibilio, ancora. E allora, Let’s go! Che meraviglia. Che piacere. Che goduria!
Caro Arba (posso chiamarti così?), per fortuna hai scritto Fratelli d’Italia allora. Ché oggi è rimasta da raccontare un’italietta dalla mondanità smorta, da schiscèta di minestrina sciapa. What a luck, what a luck! ch'era il 1963. Levo un calice di italian i ([vino] “spaventosa erosione della matrice “vinum”, operata dall’abominevole dialetto bergamasco”), anche se sono astemia. Let’s drink, my dear Arba’! Leggerti è sempre una festa. Lo dico inscì: un gran piaser! E grazie (grazie!).
“Nei nostri vecchi tinelli... Da una parte, romanzetti piccolo-borghesi d’occasione, evasione, rievocazione, commozione, signora mia. E dall’altra, fuga da ogni realtà contemporanea nell’esercizio di stile al piccolissimo punto. Appena si vede crescere l’ombra del dittatore, guardare la realtà senza affetto può diventare pericoloso. E i più svelti fanno in fretta a capire: l’America l’è amara finché vige il Fascio, la diventa buonissima solo quand’è arrivato il generale Clark e si sono perse anche le mutande grazie al Duce. Poi però Togliatti fa paura, e allora si ricomincia: l’è amara, non l’è amara, e se non la sarà amara, chissà mai cosa sarà”.
Immenso, totale, unico e indescrivibile questo libro-universo della mente più raffinata, intelligente, colta e ironica del Novecento Italiano (e per questo pressochè sconosciuta ai più in questo paese ignorante fino al midollo). Impossibile da incasellare nella sua pirotecnica e strabordante esplosione di visioni, chiacchiere, citazioni e idee - si può usare l'aggettivo postmoderno, ma solo nella sua accezione migliore. E c'è una capacità altissima di scrittura quasi poetica, fatta di allitterazioni, giochi letterari, risonanze e ridondanze che rendono la lettura assolutamente divertente. Perchè soprattutto, come le vere persone intelligenti, Arbasino è capace di non prendersi sul serio .
Ma nel mezzo di queste 1700 preziosissime pagine, l'autore sa far cadere temi profondi, con la cultura e la serietà intellettuale che gli sono proprie: - il basso livello culturale del nostro paese, (particolarmente nelle classi agiate), - i conformismi reazionari e conservatori dei sedicenti intellettuali (specie quelli che si sistemano a sinistra), poveri di immaginazione, ma ricchi di vacui luoghi comuni, - le tragedie incipienti ed inevitabili anche per i gaudenti giovani ricchi (un finale glaciale e granitico di poche righe dopo centinaia di pagine super-barocche colme di agitazione sterile), - il riconoscimento delle migliori menti italiane (Gadda soprattutto, ma anche Leopardi, Pasolini, Moravia, Calvino) - la frana della cultura del BelPaese (illuminanti le pagine su Firenze e su Venezia).
Le ultime 150 pagine del "Finale" sono davvero staordinarie, il talento poetico e il genio intellettuale rifulgono al massimo, nel momento in cui Arbasino si libera delle (fragili) pastoie narrative delle pagine precedenti e si lascia andare ad un accumulo barocco di frammenti, citazioni, idee, visioni, affabulazioni.
Questo libro multiforme e stratificato, deforme e stracolmo, contiene in se stesso più di una sua stessa definizione, in forma di Blurb per GianGiacomo (Feltrinelli?)" (ma che genialata auto-ironica e satirica inserire nel libro dei pezzi autopromozionali per il libro stesso!). Ma già a metà libro sembra di sentire parole riferite a questa opera: “I suoi libri non sono delle vane sciocchezze buttate là nel tedio d’una vita languida e lussuosa, sono estremamente intellettuali, e composti con tenacissima attenzione, dense trame di raggiri che dissimulano continuamente il proprio tema”
Ed infine, come ogni vero intellettuale, Arbasino sa vedere in avanti: tra i tanti esempi cito la previsione (con quasi 50 anni di anticipo!) del successo della forma del "Vaffanculo" che tanta ammirazione e approvazione ha trovato nel pubblico italiano in questi ultimi tempi.
