Portoghese di nascita ma napoletana d'adozione, Eleonora de Fonseca Pimentel fu poetessa, scrittrice e una delle prime donne giornaliste in Europa. Amica di intellettuali e rivoluzionari, da Vincenzo Cuoco a Mario Pagano, ebbe un ruolo di primo piano negli sfortunati moti partenopei del 1799. Il resto di niente ne ricostruisce con straordinaria forza evocativa e con rigore storico la parabola di donna e di rivoluzionaria. A far da sfondo all'intensa avventura intellettuale di Eleonora c'è un'intera città, la Napoli di fine Settecento, capitale di un grande regno e centro di cultura, con le sue eterne contraddizioni e la sua struggente bellezza.
“È arrivato lo Frangese, co’ ’no mazzo de carte ’mmano. Liberté, ugualité, fraternité: tu arrubbe a me, io arrubbo a te!”
Eleonora (Leonor) Pimentel Fonseca (1752-1799) nasce a Roma da una famiglia aristocratica portoghese. A undici anni la famiglia si trasferisce a Napoli dove trascorrerà il resto della sua vita.
Questo è un romanzo “storico” (secondo la classificazione didascalica dei generi, in verità tutti i romanzi sono “storici”, così come tutti i romanzi sono “sperimentali”), non una biografia, né una vita romanzata.
Le libertà che si prende Striano sono quelle aristoteliche, secondo le quali l'autore è autorizzato ad immaginare la possibilità di avvenimenti all'interno del contesto storico vero e proprio. Il luogo geografico è dunque quello della città di Napoli la cui vivacità è stata dipinta da più autori. Striano ne fa un organo vitale che stimola tutti i sensi a disposizione.
Napoli è suoni, odori, colori, sapori. Si veste, inoltre, di caricature particolari che richiamano arti e mestieri dissoltosi nel tempo. Un'epoca di fermenti politici e culturali.
Com’è strana la Storia, a un tratto t’accorgi che respiri aria diversa. Non sai dire in che: tutto va come prima, però senti che le abitudini han preso confortevole, smorta eternità. Frizza irrequieta attesa d’avvenimenti ignoti. .
In un contesto europeo dove i nobili sono ancora arroccati alle loro poltrone e ai loro privilegi e dove il popolo vive nella massima ignoranza, aleggiano le nuove idee che vogliono scardinare il sistema delle iniquità. Eleonora respira a pieni polmoni quest'aria e vive attivamente quest'epoca irrequieta. Forte e caparbia nel difendere i suoi ideali; anticonformista in quanto donna che anticipa tempi e modi di quell'emancipazione che avrà ancora tanta strada da compiere. Striano, tuttavia, focalizza l'attenzione sull'intima debolezza di una donna i cui sentimenti vengono messi a dura prova. I pugni stretti a combattere e quando li apri trovi il resto di niente, “nada de nada”. Questa è la realtà. Bisogna accettarla con fierezza e non pentirsi di aver stretto quei pugni, non pentirsi di averci creduto!
