"Meneghello in ogni opera attinge a quello che Dante chiamava il libro della memoria e se ne fa in qualche modo lui pure scriba. Oggetto del narrare è un preciso passato e in ogni opera narrativa di Meneghello c'è un finale dove lo scrittore saluta, in un certo senso con addio, questo passato che si allontana." Maria Corti Luigi Meneghello ha registrato nei suoi libri in chiave ironica e poetica le "memorie di un italiano" del suo e nostro tempo. Nell'ambito di questo progetto, "I piccoli maestri" (del 1964, nuova stesura nel 1976) registra l'esperienza personale e collettiva della Resistenza e della guerra civile in chiave pungentemente anti-retorica e antieroica. Accanto ai grandi testi di Fenoglio, è tra i documenti letterari più intensi e incisivi sui fatti e i sentimenti degli anni 1943-45.
In realtà non so se il mio sentimento corrisponde davvero a quattro stelle piuttosto che a tre e mezza o tre e tre quarti, perché mio malgrado devo ammettere che non mi ha proprio emozionato come altri libri sulla Resistenza. Però mi ha anche insegnato un punto di vista più completo, più realistico e meno epico. Calvino aveva scelto di raccontare la Resistenza dal punto di vista di un bambino; in tanti hanno scelto di offrire su quegli eventi uno sguardo freddo e lucido come Fenoglio e Pavese ma anche Bertoli e Dusi; un altro che ho apprezzato molto è Tobino: ne Il Clandestino usa un punto di vista particolare, interno ed esterno al tempo stesso.
In questo libro Meneghello racconta scorrevolissimo la Resistenza, con un tono molto più scanzonato rispetto gli autori sopra citati, e contemporaneamente i suoi contenuti sono molto più filosofici ed estetici di quegli stessi autori. Non ha il tono e l'incedere di un'epopea, ma la racconta bene proprio perché sa sottolineare le differenze tra le figure più o meno epiche.
Cercando di analizzare la cosa in modo semplice: chi, sin dall'otto di settembre, ha scelto di salire sui monti per nascondersi e organizzarsi, o era fin troppo consapevole della tragedia che si stava svolgendo sotto i suoi occhi e cui gli toccava prender parte, oppure era troppo incosciente e si è buttato a capofitto nella nuova piega che l'avventura stava prendendo, senza stare troppo a pensarci su. E mentre i protagonisti dei libri che ho citato sopra sembrano sempre appartenere alla prima categoria, l'avventura raccontata da Meneghello per lui stesso e i suoi compagni sembra essere della seconda categoria. A distanza di tanti anni dagli eventi narrati (il libro è del '64), l'autore riesce a ridare voce all'incoscienza e all'ingenuità dei suoi vent'anni. Il punto di partenza del suo racconto è il non aver nessuna considerazione e nessuna pretesa per sé e per i suoi compagni. Le citazioni che ho sottolineato e che rappresentano questa posizione sono tantissime, sin dall'inizio dove dice "Non eravamo mica buoni, a fare la guerra" oppure "La nostra piccola guerra si sposta sul piede di casa" o ancora per definire la sua banda dice "noi quattro ragazzotti" e anche "noi quattro gatti".
E lo stesso Meneghello ci tiene a sottolineare la differenza le due categorie di partigiani, tra i ragazzotti come lui e i suoi amici, e quegli altri che sin dall'inizio venivano visti come figure epiche e leggendarie. Lui e i suoi amici sono "maestri" nel senso che sono borghesi intellettuali: "C'era più grammatica tra noi, più sintassi, più eloquenza, più dialettica, più scienze naturali pure e applicate che in ogni altra squadra partigiana dal tempo dei Maccabei." In un passaggio dice che loro sono dei "privati" nel senso che non sono lì per seguire l'ideologia di un partito piuttosto che di un altro, ma solo e unicamente la loro (in)coscienza. E così questo racconto che può sembrare burlone e ironico in realtà è un tentativo di estrema sincerità e di estrema analisi, il tentativo di ulteriori discernimenti oltre alla solita distinzione tra rossi e azzurri. Forse un racconto fin troppo filosofico ed estetico, perché anche se lo fa scherzandoci su, resta il fatto che si sofferma a fare le distinzioni tra chi era vestito così e chi era vestito cosà, racconta delle scarpe e del vestiario e degli armamenti non solo per raccontare episodi pratici di guerra e di disagio della vita alla macchia, ma anche per raccontare il significato intrinseco di una camicia o di un mocassino o di un fucile o di una pistola o una bomba. Altro esempio: sottolinea come loro sono stati tra i pochi a rifiutarsi di assumere nomi di battaglia in quanto "l'utilità ci pareva dubbia e come fatto di stile ci ripugnava". Ecco che ci si rimette di mezzo la questione dello 'stile'. In teoria "mentre russi e alleati tiravano il collo al nazismo, noi cercavamo almeno di tirarlo alla retorica", ma poi nella pratica finiscono per dare all'estetica e allo stile molta più importanza di quanta gliene abbiano data gli altri. A onor del vero devo pur notare che, a guerra finita, quando viene invitato a scrivere l'articolo di fondo per il giornale che deve uscire il giorno dopo la liberazione, Meneghello rifiuta perché sostiene di non avere nulla da insegnare a nessuno e vuole rientrare - pur con difficoltà - nei ranghi della sua condizione di studente.
