Tag für Tag, über ein Jahr hinweg, erzählt Gesine Cresspahl ihrer zehnjährigen Tochter Marie aus der eigenen Familiengeschichte, vom Leben in Mecklenburg in der Weimarer Republik, während der Herrschaft der Nazis, in der sich anschließenden sowjetischen Besatzungszone und den ersten Jahren in der DDR. Zugleich schildert der Roman das alltägliche Leben von Mutter und Tochter in der Metropole New York im Epochejahr 1967/1968, inmitten von Vietnamkriegs- und Studentenprotesten.
Uwe Johnson was a German writer, editor, and scholar.
Johnson was born in Kammin in Pomerania (now Kamień Pomorski, Poland). His father was a Swedish-descent peasant from Mecklenburg and his mother was from Pommern. At the end of World War II in 1945, he fled with his family to Anklam (West Pomerania); his father died in a Soviet internment camp (Fünfeichen). The family eventually settled in Güstrow, where he attended John-Brinckman-Oberschule 1948–1952. He went on to study German philology, first in Rostock (1952–54), then in Leipzig (1954–56). His Diplomarbeit (final thesis) was on Ernst Barlach. Due to his lack of political support for the Communist regime of East Germany, he was suspended from the University on 17 June 1953 but was later reinstated.
Beginning in 1953, Johnson worked on the novel Ingrid Babendererde, rejected by various publishing houses and unpublished during his lifetime.
In 1956, Johnson's mother left for West Berlin. As a result, he was not allowed to work a normal job in the East. Unemployed for political reasons, he translated Herman Melville's Israel Potter: His Fifty Years of Exile (the translation was published in 1961) and began to write the novel Mutmassungen über Jakob, published in 1959 by Suhrkamp in Frankfurt am Main. Johnson himself moved to West Berlin at this time. He promptly became associated with Gruppe 47, which Hans Magnus Enzensberger once described as "the Central Café of a literature without a capital." [1]
During the early 1960s, Johnson continued to write and publish fiction, and also supported himself as a translator, mainly from English-language works, and as an editor. He travelled to America in 1961; the following year he was married, had a daughter, received a scholarship to Villa Massimo, Rome, and won the Prix International.
1964 - for the Berliner Tagesspiegel, Reviews of GDR television programmes boycotted by the West German press (published under the title "Der 5. Kanal", "The Fifth Channel", 1987).
In 1965, Johnson travelled again to America. He then edited Bertolt Brecht's Me-ti. Buch der Wendungen. Fragmente 1933-1956 (Me-ti: the Book of Changes. Fragments, 1933-1956). From 1966 through 1968 he worked in New York City as a textbook editor at Harcourt, Brace & World and lived with his family in an apartment at 243 Riverside Drive (Manhattan). During this time (in 1967) he began work on his magnum opus, the Jahrestage and edited Das neue Fenster (The new window), a textbook of German-language readings for English-speaking students learning German.
On 1 January 1967 protesters from Johnson's own West Berlin apartment building founded Kommune 1. He first learned about it by reading it in the newspaper. Returning to West Berlin in 1969, he became a member of the West German PEN Center and of the Akademie der Künste (Academy of the Arts). In 1970, he published the first volume of his Jahrestage (Anniversaries). Two more volumes were to follow in the next three years, but the fourth volume would not appear until 1983.
Meanwhile, in 1972 Johnson became Vice President of the Academy of the Arts and was the editor of Max Frisch's Tagebuch 1966-1971. In 1974, he moved to Sheerness on the English Isle of Sheppey; shortly after, he broke off work on Jahrestage due partly to health problems and partly to writer's block.
This was not a completely unproductive period. Johnson published some shorter works and continued to do some work as an editor. In 1977, he was admitted to the Darmstädter Akademie für Sprache und Dichtung (Darmstadt Academy for Speech and Writing); two years later he informally withdrew. In 1979 he gave a series of Lectures on poetics at the University of Frankfurt (published posthumously as Begleitumstände. Frankfurter Vorlesungen).