Profondo, poetico ma anche realistico: un dipinto impressionista. E’ un romanzo storico ma è anche molto di più. E’ il racconto della propria vita, fatto in prima persona, di Eleonora Fonseca Pimentel, personaggio di spicco della rivoluzione Napoletana del 1799. Protagonisti di questo romanzo sono dunque Lenor, la città di Napoli, la rivoluzione, ma soprattutto l’amore per la cultura e il sapere. Anzi, credo proprio che questo ultimo sia il punto centrale: certamente c’è la vita eccezionale di una donna eccezionale, in cui la rivoluzione rappresenta il culmine e l’epilogo, ma la parte fondamentale di questa vita sono l’amore per la cultura, lo studio e il sapere in tutte le sue forme e discipline: Lenor ne è un’allegoria vera e propria. Il modo singolare in cui il romanzo è strutturato lo dimostra: il linguaggio è fortemente poetico, la continua assenza di articoli e preposizioni sono una vera licenza poetica. La linea temporale del racconto è discontinua, come in un diario, si aprono come degli sprazzi di luce sulle complesse vicende narrate, ed è questo che lo rende un dipinto impressionista o forse anche cubista, ma è come una macchina del tempo, porta veramente il lettore nella Napoli del XVIII secolo. Alla stessa Lenor, sin da quando vengono riferiti i primi pensieri della giovinetta che parla tra sé e sé, l’autore attribuisce emozioni e pensieri che non sono propri di un’undicenne: è il suo modo di segnalare sin dall’inizio che si tratta di persona dalla sensibilità e dalla cultura fuori dal comune. Usa molto le numerose lingue e dialetti, sembra quasi Gadda, questo ricostruisce bene l’ambiente multiculturale e cosmopolita in cui Lenor è cresciuta, ha vissuto e in cui i fatti si sono svolti, anche questo contribuisce molto all’effetto impressionista del tutto. Anche quando cresce, la giovane Lenor qui descritta ha troppa coscienza di sé: parla in prima persona ma da’ un punto di vista dei fatti decisamente terzo, obiettivo e che si percepisce supportato dal senno di poi, la sua figura è lo strumento essenziale per descrivere un qualcosa che non potrebbe essere spiegato e raccontato senza un’eroina a farne da allegoria. Questo tema del sapere e della cultura è molto attuale: ancora oggi, anche se qui su GR siamo in tanti, ed esiste la scuola dell’obbligo, ed anzi spesso i genitori impongono ai ragazzi di studiare per migliorare le proprie prospettive, poi però alla fin fine nel modo di sentire comune la persona colta, che legge e che studia, viene sempre guardata un po’ storto, il secchione viene sempre e comunque preso in giro. Il pensiero del popolo nei confronti della persona colta è sempre lo spavento nei confronti di qualcosa che non comprende: “Cosa scrivete voi? Voi siete una donna!” “Io scrivo, sì. Libri, poesie, trattati.” L’altra osserva, preoccupata. Si fa il segno della croce. “Io pregherò per voi e la vostra famiglia” mormora “V’hanno educata molto male. Han producido la ruina de Usted”.
Lo stesso titolo Il resto di niente richiede una spiegazione multi-sfaccettata: sembra essere un’espressione tipica napoletana, non posso confermarlo in quanto non conosco quel dialetto, ma alla fin fine è la traduzione poetica di nada de nada, che è più simile all’italiano niente di niente, ed è l’espressione che viene sempre usata ogni volta che l’autore - tramite la voce di Lenor - parla del senso di impotenza nei confronti del fato e della storia, il senso dell’insignificanza di una singola vita, nonostante tutto l’impegno che vi si possa profondere per raggiungere importanti obiettivi. Alcuni esempi:
“io che ‘nce posso fa’” pensò, in napoletano lei pure. Come dicevano i napoletani per significare “nulla, proprio nulla, nada de nada”? “Ah, sì. Il resto di niente”.
“Fra un certo numero d’anni sarebbe giunta la morte. Forse suo fratello José, o Jéronimo, avrebbero continuato la stirpe dei Fonseca. Ma a lei cosa importava? Tutta la vicenda sua, e l’universo, finiti con lei. Cosa poteva rimanere? I versi? Se proprio non “facevano schifo”, come disse Primicerio, erano nulla in paragone a quelli di Metastasio, Rolli, Parini. Di costoro, forse, qualcosa resterà. Fra cent’anni, duecento: nel 1983, meu Deus! Ma di me? Nada de nada. Il resto di niente.”
“Folla ben vestita, le care musiche di sempre […]Incredibile: come se al mondo non stesse succedendo niente. Il resto di niente. La sera men che mai. Napoli sfodera la bellezza struggente delle sue notti estive. C’è persino la luna, altissima, tonda, sopra i monti Lattari. Ne tremola il riflesso sul mare, al di là dei bagliori vesuviani. Puntini di luce in tutto il golfo: sono le barche della notte, i pescatori a lampara. E barchini, castaldelle, gozzoni da diporto.”
“Riaprì il libro a una pagina segnata: “il cielo e la terra e le loro forze che turbinano intorno a me! Non vedo null’altro che un mostro il quale eternamente rumina ciò che ha divorato”. Noi facciamo parte di questo tritume cieco.”
Questo senso di impotenza nei confronti della Storia è lo stesso che trasmette la Bellonci in Rinascimento Privato e che già avevo sottolineato nella recensione di quel libro. C’è molto in comune con il libro della Bellonci, anche se epoche e storia e avvenimenti sono completamente diversi, ma le due protagoniste hanno molti tratti in comune, molte le riflessioni in comune e da parte delle due protagoniste e, ovviamente, da parte dei due autori.