In questo libro la Resistenza è l'ambientazione, ma in verità più che l'azione c'è un quadro della quotidianità dall'autunno del '43 alla primavera del '45. Oltre a ribadire sempre la differenza tra chi era partigiano per estrema consapevolezza e chi per estrema incoscienza, emerge fortemente anche la differenza tra borghesi e popolani, tema che invece negli altri libri sulla Resistenza finisce per restare piuttosto marginale. In un momento storico così particolare, le due classi si sono annusate tra loro, hanno lavorato gomito a gomito per gli stessi obiettivi eppure non si sono mai veramente mescolate, le distinzioni restano sempre e comunque, e Meneghello non manca di sottolinearle: in qualità di borghesissimo studente di filosofia, egli osserva i popolani, a tratti ironizza, ma per lo più li invidia e li ammira. "Si parlava di darsi una mano gli uni cogli altri, tra paesani, come si fa in un calamità naturale".
"Che bellezza, studenti e popolani armati, in marcia per questi magnifici greppi; noi gli portiamo un grano di radicalismo, loro hanno tesori di sapienza pragmatica."
"Si sentiva che questa gente, su pei monti, e anche nelle pianure, aveva sempre a che fare con le durezze elementari della vita, e pareva che al confronto noi fossimo dei ragazzi viziati che ci mettevamo nei guai, e poi andavamo a farci assistere da loro: e loro ci assistevano".
Pur con tutta la sua filosofia - o forse proprio grazie ad essa - riesce comunque a sottolineare con chiarezza aspetti che in altri libri restano un po' più nebulosi, riesce a proporre delle panoramiche complete (come già ho potuto trovare nel libro di Tobino), ad esempio: "Spuntava da sé l'idea di andare in montagna. Era associata con la sensazione che il fermento popolare dei primi mesi fosse ormai sbollito, l'occasione perduta. Ora bisognava arrangiarsi da sé […]L'unica cosa su cui potevamo orientarci, in mezzo al paese crollato, era quella che faceva di noi un gruppo, il legame con l'opposizione culturale e intellettuale. Noi la conoscevamo solo in qualche persona e in qualche libro; ci sentivamo soltanto neofiti e catecumeni, ma ci pareva che ora toccasse proprio a noi prendere questi misteri e portarceli via dalle città contaminate…"
E ogni volta, dopo i rastrellamenti da parte dei tedeschi o dopo che per qualche motivo la banda finiva per disperdersi: "Andava così, disfatta una incarnazione della banda cominciava subito a formarsene un'altra […] Dove c'erano due o tre di noi si può dire che c'era la banda […]Era la cosa migliore in tutta questa faccenda, che avevamo davvero un senso collettivo, e la presenza di due o tre non ti dava una mezza banda, ma la banda tout court."
Ultima citazione, stagliuzzo in modo da non tirarla troppo per le lunghe, ma contiene tutta l'anima del libro, sia nel tono ironico che nel filosofeggiare. In fin dei conti, già questo episodio da solo vale le quattro stelle.
"Dunque", conclusi " se voi mettete fuori la chiacchiera che noi siamo badogliani, noi diremo che voi siete troskisti. Lo sai chi era Trotzki?" "Era una carogna" disse Simeone. "Sbagliato" dissi. "Era bravo più o meno come Lenin, e ancora più brillante." "Non sarete mica troskisti?" disse Simeone. "Ma sì" dissi, "l'ala troskista dei badogliani"
L'anti-retorica di Meneghello è il punto di forza del romanzo, ma anche il suo stile asciutto, intriso di ironia sottile ma lapidaria, per certi versi anche "poco italiana": del resto l'autore era un italiano piuttosto atipico, di stanza a Reading negli anni in cui scrisse le sue opere migliori. "I piccoli maestri" non è un capolavoro al pari di "Libera nos a malo", però come quest'ultimo rimane un testo unico, da leggere se si è in cerca di un punto di vista originale sulla Resistenza.
Anche qui lo sguardo del narratore, come nel romanzo precedente, riesce a essere a suo modo antropologico: vuoi per la sua attenzione ai dettagli e alle piccole cose, vuoi per la varietà di tipi umani incontrata nel corso della narrazione. Una narrazione che, come scrive lo stesso Meneghello nella nota finale, non è giocoforza prerogativa di un libro come questo, giacché nelle intenzioni dello scrittore veneto non doveva neanche essere un romanzo tout-court. E alla fine, secondo me, è riuscito efficacemente in questo intento.
