È la storia di Aristeo, nome da dio minore. Figlio unico. Adorato. Maschio. Un dialogo muto con un padre morente sul crinale di una vita divisa tra erudizione, desideri mancati, e violenza. È la storia d'amore con Nina, la sua donna, «che parla la lingua dei leoni», che gli scrive parole dentro una casa viva e dolorosa. Nina che non riesce a possedere, che se ne va, che ride di lui. Che ha forme d'amore che lui non capisce. «Le donne le guardi come gli uomini le guardano da tutta la Storia. È sempre lo stesso sguardo. Sono sempre le stesse donne?» Aristeo si scontra con l'incapacità di conoscere le donne, con l'invidia per la loro libertà, con l'esercizio del potere come forma di amore, con desideri che non può confessare e che ci vengono sbattuti in faccia. «Non lo so. Però da qualche parte deve pur venire. Mentre a me sembra naturale come se ci fossi nato. È tutto buio, mi sento più forte, più vero, e mi perdo, come se non fossi più padrone di me stesso. O fossi ancora quel bambino, onnipotente, che sa dire solo voglio». Questo libro è il suo tentativo di capire finalmente qualcosa di sé, del sesso e delle relazioni amorose.
Recensione lunga: Ormai ci siamo un po' stancat3 della solita narrativa del rapporto violento raccontato per bocca del colpevole e non della vittima, della storia di accorato pentimento di un uomo violento che si giustifica: non volevo, ho sbagliato, è stato un raptus, lei era insopportabile e ho ceduto, ma mi scuso blablabla. Questo è diverso, però: sì, la voce è quella di Aristeo, compagno violento di Nina, che racconta a suo padre morente (inerme, non può rispondere) la storia della loro relazione che naturalmente è finita male - ma Aristeo, pur essendo voce narrante, è simpatico e piacevole come Humbert di Lolita, come Voldemort quando tortura Harry undicenne, come Putin negli ultimi tempi. Nel suo parlare a vuoto, capisce soltanto a tratti dov'è stata la sua colpa, e soltanto a tratti l'ammette: per il resto, incolpa Nina che "le botte se le tira", che "in fondo quando la forzo le piace", incolpa il padre che l'ha chiamato col nome di un dio minore, inutile (Aristeo è il dio delle api e della pastorizia) facendolo sentire per tutta la vita inferiore "come una femmina", incolpa sua madre che, invece, lo chiamava sempre soltanto Teo, che vuol dire Dio, convincendolo così d'essere un dio. Un Padreterno. Aristeo è gradevole come qualsiasi signor nessuno che si crede d'essere il padreterno, come tutti quegli uomini che si ergono a Padreterni per proteggere l'ego fragile. Leggerne i pensieri dà la nausea, ogni suo pensiero, ogni sua parola sono una scarica di coltellate in pieno petto.
Ma se il microfono non viene dato ad Aristeo per far passare l'omm e merd della situazione come un povero diavolo costretto da chissà che forza maligna a fare cose brutte, allora perché? Perché è lui che parla, perché lo spazio è ancora una volta dato a un maschio?
Perché Aristeo si sente in colpa, e nella sua incapacità ad ammettersi fragile, fallibile, colpevole, cerca una colpa esterna alla sua omm-e-merdaggine trovandola in suo padre, in suo nonno, e indietro fino a chissà quale generazione di Signori Nessuno convinti dalla casuale possessione di un pene d'esser Padreterni: non è uno scaricabarile, però, non nelle intenzioni dell'autrice. É piuttosto un modo di riconoscere e spiegare e far notare la vera radice della violenza, che non è nella natura maschile ma nell'educazione. Parla Aristeo perché sia chiaro che la colpa non è essere uomini ma l'essere educati a credere che essere uomini voglia dire ossessionarsi dietro l'esercizio del potere per governare e non essere governati come le femmine, perché sia chiaro che il problema della violenza di genere non si risolve ammanettando i singoli colpevoli (che comunque non sarebbe manco male come inizio, visto dove vanno a finire le denunce per maltrattamenti), ma agendo sulla collettività, sul sistema sociale e culturale in cui cresciamo.
Bellissimo, anche per la scrittura dell'autrice che ricorda un po' quella istintiva e allegorica di Baricco, molto evocativa: pregio dell'autrice, ma che rende il libro una lettura difficilissima e non per tutti, è la prosa che esce letteralmente dalla pagina come la bambina di The Ring per prenderti a calci in faccia senza sosta per tutt'e 150 le pagine.