Oltre al tema dell’amore per il sapere, ovviamente c’è l’imminente rivoluzione che aleggia sulla città: è più che un’atmosfera, è come una minaccia di eruzione del Vesuvio, che solo alla fine si scatenerà in tutta la sua violenza. Più nello specifico, si parla del problema della rivoluzione imposta dall’alto, dai colti al popolo ignorante e superstizioso - e questo contiene anche un po’ di questione meridionale: “Sempre il vecchio problema: s’ha diritto di far felici gli altri imponendogli quella che riteniamo felicità? Felicità comporta sacrifici, s’ha diritto di imporli a chi pensa che non valga la pena di farli? […] Forse bisognerà aspettare che queste generazioni di Napoletani man mano s’estinguano, carpire a esse i giovanissimi, quelli che cedono […] col tempo le impenitenti legioni s’assottiglieranno, si dilegueranno nel Mito: Napoli diventerà una città come tant’altre, civili, della Terra, abitata da un popolo istruito, educato, ragionevole, pronto a seguire quanto gli verrà intimato dai filosofi, da tutti quelli che vogliono dargli assolutamente la felicità.” Le frasi di Vincenzo Cuoco riassumono il senso e la storia della rivoluzione, non solo a Napoli ma di tutte le rivoluzioni: “Disse anche un’altra frase, che la colpì: “A Napoli la rivoluzione pochi la capiscono, pochissimi l’approvano, quasi nessuno la desidera” “L’idiozia dei nobili, del re, in Francia non poteva non scatenarla [la rivoluzione]. E’ più idiota voler far lo stesso in condizioni diverse: le rivoluzioni non s’esportano”.
Mi ha fatto uno strano effetto rileggere gli stessi posti e stessi avvenimenti letti ne La Sanfelice di Dumas, poco più di un anno fa, mi è sembrato come di vedere un remake, comunque ho fatto fatica a non fare continui paragoni. Rispetto Dumas i personaggi e protagonisti della rivoluzione qui sono più realistici, meno eroici e meno romantici, qui parlano in dialetto e non in maniera pomposa. Al tempo stesso, però, Dumas usa un linguaggio meno poetico e decide di prendersi la briga di spiegare la situazione nei dettagli, tutte le contingenze e i fatti anche minimi, racconta la rivoluzione giorno per giorno, direi quasi ora per ora. Voto finale alto, nel complesso è una lettura impegnativa, e certo l’impegno migliora sempre il gusto della lettura.
“Tutta la vicenda sua, e l’universo, finiti con lei. Cosa poteva rimanerne? I versi? […]nulla in paragone a quelli di Metastasio, Rolli, Parini. Di costoro, forse, qualcosa resterà. Fra cent’anni, duecento […]! Ma di me? Nada de nada. Il resto di niente.”
No, Lenòr, non è vero che di te e della tua vicenda non sia rimasto niente.I duecento anni sono trascorsi, tra gli inevitabili sobbalzi e scossoni della Storia, e ad essi s’è aggiunto persino altro tempo durante il quale il tuo ricordo non si è spento. Di te, oggi, rimane tanto, più di quanto tu stessa avresti osato sperare: le tue parole, anzitutto, sopravvissute su carta, i tuoi pensieri, idee nuove per quei tempi ancor vecchi, i tuoi “meu Deus” un po’ da bambina, il tuo amore per la cultura e lo sconfinato desiderio di apprendere, conoscere, capire; “la bellezza rara dell’ingegno e dell’anima”, come è possibile ti abbia elogiata qualcuno dei tanti amici che affollavano le stagioni della tua vita, di una donna che non faticava a trovare spazio in mezzo agli uomini proprio in virtù del suo cervello, il tuo saper guardare lontano, il coraggio nell’affrontare le conseguenze di ogni tua scelta, fino all’ultimo. “Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo”, si