La guerra di Luigi e il parabello Ho letto questo libro tutto d’un fiato, per via della prosa fluida e del tono sobrio e piuttosto esilarante con cui viene narrata la storia. L’autore racconta la sua guerra partigiana sull’altopiano di Asiago. Dopo vent’anni trascorsi in Gran Bretagna, il tempo e lo spazio hanno decantato le passioni di allora e il racconto scorre con grande freschezza e grosse dosi di pudore e ironia. Luigi e compagni passano dalla scuola alla resistenza quasi senza passare da casa. Nei mesi passati alla macchia conosce tanta gente di varia provenienza, cerca l’azione, si impegna a formulare quella che è la sua idea di giustizia, si assimila nella natura, campi, boschi, cielo nero pieno di stelle che grava sui corpi sdraiati, a viso in su perché altrimenti pesa troppo. I racconti sono spesso molto esilaranti: processo sommario a due fratelli che avevano rubato i rifornimenti paracadutati dagli Inglesi: “No, dio-ladro”, dicevano i fratelli a proposito della condanna a morte; “Si, dio-boia”, diceva l’Accusa. Finì male. A proposito della sua frequentazione con la Simonetta, dice “Salute: invece di andare in montagna con Enrico, gli porto via la ragazza in pianura”. Il protagonista passa dai dibattiti morali sofferti alle azioni di guerriglia e, sempre, deve vedersela con gli ormoni in agguato: vengono ricordate le gambe di Simonetta e gli occhi come un bel giardino, i capelli di Natascia, i fianchi maestosi di Gina, una parte per il tutto, in piena tradizione omerica. Un’altra cosa che mi ha fatto pensare all’Iliade è il ricordo malinconico delle tante vite recise come fiori dalla falce, prima di avere avuto soddisfazione, Rodino, i cui resti sono tolti da sotto le pietre alla fine della guerra e sulla terra rimane il grumo di proiettili che l’ha ucciso, il Moretto che si butta giù da una rupe per non farsi prendere. È molto bella e in tema la copertina della edizione BUR con Palinuro di Arturo Martini. Un sentimento che ho condiviso è l’intensità della percezione del mondo intorno a te quando sai che possono essere i tuoi ultimi istanti e devi assorbire subito tutto quello che ti serve (per cosa, poi?). La parte che mi è piaciuta di più è il suo sforzo per elaborare la fine della guerra e andare oltre: ritrova l’anfratto dove aveva passato una giornata di rastrellamento, mentre quelli che lo cercavano calpestavano il terreno sopra la sua testa e ritrova il parabello che aveva dimenticato. Nella notte sotto la pioggia e in mezzo ai fulmini, scarica il caricatore in cielo e sui rami d’alberi. Solo dopo aver partecipato al fragore della natura, rientra in sintonia col mondo e con la vita.
La Resistenza come incosciente scampagnata. Resistere armi in pugno parlando di filosofia. Resistenza e senso di inadeguatezza: tra adolescenza e scarpe rotte. Combattere il nazismo come occupazione transitoria. Quinta ora: resistenza. La Resistenza che ci racconta Meneghello è la resistenza di un pugno di giovani studenti, consci di essere fuori asse rispetto al mondo che li circonda. Troppo intellettuali rispetto al paese contadino che li protegge. Troppo idealisti rispetto alla legione di cinici e opportunisti che li minaccia. Troppo intrinsecamente morali rispetto a un mondo immorale che li vorrebbe divorare. Ma del tutto impossibilitati a fare altrimenti. La Resistenza la si fa perchè non è neanche in discussione il fare altro, l'essere diversi da così. Meneghello la racconta con un understatement quasi britannico. Tutto sembra naturale, scontato, ovvio. Eppure, piccole rughe nella narrazione ci avvisano: lì si è scelto di uccidere un uomo a sangue freddo, qui di sparare consapevoli che la rappresaglia avrebbe ucciso anche inermi, di là di rischiare il tutto per tutto vedendo i propri amici morire. Eppure nel libro quasi non c'è dramma, certo non c'è epica, di sicuro c'è una fortissima tensione morale che si muove, però, quasi sottotraccia. Uno dei più bei libri sulla Resistenza, probabilmente. Uno dei libri meno "italiani" che si possano immaginare sulla nostra Resistenza. La scelta di narrarla a tanti anni di distanza e in questo modo è da grande scrittore, è di grandissima consapevolezza umana e stilistica. *************************************************************** A margine Forse il paese che siamo diventati dipende anche dal fatto che in quegli anni la meglio gioventù ha preso la strada che portava diritti all'altro mondo. A sopravvivere in gran numero, invece, gli opportunisti, i cinici, gli entusiasti dell'ultimissimo minuto.