In 1983, the fourth volume of Jahrestage was published, but Johnson broke off a reading tour for health reasons. He died on 22 February 1984 in Sheerness in England. His body was not found until
Architettura di mondi Iniziare a leggere I giorni e gli anni fa l’effetto sorprendente di entrare in un mondo, complesso, colorato, pieno di immagini in presa diretta e ricordi: è il mondo visto giorno per giorno e rielaborato da Gesine e dalla figlia bambina, Marie, a New York. Il sottotitolo 21 agosto 1967-19 dicembre 1967 dice il periodo raccontato in tempo reale, cioè la vita delle due donne ma anche quello che racconta giorno per giorno il New York Times: guerra di Vietnam, sit-in, guerra fredda. A questo piano temporale si intreccia il racconto che Gesine fa a Marie della sua famiglia di origine, in particolare del nonno Cresspahl, del quale la bambina porta il cognome: del suo osservare l’avvento del nazismo negli anni ’30 cercando di sfuggirlo andando a lavorare in UK, del suo dover ritornare per compiacere la moglie. Affascinante questo spaccato di mondo che si affaccia sul Baltico, lo vedo con le sue casette di legno, gli orti, gli artigiani socialdemocratici, gli spiantati aderenti della prima ora al nazismo. Molto interessante leggere la vita quotidiana di una donna che mantiene se stessa e la bambina lavorando a New York: una donna progressista ma non allineata in modo acritico su qualunque iniziativa. Il suo progressismo si manifesta in particolare nell’educazione quotidiana della figlia, che cerca di tirar su come cittadina consapevole, invece di bestiola yankee molto intelligente, come sarebbe di natura. E’ una lettura avvolgente e affascinante, anche se non facile. L’autore usa per i personaggi un flusso di coscienza che nel caso del nonno coinvolge moltissime persone, i compaesani, coi quali l’uomo s’intendeva per allusioni che non sono molto facili da seguire per il lettore. Una cosa che mi ha divertito moltissimo è rendermi conto che i traduttori, per tradurre le conversazioni più intime fra i protagonisti mecklenburghesi, abbiano scelto un idioma pisano che non avevo mai trovato scritto e che tuttavia ci sta molto bene. Questo è il primo libro di una tetralogia e un po’ soffre di questa condizione, perché, per quanto in sé compiuto, lascia irrisolto il passato delle donne, la nascita della bambina, l’abbandono della Germania. Comunque un’opera del genere meriterebbe di essere conosciuta di più e Uwe Johnson è un grande scrittore, quasi un architetto di mondi.
Romanzo numero uno di quattro in cui ogni capitolo descrive le vicende di un giorno compreso fra il 21 agosto 1967 e il 20 agosto 1968. Le vicende narrate sono quelle di Gesine Cresspahl, tedesca dell’est emigrata a New York negli anni Cinquanta, e della figlia Maria, ed è proprio attraverso il racconto dei suoi ricordi alla bambina, che anche noi ripercorriamo - in una fitta alternanza di piani temporali, in cui il presente è scandito dalla lettura e dagli articoli del New York Times (zia Times, come lo chiamano affettuosamente fra loro) - la storia della sua vita e quella della sua famiglia da prima ancora della sua nascita, fin dall’incontro dei suoi genitori a Jerichow, uno sconosciuto (e immaginario) borgo del Meclemburgo agli inizi del secolo. È anche il modo per rivivere l’evoluzione della società tedesca attraverso le contraddizioni storiche e politiche del periodo, fino a giungere all’ascesa del nazismo, in un continuo parallelo con le incongruenze storiche e sociali della società contemporanea americana, in bilico fra Sessantotto, discriminazioni razziali e Vietnam. È un romanzo complesso, per certi aspetti difficile, a volte estenuante per la meticolosità degli eventi e delle percezioni descritti da Johnson, ma interessante e affascinante se la passione per la storia passata e le evoluzioni che hanno portato al costituirsi della nostra società civile attraverso il passaggio della Seconda Guerra, rientra fra gli interessi di chi legge. Confesso di averlo terminato con un certo sollievo, ma a distanza di tempo (ora che questa lettura è tornata alla mia memoria) non escludo prima o poi di proseguire con il secondo volume.
Curiosità: il tedesco del dialetto del Meclemburgo viene reso in traduzione con l’utilizzo di un sorprendente idioma pisano.
Tre linee narrative che si rincorrono in un'opera dalla struttura poderosa. Una lettura che richiede concentrazione e dedizione, dagli effetti quasi ipnotici. Non escludo di aggiornare al rialzo la valutazione al termine della tetralogia.