dice tu abbia avuto la forza di pronunciare sul patibolo: non forse, bensì di sicuro è utile non perdere memoria di ciò che accadde a te e alla migliore intellighenzia di quella terra che fin d’allora avrebbe potuto avere la possibilità di seguire un percorso diverso da quello che invece l’ha condotta all’oggi. Mi piace pensare che ancora si aggiri qualcosa di te, della tua essenza più profonda, tra i vicoli e le strade della tua Napoli tanto amata con tutte le sue contraddizioni, i suoi ordinati disordini, gli odori intensi, i suoni e i colori che si protendono verso lo spettacolo straordinario del golfo, all’ombra di quel vulcano “grande e indifferente” che riempì il tuo sguardo fin dal primo approdo. Peccato che tu non abbia visto il nuovo secolo, a varcare la cui soglia ti mancò davvero poco… Chissà se ti sarebbe piaciuto così come poi è stato; probabilmente, in parte, l’Ottocento delle nuove tendenze culturali, di cui forse percepisti il sapore nella sinfonia del giovane Beethoven ascoltata poco prima della fine, non di certo quello della restaurazione politica dopo le disillusioni della Rivoluzione francese e l’ubriacatura delle gesta napoleoniche. Ovunque, tuttora, ci sarebbe bisogno di donne come te, Lenòr: autentiche, straordinarie nella propria semplicità, tante fiere cittadine Fonseca che potrebbero ridare significato ai giorni di un mondo troppo spesso disattento, superficiale e ingiusto che davanti a sé ha ancora innumerevoli battaglie da affrontare.
Romanzo storico classico e tradizionale nella struttura, e lo stesso Striano riconosce il suo debito verso Aristotele, Tasso, Manzoni. Linguaggio “barocco”, gonfio, colto, ma incrostato di vivide espressioni dialettali; descrizioni sciorinate per accumulo di particolari. La vita di Eleonora Pimentel de Fonseca, raccontata dal suo arrivo a Napoli, ragazzetta vivace e curiosa, alla morte per cappio sanfedista e borbonico. Uno squarcio sulla città, dalla metà del ‘700 al tragico epilogo della Repubblica Napoletana. Nulla di particolarmente forte, detto così. Ma perché questo romanzo mi ha preso l’anima, mentre i promessi Sposi non li riesco proprio a digerire? Basta l’identificazione nella figura femminile, la Lenòr che cade ma si rialza, che è tormentata ma risoluta, che spera ma agisce? Basta la familiarità con i luoghi, con le espressioni colorite? Basta la possibilità di vedere un ponte tra passato e presente, la persistenza del lazzaro che è sempre uguale a se stesso, non più scalzo, ma con telefonino e motorino, pronto a servire il “re” purchè gli si offra la possibilità “dell’arricchimento” (il saccheggio impunito)? E la persistenza di una classe di intellettuali divisa, autoreferenziale, vibrante di spasmodici slanci ma incapace di progettare il futuro? Questo non basta a rendere “Il resto di niente” un romanzo straordinario. Nonostante il cupo pessimismo che vi si agita, fra il marciume del cibo e il libertinaggio dei costumi, dionisiaca danza, domina il valore incalcolabile della speranza come atto di fede nella possibilità di cambiare il mondo, di portare il nuovo. Fede totalmente laica, umana. E’ questo che rende speciale il romanzo di Striano. Grande metafora sul bisogno degli animi belli di trasformare in meglio il nostro mondo, nonostante le cadute, le incertezze, il dolore. Anche se la ragione porta a dire che di tutti gli sforzi non rimane che il resto di niente, dentro, nell’animo, ti sembra di dover raccogliere il testimone. Un grumo di dolore e speranza. Miliare.