E a chi storce il naso davanti ad una forma non agevole per la lettura, lascio queste altre righe: “La funzione di ogni creatore: rendere accessibile allo spirito qualche nuova parte del mondo; quindi, lotta per esprimere il nuovo; quindi, estensione del linguaggio.”
Un libro-fiume che descrive il panorama culturale degli anni 60 del secolo scorso attraverso una miscela di diario e road-movie pieno di piccoli saggi, pettegolezzi e aperçus. Al centro delle vicende più o meno sconnesse, una clique di intellettuali borghesi cosmopoliti e per lo più omosessuali, amanti della dolce vita ma ossessionati dalla cultura in tutte le sue forme e della propria intellettualità. Sul vago progetto di fare un film su "L'Italia", i protagonisti girano il paese su e giù in spider, vanno a vedere le mostre e le opere liriche, discutono di teorie estetiche ed altri argomenti più o meno fertili, finché ogni traccia di trama si perde, come il progetto di quel film.
È tutto sommato una specie di vita sognata di intellettuale, vita che forse fino ad un certo punto Arbasino è risuscito a vivere anche realmente. A più di 50 anni di distanza dal periodo descritto, conserva un certo fascino, non foss'altro come spunto di riflessione su come i tempi siano cambiati. Non per niente il libro ha visto varie riedizioni, sempre aggiornato.
Mi ha messo alla prova. Attraverso la sessione e le vacanze. Ci ho viaggiato e attraversato l’Italia in pullman, da Roma al Trentino, e in aereo, da Fiumicino alla Sardegna. Per la prima volta dopo aver finito un romanzo sento il desiderio di scrivere, scrivere, scrivere tornandoci su. Ironia ed eleganza, campionario umano senza alcun bisogno di essere macellaio o giudice, erudito allo stato puro tra una Callas e una Mina, un Gadda e un Pasolini, tra Napoli e Milano.
Uno dei pochi libri che non sono riuscito a finire in tutta la mia vita. L’ho trovato veramente illeggibile: completamente infarcito di pleonasmi, manierismi, leziosismi, affettazioni che non portano da nessuna parte. E’ una sorta di diario di viaggio di un gruppo di ragazzi gay nell’Italia degli anni ‘60 ma è così pretenzioso e ridondante da risultare davvero sgradevole. Abbonda di espressioni colloquiali mutuate, però, da un registro più o meno colto e ricco di citazioni letterarie-musicali-filosofiche, al punto che, leggendolo, si ha l’impressione di assistere a un dialogo tra noiosi ragazzi di buona famiglia che, pur volendo slanciarsi in avventure trasgressive (anche l’omosessualità negli anni ‘60, di per sé, doveva esserlo), finiscono col mettere in risalto il proprio essere superborghesi. Oltretutto un romanzo lunghissimo.
Caustico e sfrenato sino all'assurdo, con la scusa del viaggio Arbasino accrocchia tutto lo scibile della cultura - e del malcelato squallore - borghese di metà Novecento: un 'milieu' tragicomico, patetico nelle sue ossessioni e nei suoi birignao (termine tra i più ricorrenti), documentati con ferocia nelle lunghe chiacchierate dei festini e dopocena d'alto rango. Tutto un po' "troppo", ma era decisamente l'effetto voluto, quello dell'eccesso insensato, e la prosa è nella maggior parte dei casi felicissima. Un libro importante, ma evidentemente non per tutti.
Se rinascesse, povero Arbasino.....a vedere che fine ha fatto il titolo del suo libro più bello....che tristezza! O forse no. Forse riderebbe. E penserebbe nel suo sconfinato narcisismo che non ammette abbrutimenti, di aver prodotto l'antidoto prima del veleno che verrà. L'antidoto della conversazione colta, dell'anticonformismo, dell'ironia, della trasformazione in sangue, carne e fiato delle buone letture, della bellezza, del vivere del pensare e dello scrivere bello. Da ri/leggere per profilassi. Poi, avvenga ciò che voglia avvengare.