Io non lo so perché a scuola nessuno mi ha mai insegnato nulla sulla Resistenza. Da tempo mi ripromettevo di cercare di saperne di più e l'ho fatto, leggendo questo libro o, meglio, ascoltandolo letto dalla bellissima e veneta voce di Michele di Mauro che l'ha fatto vibrare vivo nella mia testa. Cos'è che mi è rimasto dentro alla fine della lettura non lo so nemmeno io, perché la prosa magistrale dell'autore, lo humour del narratore, l'interpretazione del lettore hanno stratificato diverse sensazioni, tutte ugualmente intense, dalla simpatia per i ragazzi datisi alla macchia sull'altopiano di Asiago allo sgomento per una guerra che vedeva contrapposti dei connazionali, passando per altre varie sfumature tra questi due estremi. Il bello è che Luigi Meneghello non ci descrive strategie, manovre o storici avvenimenti della guerra, ma ci parla delle persone che quella guerra l'hanno fatta e vissuta, con una delicatezza e una tenerezza che sembrano stridere con l'argomento del racconto, ma che rappresentano l'unico modo possibile per raccontare. Io non lo so perché a scuola non ci hanno fatto leggere questo libro. Qualcuno avrebbe dovuto dirmi di farlo molto tempo fa.
Mi dispiace sinceramente soltanto una cosa: non si tratta del mio genere. Non si tratta del mio genere e quindi non sono in grado di godermi il romanzo così come qualcuno più interessato di me alla materia in oggetto potrebbe fare. Per cui, badate bene, il mio voto è soggettivo, come sempre. Se volessi dare un giudizio il più oggettivo possibile -il concetto di oggettività parlando di letteratura per me è molto labile e lo sarà sempre- sarebbe certamente di almeno un punto più alto.
Il testo è scritto deliziosamente. No, non ho svagliato; intendevo proprio dire deliziosamente. Il libro racconta dell'esperienza 'partigiana' dell'autore negli anni '44-'45 -metto il termine 'partigiano' tra parentesi perché realizzo ora, a posteriori, che Meneghello non si definisce mai propriamente così. Per lui i partigiani sembrano come far parte di un ideale o meglio un'idea, che a che fare con la sua esperienza non ha se non proprio questa, l'idea. Quel che ha vissuto Meneghello è un'esperienza di bande allo sbando, di camerati infiammati dal deisderio di salvare l'Italia o forse solo eccitati dal concetto astratto di ribellione. Ciò che rende questo testo formidabile, tuttavia, è l'umorismo di cui l'autore lo dissemina sapientemente, centellinandolo con cura e senza eccessi, né in un senso né in un altro. In diversi passi vengono illustrati, più spesso sottintesi o mostrati solo attraverso un velo, episodi abbastanza cruenti, ma la sottile delicatezza di questo humour riesce a ribilanciare i toni con un risultato, come ho già detto, delizioso, tanto stilisticamente quanto narrativamente, e dunquerelativamente alla ricezione del lettore e all'impatto emotivo sullo stesso.
Ho avuto, per personale carenza di nozioni geografiche, qualche difficoltà a seguire le dinamiche e gli spostamenti della banda, e verso la fine il ritmo velocissimo, ma non per questo non godibile, che era stato impostato nei capitoli precedenti ha cominciato a dare diversi segni di debolezza. Nel complesso, ad ogni modo, I piccoli maestri è un testo che ho apprezzato ben più di quanto non mi sarei aspettata di poter fare; una scoperta oltremodo gradita che, spero, mi fornirà il giusto input per avvicinarmi di più a questa letteratura che costituisce un brano tanto importante della nostra storia.
I piccoli maestri attraversa la Resistenza per balzi, movimenti per necessità rapidi, come rapida è, se di successo, la fuga; ma Meneghello riesce a dar forma, nonostante questo scattare e interrompere e tornare indietro, ai compagni partigiani per quei brevi momenti che precedono morte o sparizione; e così il paesaggio, che non fu mai così placido - ed è quasi crudele leggere delle primule conservate attorno al pube, del cinguettio che ravvia la foresta, della cicala invisibile che, si chiede il narratore, doveva essere sicuramente ben nota ai Greci (sono i rivoluzionati sistri pascoliani, che accompagnano la narrazione ricchissima e filosofeggiante del giovane).
Il terreno non è scosso dai passi reiterati dei vecchi e nuovi guerriglieri, dal capitano Toni al Rosso, da Lelio a Bene, ma, sempre uguale, sovrasta Padova, raccoglie i corpi impiccati e martoriati dai fascisti, segue il gruppo nelle picchiate vòlte a far ostaggi, medici e notai.