«- L’àsteco chiove, ‘a casa scorre. Tu che ‘nce può fa? – Nulla, proprio nulla, nada de nada… il resto di niente» Lo so, forse non è il luogo adatto, ma sento il dovere di farlo. Oggi, 17 marzo 2020, ho finito di legere in due giorni questo libro e l’ho fatto stando comodamente seduto sul divano ascoltando musica, al sicuro, a casa mia. E questo lo devo a tutti coloro (e sono tanti) che mentre io stavo a casa in ferie e in salute, hanno lavorato, rischiando la loro di salute, per la mia sicurezza e il mio benessere. Voglio ringraziarli tutti (da medici e infermieri alle commesse dell’esselunga, dalle forze dell’ordine ai giornalisti, e molti altri ancora). Grazie. Il libro. Dalla prefazione «… Striano riesce ad intuire, in visionaria previsione, che il suo romanzo sarebbe stato scelto da un pubblico proteso in uno sforzo di comprensione della città, consapevole di dover cercare, molto oltre il naturalismo e il “napoletanismo di maniera”, “indietro nel tempo le radici dell’oggi”.». Striano racconta dei moti partenopei del 1799 e del fermento culturale e politico di una sparuta pattuglia di intellettuali, politici, poeti napoletani, che avevano guardato con trepidante partecipazione alle vicende della rivoluzione francese del 1789. Lo fa narrando di Eleonora de Fonseca Pimentel, giovane nobile portoghese, nata a Roma nel 1752 e giunta a Napoli con la famiglia appena qualche anno dopo. «Da Napoli non si sarebbe più mossa. Vi alitavano savia comprensione, indifferenza gentile, meglio ancora supremo senso della vita, in equilibrio fra pietà e disincanto. Tutto (dal grande e nobile, al futile e meschino) acquistava preziosità inestimabile ma, al tempo stesso, non valeva nulla. Ciò rendeva liberi, indipendenti.». I personaggi di Striano parlano il dialetto stretto dei “lazzari”, l’italiano, il francese, il portoghese, il latino. E l’uso delle lingue risulta emblematico delle mille sollecitazioni e contraddizioni di una società del ‘700 napoletano che, pur illuminata da intellettuali e artisti quali Mario Pagano, Vincenzo Cuoco, Cimarosa, Paisiello, Vanvitelli, era da sempre repressa e annichilita dalla politica delle tre “F” di “Re Nasone”. «E poi – sospira Cammarano, tornando a sedere, --Pulcinella non è un tipo allegro.Sa le cose nascoste. Ca la Repubblica adda ferni’, come finisce tutto, ca ll’uommene se credono de fa’ chesto de fa’ chello, de cagna’ lo munno, ma non è vero niente. Le cose cambiano faccia, non sostanza: vanno sempre come hanno da ì. Comme vo’ lo Padrone. Lo munno non po’ gira’ a la mano smerza. Lo sole sponta tutte li mmatine e po’ scenne la notte, la vita è ‘na jurnata che passa: viene la morte e nisciuno la po’ ferma’. Perché è de mano de lo Padrone: di Dio. Pulcinella queste cose le ha sapute sempre, come volete che si metta a fare il giacobino ? Lo po’ pure fa’, ma solo per far ridere, per soldi. Isso non ce crede.». Meu Deus , Lenorzinha, tio Enzo ti ha raccontata meravigliosamente e attraverso te ho conosciuto un po’ meglio una città che amo.
"Il resto di niente" è un intercalare napoletano che sta a significare "nulla di nulla". Ed è un titolo quantomai adatto per questo libro, perchè questa è la storia vera di due fallimenti: di una vita e di un sogno. La vita è quella di Eleonora de Fonseca Pimentel, ultima di una famiglia della piccola nobiltà decaduta portoghese, giunta a Napoli al seguito del padre alla ricerca della salvezza dalla miseria incombente. Questo nonostante Napoli sembra essere una scelta giusta, perchè la città partenopea alla fine del diciottesimo secolo è al massimo del suo splendore. La monarchia illuminata (?) dei Borbone è impreziosita dalla musica di Pergolesi e di Paisiello, il dibattito culturale da Vico in avanti è vivo e moderno, non mancano intellettuali non asserviti al potere come Vincenzo Cuoco e Mario Pagano. Ma... Ma arriva il sogno proibito, il vento rivoluzionario che spira dalla Bastiglia e che prenderà la testa dei Borboni di Francia. Il sogno di fare di Napoli la repubblica figlia, il sogno di perseguire una libertà non cortigiana, non ultimo il sogno di sollevare dal loro stato di miseria fisica ma soprattutto spirituale i Lazzaroni, i miserabili che circondano la città campana vivendo di espedienti e di quello che la corona passa in cambio della loro fedeltà. Ed anche quì alla fine quando la flotta dell'ammiraglio inglese Nelson arriverà, cosa resterà del delirio di pochi squattrinati idealisti? Niente. Il resto di niente. Era parecchio tempo che aspettavo un libro come questo: perchè fin da quando ci sono entrato ventenne, Napoli è sempre stata un mistero. Che ne è stato