“– Gesine, svegliati. Dov’eri? – Indietro di qualche anno.”
365 capitoli, uno per ogni giorno dal 21 agosto 1967 al 20 agosto 1968, 365 capitoli a comporre un anno “dalla vita di Gesine Cresspahl” (come recita il sottotitolo de “I giorni e gli anni”, in originale “Jahrestage”, letteralmente “Gli anniversari”). Chi pensasse che la tetralogia di Uwe Johnson sia una sorta di diario della protagonista cadrebbe però in un clamoroso equivoco, perché la componente diaristica (la descrizione della vita quotidiana di Gesine e di sua figlia Marie a New York), seppur presente, risulta alquanto marginale, rimanendo quasi sempre sullo sfondo. Ne “I giorni e gli anni” c’è infatti molto altro: ci sono i ricordi dell’infanzia e della giovinezza “tedesca” di Gesine e la narrazione (parecchio romanzata) del passato della famiglia di origine, c’è la Storia (la Repubblica di Weimar, l’ascesa del nazismo, la guerra, l’occupazione sovietica) e la cronaca, in attesa di diventare Storia, che trapela dalle pagine del New York Times di cui Gesine è un’assidua lettrice (i disordini razziali, la guerra in Vietnam, gli omicidi di Martin Luther King e di Robert Kennedy, la contestazione giovanile, la Primavera di Praga: il 1968 è stato un anno davvero cruciale nella storia del Novecento!), ci sono le riflessioni filosofico-intellettuali (ad esempio quelle, illuminanti, sulla rimozione collettiva dell’Olocausto) e tanto altro ancora (sogni, dialoghi mentali con i defunti, fantasie infantili, ecc.). “I giorni e gli anni” è un’opera incredibilmente complessa e stratificata, dalle mille sfaccettature, un libro che non è paragonabile a nessun altro, un unicum nella storia della letteratura moderna (ed è probabilmente questa singolarità ad aver fatto sì che Uwe Johnson rimanesse un autore relativamente poco conosciuto al grande pubblico, rispetto ad altri scrittori suoi connazionali, come Gunther Grass o Heinrich Boll). E’ – soprattutto – un capolavoro sul tempo e sulla memoria, come prima di esso solo Proust con la sua “Recherche” è stato in grado di realizzare. Gli andirivieni temporali de “I giorni e gli anni” creano un elaborato ordito, in cui si avverte ad ogni pagina l’orgoglioso, titanico tentativo di restituire il volto del tempo in tutte le sue sfuggenti, impalpabili e “impossibili” sfumature. Ma a differenza di Proust, che medianicamente, era riuscito a resuscitare il passato, integro e intatto grazie all’epifanica capacità dell’opera d’arte di annullare ogni barriera cronologica, in Johnson c’è piuttosto la sconsolante consapevolezza della fallacia della memoria di far rivivere il passato. La memoria cerca sì di riempire con i ricordi il vuoto di ciò che è stato, “di ciò che un tempo fu realtà, sensazione viva, fatto accaduto”, ma invano. I ricordi sono infatti come “lacerti, schegge, spezzoni, filacci che andranno a ricoprire a caso l’immagine depredata e priva del suo contesto, calpesteranno le tracce della scena che si voleva ricostruire, e così siamo ciechi ad occhi aperti. Quel pezzo di passato che ci appartiene perché c’eravamo rimane nascosto dentro a un segreto impenetrabile […], inavvicinabile nel suo gesto di rifiuto, privo di parola e affascinante come un enorme gatto grigio dietro al vetro della finestra, visto da molto in basso come con occhi di bimba”. Il ricordo ha i suoi trucchi (ad esempio, generare da se stesso, magari partendo da un tono di voce, una frase che un personaggio avrebbe potuto dire, e da qui costruire un intero dialogo che magari non si è mai svolto nella realtà, almeno non con quelle parole), ma non è in grado di garantire l’accesso al tempo trascorso; se ogni tanto si accende per qualche istante qualcosa che ci piacerebbe spacciare per passato, questa è solo un’intermittenza del ricordo destinata inesorabilmente a scomparire, senza neppure l’illusione del potere taumaturgico di una parola poetica in grado di compiere il miracolo di fissare per sempre questi evanescenti momenti. Conscio di questa incapacità, Uwe Johnson adotta una sorta di