Lo scotimento è cosa solamente umana, di colui che trova il resistente in camicia nera, che perde di vista il compagno e lo ritrova irriconoscibile, di colui che saluta la Marta e la racconta, pur sapendo degli stupri e delle violenze subite in mano ai fascisti. In chi sa però vedere il mondo, e perifericamente, non s'allontanano tuttavia la quiete e la crescita del dormire tra la paglia con la Simonetta, la canzone che scorre il cammino, la poesia da «fucking bandit», da cui la grandiosità tenerissima dell'opera di Meneghello.
avevo delle riserve accostandomi a questo libro non amando il genere storico, ma mi sono dovuta ricredere; è un libro bellissimo, il racconto di un anno di resistenza fra l'altopiano di Asiago e la pianura sottostante è quasi il pretesto per una dichiarazione d'amore per la natura antica e le realtà contadine di quel periodo e quei luoghi, fatte di fatiche e miserie ma ricche di slanci di generosità; il tutto visto con gli occhi dello studente di città, con grande rispetto e poesia.
Contrariamente a quanto letto in altri commenti… ho trovato la prosa per niente fluida… con frasi lunghe… e ricercate… Mi è sembrato anche di riscontrare poca consapevolezza del male da lui stesso procurato… Unico pregio della lettura, approfondire il punto di vista personale dell’autore. Anche perché la guerra civile ha avuto talmente tante anime e motivazioni personali che è impossibile rinchiuderle tutte in un libro. Sembra più un resoconto di uno snob universitario, renitente alla leva, che altro…
Premessa che è un libro che “non è il mio”, non mi appartiene nel genere, e da anni lo guardavo senza minimamente intenzione di leggerlo, ecco, mi è piaciuto. Molto. Non è il libro della mia vita - non può esserlo per una serie di motivi che non saprei spiegare - ma è un libro che permette di guardare l’anima delle persone da angolazioni diverse, e la vera letteratura dovrebbe fare quello, soprattutto.
Letto con il gruppo Libri dal mondo. Nella nota inserita alla fine di questa edizione l'autore scrive I piccoli maestri è stato scritto con un esplicito proposito civile e culturale: volevo esprimere un modo di vedere la Resistenza assai diverso da quello divulgato, e cioè in chiave anti-retorica e anti-eroica. Sono convinto che solo così si può rendere piena giustizia agli aspetti più originali e più interessanti di ciò che è accaduto in quegli anni. Nel romanzo questo urgenza si vede ma purtroppo l'esito non è all'altezza delle aspettative, probabilmente il mio giudizio non sarebbe stato così lapidario se non avessi già letto Una questione privata: di fronte a quello che Italo Calvino ha definito il libro sulla Resistenza, il romanzo che tutti gli scrittori che avevano vissuto l'esperienza della Resistenza avevano sognato di scrivere, senza riuscirci ogni altro tentativo risulta ancora più debole. Mi hanno deluso la struttura e la trama (quello che succede al protagonista è poca cosa tutto avviene altrove o ad altri e non c'è tensione), le descrizioni della natura che non hanno la stessa efficacia di quelle di Beppe Fenoglio ma neppure la vividezza di quelle di Mario Rigoni Stern (eppure i luoghi sono gli stessi), lo stile (ogni personaggio è accompagnato dal suo necrologio come lui aveva ancora circa un mese di vita), e anche la lingua un miscuglio di italiano e dialetto. La lettura è stata così poco soddisfacente che il ricordo sbiadito del film, visto molti anni fa, mi sembra migliore (e sicuramente più avvincente) del romanzo. Rimane comunque un libro valido soprattutto come testimonianza di quella che è stata la Resistenza in Veneto. L'introduzione di Maria Corti non è riuscita a convincermi della grandezza dell'opera e questa edizione della collana BUR contemporanea è davvero scadente: finito di stampare nel dicembre 2012 le pagine nel 2019 già si staccano come se fosse vecchio di 50 anni. Nonostante non sia stato amore a prima vista, voglio concedere un'altra occasione a Luigi Meneghello e prima o poi leggerò Il dispatrio. Conclusa la lettura si ha una voglia matta di rileggere Una questione privata.
Read with the group Libri dal mondo. At the end of the novel the author explains that he wrote this book because he wanted to show a different point of view about the Italian resistance far away from heroism underlining the most peculiar and interesting aspects of this experience. While you read the novel you can almost touch this urge but the result is disappointing. Maybe my opinion is so harsh because I have already read A private affair what Italo Calvino considered the book about Italian resistance, the novel every writer who lived the resistance wanted to write without succeeding and so every over book about this topic starts with a disadvantage but there are too many things I didn't like. I can't appreciate the structure and the plot (very little happens and everything happens outside the book or to other characters so there is no real tension), the descriptions of the nature that haven't the same strength of Beppe Fenoglio's but even the boldness of Mario Rigoni Stern's (even if the place is the same Asiago plateau), the style (every character is described with his death note). I don't like even the language a mix of Italian and dialect. I found the book so unsatisfying that the faded memory of the movie seems to me better than the book (and for sure more engaging). Anyway it's a necessary book because it's an honest evidence of what was resistance in Veneto. The Maria Corti's introduction didn't persuade me about the beautiful of the book and this edition in the series BUR contemporanea is very low end: it was printed in December 2012 but in April 2019 the book is already collapsing. Even if I don't fall in love with Luigi Meneghello this time, I want to give him another chance and sooner or later I'm going to read Il dispatrio. When the book is over you really really want to read again A private affair.