della città di Vico, di Paisiello, di piazza del plebiscito? Da dove viene questo compiacimento rassegnato? Questa chiagneffottistica morale del parassita, e come può sposarsi tutto questo con la spumeggiante energia, con la luminosissima voglia di vivere, con lo sfavillante panorama del golfo che ogni napoletano porta negli occhi, anche il più misero? Proprio perchè la Napoli della repubblica partenopea era nella mia mente il contrasto più stridente con quanto avevo visto mi interessava leggerne. E lo spaccato che Enzo Striano ci offre è documentatissimo come un saggio, ma non privo di dolce poesia. Numerosi e profondi sono i personaggi che si muovono nel dettagliatissimo scenario di questa tragedia, indimenticabili sono gli appartenenti al popolo minuto. Dalla miserabile graziella cresciuta lazzarona e diventata prostituta nei fetidi quartieri popolari, che fino all'ultimo non nega la propria fedeltà alla disgraziata Eleonora Pimentel; alla popolare maschera Pulcinella che proprio allora prendeva vita nell'immaginario popolare regalando sprazzi di quel sentire che chi guarda Napoli da fuori non riesce a capire. Purtroppo l'arte di narrare non è all' altezza di quel tesoro di storia che triano vuole raccontare. Il periodare è pesante, il lessico prolisso e ridondante. Soprattutto nella prima parte descrittiva le pagine girano pesanti come macigni. Ho apprezzato molto che Striano si sia reso conto quanto sia importante per rendere un'atmosfera restituire al lettore anche la ricchezza linguistica di una città. Francese, inglese, napoletano sono tutti resi, ma la sfida di farlo non andando a scapito della comprensibilità fallisce miseramente. Io non parlo una parola di francese, ho dovuto rinunciare a leggere alcuni importanti dialoghi. La mancanza di questo sforzo, insieme con la dichiarazione finale che chiama in causa nientemeno che Aristotele e Manzoni, la trovo di una supponenza inaudita, un flagrante peccato di superbia artistica. Ed al lettore che vorrebbe capire un po' la Napoli di oggi guardando alla Napoli di allora, resta "il resto di niente"? Penso di no. Quella città come questa mancava completamente di ambizione, e questo sta alla base del suo declino. Ad una monarchia conservatrice e parassitaria non fa da contraltare una borghesia ricca, istruita ed in vertiginosa ascesa, bensì il popolo napoletano ignorante e retrogrado, fatto di lazzaroni che non cercano una libertà di cui capiscono il disagio e la responsabilità ma non la dignità; obiettivo della loro vita è trovare di che sopravvivere col minor sforzo possibile asservendosi al potere che c'è da sempre: per poter portare avanti la vita in quel meraviglioso paradiso che la sorte ha dato loro in dono. Pernicioso potere di una terra troppo bella. Senza i denari della classe borghese, giunti ad un potere figlioccio di una rivoluzione lontana, portatori di ideali dei quali il popolo ha paura e che rifiuta, di Eleonora ed i suoi amici cosa può restare? Niente. Il resto di niente. E mi viene da ipotizzare. Quando il feroce avvento della modernità consegnerà Napoli a casa Savoia facendo cadere l'anacronistico regno borbonico, i lazzaroni si consegneranno nelle mani della borghesia industriale del nord. Ma è irrealistico pensare che costoro non abbiano chiesto nulla in cambio, e mi viene da pensare alla terra dei fuochi...è solo un mio pensiero, però... Al di la del fatto che il suo stile è pesante e scolastico, che non si cura in nessun modo di semplificare la vita a chi legge, è una storia utile e bellissima. Che mi manda in bestia come ogni romanzo verista: nel raccontare la triste fine di Eleonora, di Mario Pagano, di Ciaia l'autore sembra consegnarci una compiaciuta morale dell'ostrica, sembra assumere un granitico atteggiamento di neutralità conservatrice da cronachista storico, non consegna al lettore nessuna chiave di lettura per uscire dall'impase, nessuna opinione, nessun sogno. Ma a che serve un romanzo senza tutto questo? Cosa me ne faccio di un creatore di mondi se il suo dichiarato intento è quello di non creare nulla? A che serve uno sforzo creativo se esso stesso diventa paladino della conservazione, se non ha il coraggio di un'idea al punto da sentire il bisogno di chiudere il libro con una tronfia giustificazione di quel poco di romanzesco, per di più fondata su uno stantio ipse dixit? Sono sempre più convinto che il verismo abbia fatto all'Italia del Sud danni almeno pari a quelli degli Aragonesi, dei Borboni e dei Savoia messi insieme. Professor Striano, come si è potuto permettere? Un lettore non è un alunno, e queste libertà non sono concesse. Tre stelle.