originalissima visione “prismatica”, che cerca di sopperire alla inaffidabilità della memoria: i fatti del passato sono visti da varie angolazioni e punti di vista. Quello di Gesine è solo uno di questi, è al più una “congettura” (non a caso il suo romanzo d’esordio, che cercava di ricostruire “rashomonicamente” la morte di Jakob, un personaggio che ricorre anche ne “I giorni e gli anni”, si intitola “Congetture su Jakob”), perché nella poetica di Johnson a un massimo di realismo corrisponde paradossalmente un massimo di indeterminatezza, alla verità viene pragmaticamente sostituita la verosimiglianza. Siccome i ricordi travisano la realtà, Johnson fa alternare spesso, a volte nella stessa frase, la prima e la terza persona, per separare il punto di vista di chi ha vissuto un’esperienza nel passato da quello di chi la rielabora nel presente (cosa che fa oscillare il romanzo tra immedesimazione soggettiva e distanziazione oggettiva). A proposito delle voci con cui si trova di frequente a parlare nella sua testa (voci di persone defunte, come il padre Heinrich, la madre Lisbeth o Jakob), Gesine coglie bene questo aspetto, quando afferma che “mi sento parlare non soltanto dalla posizione reale del soggetto (nel passato) ma anche dalla prospettiva del soggetto attuale di trentacinque anni. Nell’udire capita anche che la mia propria posizione di ragazzina quattordicenne si scambi con quella di me partner attuale, che però non posso in nessun modo aver rivestito”. Questa situazione si amplifica se si considerano gli avvenimenti che vengono ricostruiti senza neppure averli vissuti (ad esempio gli anni prima della nascita di Gesine o la prigionia di Heinrich Cresspahl), i quali sono sempre passibili dell’accusa di falsificazione (e la figlia Marie assume nei dialoghi sul passato della madre proprio la funzione di mettere criticamente in discussione la verità di quanto rievocato, cercando di trovare nei suoi racconti falle e punti deboli, oppure di svelare quei ricordi che hanno surrettiziamente preso spunto da fatti ben più recenti). E’ significativo che prima di morire Uwe Johnson, la cui opera ha girato sempre intorno agli stessi luoghi e personaggi (oltre al Jakob citato poco innanzi, anche il Karsch de “Il terzo libro su Achim”), stesse pensando a una sorta di romanzo su Heinrich Cresspahl, il padre di Gesine, quasi volesse dare anche a lui la possibilità di dire la sua, dopo quello che la figlia ne aveva raccontato ne “I giorni e gli anni”. L’opera di Uwe Johnson è una costruzione che, quasi fosse una sorta di elaborazione in chiave letteraria del principio di indeterminazione di Heisenberg, più si avvicina realisticamente ai fatti e meno diventa oggettiva. L’ossessione di Gesine per quella che considera “la prova dell’esistenza di questo giorno”, ossia la letteratura quotidiana del New York Times (che lei chiama affettuosamente “zia Times”, dando al giornale le fattezze di una “anziana signora onusta d’anni e di dignità”, che “ha girato il mondo in lungo e in largo” e “ha guardato la vita in faccia”, che sa stare al passo coi tempi e non alza mai la voce, e “non chiama il presidente col nome di battesimo, tutt’al più le vittime di un omicidio”, insomma una affidabile “polena sul vascello della morale”) è forse il tentativo di ancorare la propria vita a una qualche istanza di verità superiore, tentativo peraltro destinato anch’esso al fallimento, dal momento che neppure la cronaca giornalistica del presente è esente da quei problemi di soggettività e di interpretazione che Gesine sperimenta nelle sue elucubrazioni sul passato. Il problema della memoria si riflette anche nelle considerazioni più propriamente politiche del romanzo. Un esperimento dell’Università di Princeton del secolo scorso era addivenuto alla conclusione che l’uomo tende a dimenticare ciò che è legato ad esperienze spiacevoli, in quanto il dolore e il ricordo sono correlati. Paradossalmente Gesine, la quale soffre dell’incapacità di far rivivere con la memoria il proprio passato