bel romanzo resistenziale, dalla lingua vivissima e di molto differente dagli altri romanzi resistenziali che ho letto diverso tutto nel tono, nel senso di spaesamento, di pudico patriottismo teso verso un'italia che (ancora) non c'è, e che non ci sarà (quel fallimento porterà al "dispatrio" di meneghello, immagino)
la mia sensazione fortissima è che anche nel fango, nella nebbia, nel freddo, sui monti ed in pianura, tra la moltitudine di morti di cui è crivellato, questo racconto sia tutto circonfuso dal sole io l'ho visto tutto pieno di sole sarà per il timbro leggerissimo ed ironico, quasi alieno eppure così dentro la materia che tratta
Lunghe descrizioni che rischiano di far perdere il significato ultimo del libro: l'esperienza partigiana vista dagli occhi di un intellettuale idealista, ma troppo lontano dal coraggio del vero partigiano. I piccoli maestri mischia Neorealismo e Neoavanguardia... con il titolo che rimanda ad una tradizione letteraria del passato
Nella tradizione della letteratura resistenziale questo scritto di Meneghello si pone, è riconosciuto da tutta la critica, in posizione molto originale. In primo luogo perché la scrittura non è immediata, il recupero dei fatti vissuti sull’Altopiano di Asiago avviene quasi un ventennio dopo, il libro fu infatti scritto nel 1963; in secondo luogo perché l’identità di chi scrive, ricordando, ha subìto una naturale evoluzione: Meneghello non è più un giovane acculturato che è salito sull’altopiano con i suoi amici vicentini per fare la guerra civile, ora è un professore universitario in Inghilterra. La sua memoria filtra il vissuto a debita distanza con l’intento dichiarato di “dare un resoconto veritiero dei casi miei e dei miei compagni negli anni dal ‘43 al ‘45: veritiero non all’incirca e all’ingrosso, ma strettamente e nei dettagli” (nota al testo in seguito alla revisione del sett. 1974 - aprile 1975). Una cronaca stringente, particolareggiata ma anche frammentaria, quasi una giustapposizione di episodi scritti a partire dagli anni cinquanta e con estrema difficoltà, una difficoltà causata dal ricordo ancora vivo e pungente di una guerra mai cercata e voluta ma che lo ha attratto irrimediabilmente, stregandolo negli aspetti più violenti e di conseguenza segnandolo. La scrittura troppo precoce mal si sarebbe saldata con la rielaborazione intima dei fatti vissuti che non erano stati ancora elaborati. Quando poi è sopraggiunta la scrittura, lo sforzo più grande per Meneghello è stato quello di dargli una struttura narrativa rimanendo però fedele alla sua visione antiretorica.
La narrazione si apre con la ricerca di una scafa sotto il Colombara, Meneghello è in compagnia di una ragazza che ha trascinato sull’Altopiano per ritrovare oggetti lasciati nel pertugio sotto terra durante un rastrellamento, all’apice della sua partecipazione alla guerra civile: un libretto e il "parabello". Li trova e in quell’atto si conclude la sua guerra, “tutta una serie di sbagli”; all’emozione subentra la comprensione degli eventi e la capacità di lasciarli andare, per quelli che sono stati, congedandoli finalmente. Trovare il "parabello" abbandonato coincide con il capire di aver vissuto una guerra anomala a cui non erano affatto preparati: “non eravamo mica buoni, a fare la guerra”.
É dunque ora di raccontarla questa non guerra, questa frattura all’indomani dell’armistizio. Anche qui, come in Fenoglio, è chiaro il senso di sbandamento provato dalla nostra gente, Piemonte o Veneto non fa differenza. I renitenti alla leva, la gente comune che li aiuta e vuole voltare pagina, gli irriducibili fascisti, la ricerca di un nuovo inizio, lo scivolare deciso verso la clandestinità. E i giovani che precocemente diventano vecchi senza essere stati giovani e salgono in montagna. E la montagna qui è l’Altopiano. Protagonista assoluto, essenza intima della narrazione, un luogo dell’anima capace di aprire scorci descrittivi evocativi e di calmare l’animo inquieto, teso, eccitato da eventi fuori dall’ordinario, incomprensibili mentre li si vive.
Despite the fact that this book is about being hunted through the Italian mountains by the Nazis, Meneghello's style lends the book a relaxing, sunday-afternoon, low key Moomin-core vibe. Seriously.
The book is comprised of short bursts of action separated by long stretches of spiritual musing over idyllic country scenes. A crazy firefight that kills three of Meneghello's college friends, and Meneghello's own incredibly lucky and harrowing escape is described flatly over about one page. Meneghello spends many times that amount on polenta, the size and thickness of a pine tree, the shape of his favorite pistol, a fellow partisan girl he had a crush on, and long walks through the mountains from one camp or mission to another. His prose is incredible - dense, descriptive and artistic without being too flowery - and it lends itself to a pace that savors all these little moments of calm and basically skips over the action.
The book is full of evocative little portraits of every part of the inner lives of Meneghello and his fellow partisans. The emotional strain of the war and their partisan existences is not absent, but it's not overbearing. The story is surprising (and a little bit refreshing) in its focus elsewhere. Harrowing events are described matter-of-factly and Meneghello is always quick to pull the story back into the mundane, recounting the regular-young-guy thoughts in his head as he pulls a wounded comrade into a building under heavy machine-gun fire.
Much of the book is set in and around the Vincentine Alps, a region that Google images show to look a lot like SoCal's San Gabriel mountains. It's an incredible landscape in which to imagine a band of 20-something nerds roughing it in that terrain, following a military command structure but somehow also doing horizontal consensus-based decision-making, and planning out a new society from the ground up. I can't help but think of playing with airsoft guns in the snow around Mt. Baldy with my college friends.
I know that other italian authors of the period have significantly different recollections of this time period. Italo Calvino was notoriously critical of this kind of partisan narrative. The Path to the Nest of Spiders is next on my to-read list. But man, The Outlaws is incredible.
In the foreword, Meneghello mentions that he had to cut about 1/4 of the material from the original italian version Il Piccoli Maestri to make it work in english. My god, do I wish i spoke italian. Or at least that more of his books were translated.
This is the best book i've read all year and it's impossible to find in the US. My grandmother checked it out from her university library halfway across the country and brought it with her on the plane so i could read it. This book is so good that I'm actually considering starting my own press to do a re-printing.
La storia di un gruppo di studenti vicentini, i piccoli maestri del titolo, tra cui lo stesso scrittore, che dopo l’8 settembre decidono di salire sull’altopiano di Asiago per cominciare la guerra partigiana: poca esperienza con le armi e tante buone intenzioni, spirito ribelle, un pizzico di incoscienza e un po' casinisti nell’organizzazione: quanti salivano in montagna così, formando piccole bande autonome, senza un programma preciso se non di “fare qualcosa”? Meneghello, dopo quasi vent’anni ne scrive basandosi sui propri ricordi e la distanza di tempo sembra “smussare gli angoli”, tanto da dare una vena antieroica alla narrazione, preferendo ai fatti di sangue nudi e crudi e agli atti di eroismo, quei piccoli episodi che raccontati a posteriori si concludono con “l’abbiamo scampata bella”, “guarda cosa abbiamo combinato”, strappando pure qualche mezzo sorriso. Lo stesso prologo con il ritrovamento di un parabellum perso dal protagonista in un anfratto dell’altopiano, durante un rastrellamento, è da intendersi in questo senso, perché uscito dal nascondiglio se ne accorgerà solo molto dopo in occasione di usarlo; d’altra parte quando si ritrova a dover uccidere un comandante fascista, il racconto si blocca con la vittima nel mirino, la memoria non vuole andare oltre. La violenza rimane sullo sfondo, la perdita dei compagni viene anticipata (“gli rimaneva un mese di vita”, “venne preso”) ma non narrata nei particolari; anche i rastrellamenti, che decimano periodicamente le formazioni, sono visti come episodi sospesi tra sogno e realtà, con l’adrenalina della fuga e del nascondersi, più che del resistere (e come si poteva di fronte a forze soverchianti?). I piccoli maestri sono bravi con le parole, a confrontarsi con il mondo contadino, a vivere in montagna tra accampamenti e ricoveri di fortuna, a essere sempre in cammino da un luogo all’altro, ma l’uso delle armi non è tanto nelle loro corde, a differenza di altre bande, meglio organizzate militarmente: “non eravamo mica buoni a fare la guerra” afferma Meneghello nel prologo. Dalla prima estate sull’altopiano, all’inverno successivo sulle colline e poi a Padova fino alla liberazione: la narrazione si snoda sul filo dei ricordi, con tanti piccoli episodi che vanno a comporre un quadro insieme sulla guerra partigiana del Veneto. Il taglio della narrazione non cambia, fino a essere a tratti un po' ripetitivo per un romanzo comunque valido e a sé stante nella vasta panoramica della narrativa sulla resistenza. Tre stelle e mezzo.
‘Piccoli maestri’ di Meneghello è un libro – tra romanzo e diario – di guerra e sulla guerra ma quasi senza guerra. A chi legge, almeno, resta all’incirca quest’impressione: che di guerra si parli solo di striscio, per caso, in modo quasi involontario. Oggi, passati oltre settant’anni dai fatti e più di mezzo secolo dalla pubblicazione, comincia forse a esserci la giusta distanza per giudicare serenamente un’opera che ha suscitato forti polemiche al momento della sua uscita.