personale e familiare, è schiacciato (in quanto tedesca, anche se all’epoca solo una bambina) dalla memoria storica dell’Olocausto, quella “sensazione di incubo, la cieca e inane autodifesa di chi dorme e lotta con qualcosa che nessun risveglio riuscirà a fugare del tutto”. Una colpa inconscia che diventa vergogna quando ci si rende conto di come con gli anni ci sia stata in Germania una vera e propria rimozione collettiva, al punto che, nonostante la “denazificazione” operata dalle potenze vincitrici nel dopoguerra, molti personaggi compromessi con il nazismo siano tornati ugualmente a ricoprire cariche politiche di prestigio. Del resto, il senso di colpa ereditato da Gesine appare del tutto comprensibile alla luce del fatto che la famiglia Papenbrock (cioè i nonni e gli zii di Gesine) è una ipostasi quasi perfetta della società tedesca degli anni trenta che si è resa complice dell’avvento della dittatura: Horst, la SA, l’ingenuo e rozzo nazista della prima ora, viene ben presto soppiantato dal cinico fratello Robert, destinato a diventare un sonderfuhrer in Ucraina durante la guerra, mentre il capofamiglia Albert, facoltoso commerciante agrario, rappresenta l’alta borghesia e l’industria tedesche che si sono illuse di poter utilizzare a proprio vantaggio quella apparentemente innocua masnada di zotici in camicia bruna al seguito di Hitler e che troppo tardi hanno scoperto l’esiziale volto del Terzo Reich. Se il giudizio di Johnson è impietoso anche nei confronti dei sovietici, che nel dopoguerra governano spietatamente per qualche anno la parte orientale della Germania (e i cui campi di concentramento non sono poi molto differenti dagli omologhi lager nazisti), e della R.D.T. comunista, dove la ragione di Stato, o meglio quella di partito, ha la supremazia su tutto, dove a scuola le lezioni di “educazione all’attualità” ottenebrano le menti delle giovani generazioni, dove quello del delatore “è un lavoro come un altro” e – a differenza dei tempi del nazismo in cui vigeva il motto “il nemico ti ascolta” – è l’amico ora a poterti tradire e spedire ai lavori forzati con l’accusa di sabotaggio, di attività controrivoluzionaria, o semplicemente di possesso di letteratura antidemocratica, il giudizio di Johnson – dicevo – non è benevolo neppure nei confronti dell’America, dove solo la libertà di pensiero e di parola riesce a compensare parzialmente la sostanziale iniquità della politica imperialistica e del sistema economico-sociale capitalistico. Hans Magnus Enzensberger aveva avanzato un provocatorio parallelo tra gli Stati Uniti della fine degli anni ’60 e la Germania della metà degli anni ’30, sostenendo che in entrambi i casi c’era una razza svantaggiata e perseguitata, e così come la Germania si era immischiata nella guerra contro la rivoluzione spagnola, così gli U.S.A. avevano fatto in Vietnam (“Il Vietnam è la Spagna della nostra generazione!”). Anche se Uwe Johnson non è mai stato troppo tenero con le posizioni ideologiche del connazionale Enzensberger, non c’è dubbio che la particolare dinamica temporale de “I giorni e gli anni” (quel passare nella stessa pagina da un’epoca all’altra) autorizzi il lettore a convincersi della liceità di una simile correlazione. “I giorni e gli anni” è una imponente tetralogia di quasi duemila pagine, che Johnson ha impiegato ben quindici anni a realizzare. Se l’opera è sicuramente importante da un punto di vista “intellettuale”, il lettore non è mai privato del piacere popolare della saga familiare. La Jerichow e il Meclemburgo in cui Gesine vive la prima parte della sua vita, così provinciali e appartati, con la sua schietta umanità e il suo dialetto (il “plattdeutsch”, che i traduttori hanno restituito utilizzando il vernacolo toscano, cosa che all’inizio mi ha lasciato un po’ interdetto, ma che successivamente mi è sembrata una scelta tutto sommato appropriata), Jerichow e il Meclemburgo – dicevo – mi hanno ricordato la Schabbach e l’Hunsruch dell’epocale capolavoro cinematografico “Heimat” di Edgar Reitz, un