Nel 1964, anno della prima edizione, i fatti di cui Meneghello parla anche in forma autobiografica sono ancora troppo vicini e gravidi di conseguenze per permetterne una ricostruzione, non obiettiva – il che forse sarebbe difficile pure oggi – ma quanto meno libera da eccessivi condizionamenti politici. Meneghello, invece, poteva permettersi una fuga in avanti perché la giusta distanza l’aveva trovata iniziando una brillante carriera universitaria in Gran Bretagna e perché la formazione politica per la quale aveva militato durante la resistenza partigiana, il Partito d’Azione, si era dissolta sin dal 1947. La scelta di riappropriarsi di un episodio nodale della sua vita parte per l’autore con la scelta di un titolo che, a dispetto di quanto potrebbe apparire, ha un senso fortemente autoironico.
«Non eravamo mica buoni noi, a fare la guerra» Luigi Meneghello fa passare un po' di anni (quasi venti) prima di raccontare la sua esperienza di partigiano. Lo fa quando nasce il cosiddetto distacco, quando è passato abbastanza tempo affinché un'esperienza così eccezionale e formativa possa essere rappresentata in forma letteraria. Perché il punto è tutto qui: come rappresentare l'eccezionalità di questa storia, quale forma, quale espressione, per citare Calvino? Per Meneghello, solo dopo una lunga decantazione la scrittura avrebbe potuto non essere sopraffatta dalle passioni di quell'evento, ma adempiere alla propria funzione di dare una forma a quella materia e a quella memoria: "Sapevo che per formarla bisognava capirla, scrivere è una funzione del capire". Quando lo fa, sceglie di rappresentare la Resistenza in modo anti eroico e anti retorico, in un racconto che sembra quasi un diario, con ironia e comicità (credo sarebbe stato molto divertente averlo come compagno), attraverso il formarsi della banda dei piccoli maestri, ma soprattutto del senso privato e allo stesso tempo collettivo che la banda rappresentava.
Acquistato sull'onda delle suggestioni provenienti dal trailer dell'omonimo film, l'ho letto parecchi anni dopo. Probabilmente non era il momento giusto, perché non mi ricordo granché, se non uno stile piano e di tanto in tanto evocativo. Dovrei dargli sicuramente una seconda possibilità.
interrompo la lettura dopo 30 pagg per mancata sintonia. È un fatto del tutto personale: vedo bene che Meneghello ha un approccio originale al racconto delle sue esperienze nella Resistenza, che è padrone della lingua italiana (sa indubbiamente usarla come un giocoliere). Non per niente ha avuto una cattedra nel Regno Unito, e una pagina mensile su 24ore. Purtroppo non riesco a immedesimarmi con chi, di eventi che dovrebbero essere serii, riesce a raccontare solo scemate: benissimo evitare la retorica, ma questo mi sembra il problema opposto. Mi rendo conto che altri scrivono libri di storia, altri romanzi dal tono epico, e ci può stare anche chi ha un approccio picaresco; ma sembra che solo gli aspetti meschini della vita quotidiana interessino l’autore. E siccome questa caratteristica l’avevo già notata nelle sue pagine su 24ore, scritte quarant’anni dopo, abbandono la lettura.
"Quando si è soli […] vengono quei pensieri informi che si muovono lentamente e continuamente, e non concludono mai nulla, eppure sembra che abbiano dentro il veleno della verità. È per questo forse che lodiamo la solitudine. In certi momenti le cose si vedono meglio se si vedono con la coda dell’occhio, anzi con la coda di migliaia di occhietti, è una curiosa faccenda la percezione, migliaia e migliaia di specchietti montati uno accanto all’altro, ci saranno anche spazi scoperti, micro millimetrici, ma per lo più sono sicuro che si sovrappongono ai margini…" (p. 102)
Romanzo strepitosamente bello. A mio parere, l'autore è perfettamente riuscito a narrare della resistenza in chiave antiretorica e antieroica (sono parole sue). Alcune pagine sono straordinarie (il furto dei formaggi, il brano sull'ethos dei partigiani, il finale, davvero icastico ed efficacissimo, e potrei andare avanti a lungo). Molto particolare il linguaggio, che oscilla tra aulicismi preziosi (non troppi), alcune citazioni poetiche, una lingua d'uso, comunque elegante, e deliziosi inserti in dialetto veneto: elementi che si fondono insieme armoniosamente.
Ogni tanto era poco scorrevole ma tutto sommato interessante, particolarmente come spesso parliamo di persone che hanno fatto la storia come eroi ma qua ce le presenta come persone che non sapevano esattamente cosa fare. E penso che questo permetta di empatizzare molto coi personaggi. E' ambientato nelle zone da cui vengo, con alcuni riferimenti al dialetto veneto, per cui non so se sarebbe cosi' interessante anche per chi non e' familiare con la zona.