autore che, come Johnson, non ha mai avuto paura di allargare smisuratamente i propri orizzonti, fino a realizzare, tra storia, autobiografia e immaginazione, il ritratto di un mondo e di un’epoca nel suo incessante fluire generazionale. “I giorni e gli anni” alterna tragedie immani e momenti sottilmente satirici (Uwe Johnson amava dire di sé: “Sono un umorista misconosciuto”), riflessioni esistenziali e ritratti umani indimenticabili, spirito saggistico e afflato lirico (i primi tre volumi, ad esempio, iniziano curiosamente con suggestivi incipit che hanno a che fare con l’acqua e con luoghi acquatici: il mare del New Jersey, la piscina di Manhattan e il lago artificiale nello Stato di New York), cronaca giornalistica e pagine di metaforica bellezza (come quando, nel capitolo dedicato ai rumori di New York, le caldaie che vengono accese all’inizio dell’autunno vengono paragonate a un vecchio tossicchiante e catarroso). Da tutto ciò nasce il fascino ambiguo ed obliquo di un’opera strana e spiazzante, che avvince e distanzia allo stesso tempo, che invita il lettore all’immedesimazione e contemporaneamente lo innalza ad altezze tali da renderlo osservatore distante e distaccato degli avvenimenti. Sebbene leggerlo nella sua interezza non sia una impresa da intraprendere alla leggera, “I giorni e gli anni” è uno dei capolavori imprescindibili della letteratura di tutti i tempi, che meriterebbe una fama ben maggiore di quella che la sua mole poco appetibile al lettore contemporaneo da una parte e le esigenze dell’industria editoriale dall’altra (in Italia il terzo e quarto volume, a lungo inediti, sono usciti solo nel 2014 e nel 2016, pubblicati da una piccola casa editrice, “L’Orma”) gli hanno potuto garantire.
Die Vielsprachigkeit, der biografische Bezug und die wiederkehrende Kapitelstruktur machen den Roman zu dem, was er ist. Es handelt sich um einen Generationenroman wie Buddenbrooks von Thomas Mann oder Pachinko von Min Jin Lee. Der Roman handelt nicht nur von der Vergangenheit, sondern thematisiert auch gegenwärtige, gesellschaftliche Probleme. Dabei geht es also nicht nur um die für den Autor so relevante Nachkriegsgeschichte, sondern auch um die Topografie New Yorks und das Handeln der Mafia in jener Stadt. Besonders spannend macht es die vermeintliche Tagebuchstruktur. Als junger Leser bin ich gespannt auf die nächsten drei Teile und darauf, ob und wie sich Johnsons Ton entwickelt hat. Kritisch lese ich die Auszüge, die sich anhören wie ein „es war ja nicht so schlimm“. Die zwischenmenschlichen Beziehungen und deren Entwicklung umreißt Johnson meisterhaft, aber in den entstehenden Konstellationen steckt auch immer die Frage nach der Schuld. Wie frei kann man in einer Autokratie leben? Wann macht man sich persönlich schuldig? Und wann macht man seine Nachbarschaft oder sogar seine eigene Familie schuldig?
Ich mochte wie mit der Form gespielt wird, auch wenn es manchmal ein bisschen wie ein gimmick wirkt. Der Schreibstil ist anfangs ungewohnt und etwas eigentümlich, aber trotzdem lässt es sich nach ein paar Kapiteln gut lesen. Thematisch ist spannend, wie Kontinuitäten und Diskontinuitäten zwischen 60er-Jahre Kapitalismus und Faschismus, Rassismus und Antisemitismus, Groß- und Kleinstadt und Deutschland, Großbritannien und den USA behandelt werden, auch wenn es stellenweise im Betonen von Strukturen, die die individuelle Möglichkeiten determinieren, fast ein bisschen soziologisch wird. Es bleibt aber dabei trotzdem eigentlich immer lesenswert erzählt.
Uwe Johnson beschreibt, wie Gesine Cresspahl ihrer Tochter Marie ihre Lebensgeschichte erzählt und switcht deshalb zwischen dem New York der 60er-Jahre und Mecklenburg in den 30ern. Ich brauchte einen Moment, um mich daran zu gewöhnen und Zusammenhänge zu sehen, nachher machte aber genau das das Buch so interessant und die Abwechslung in seinem Erzählstil (anh. Briefen, Zeitungsartikeln, Telefongesprächen, Tonbändern, Kneipengespräche, etc.) war wirklich unterhaltsam. Freue mich auf den 2. Band.