Con questo romanzo storico, che reputo un capolavoro, Enzo Striano ci racconta con maestria la vita di Eleonora De Fonseca Pimentel e di riflesso ci porta a conoscere un mondo ed un'epoca storica che non fatichiamo a raffrontare agli anni che viviamo. Oltre che la vita della sfortunata Lenòr, "Il Resto di niente" è la cronaca amara di una disillusione e di un fallimento. L'incapacità dell'intellettuale di rapportarsi con il popolo, coi "lazzaroni" in questo caso. Striano riesce a farci appassionare alle vicende della Repubblica Napoletana, narrando con grande perizia linguistica le sfortunate vicende dei valorosi patrioti partenopei. Ogni frase, ogni parola è cesellata in modo da renderci protagonisti e testimoni degli atti narrati. La prima volta che visitai Roma dopo aver letto il libro, andai alla ricerca dei luoghi natali di Eleonora e seppur dopo tanti anni riuscii a percepire qualche indizio della città di quel periodo e con grande emozione trovai, in Via di Ripetta, dove nacque, una targa che la ricorda e da allora ogni volta che mi trovo a Roma non manco mai di passare per recarle un saluto.
Questo romanzo straordinario, strutturato su diversi livelli e che dovrebbe essere studiato nelle scuole, getta nuova luce su di un episodio fondamentale della nostra nazione. La Storia non si fa con i se (anche se lo storico inglese Robert Cowley, in un suo famoso saggio, si è divertito ad ipotizzare cosa sarebbe successo, per esempio, Se Napoleone avesse vinto a Waterloo) ma se il coraggioso tentativo di libertà vagheggiato da Eleonora e dai suoi amici fosse riuscito a prevalere contro le armate retrograde dei Sanfedisti, penso proprio che vivremmo in un mondo migliore. Come dicevo, il romanzo ha diversi livelli di lettura, da quelli prettamente politici a quelli storici, passando per il vissuto personale di una donna, coraggiosa e fragile, travolta dall'onda impietosa della grande Storia. "Il resto di niente" è l'autobiografia di una nazione che poteva essere e non è stata, con grande rimpianto dei posteri ma mi chiedo se ci potessere mai essere stata una soluzione diversa. Questo è il grande interrogativo che Striano ci lascia e che ci fa concludere che "De te fabula narratur"
Eleonora Pimentel de Fonseca di origini portoghesi e napoletana d’adozione è la protagonista di questa biografia romanzata. Siamo nella Napoli di fine settecento, gli anni dell’illuminismo e della rivoluzione francese. Anni che hanno suscitato speranze e voglia di riscatto alle popolazioni oppresse dai regimi assolutistici di sovrani spesso dispotici e crudeli. Anche in Italia sono giunte le eco di quanto stava avvenendo oltralpe. In primis nel Regno delle Due Sicilie, un regno giovane fondato da potenze straniere e da potenze straniere sostenuto. Qui un gruppo di menti illuminate ha dato vita a un movimento rivoluzionario che avrebbe dovuto, nelle intenzioni, elevare lo stato sociale e il livello culturale del popolo. Eleonora era una di queste menti che si è trovata, forse non sempre consapevolmente, a rappresentare un ideale di libertà e di giustizia sino ad allora ai più sconosciuto. Come molto spesso però è accaduto nella storia gli “ideologi” di questi movimenti furono degli idealisti a volte imprudenti o incoscienti e votati al sicuro “martirio”. E così è stato anche per i fondatori della Repubblica Partenopea. Erano persone provenienti dalla nobiltà o dall’alta borghesia quasi totalmente avulse dalla cognizione della condizione delle masse, nella quasi totalità analfabete e indifferenti ai grandi ideali a cui i rivoluzionari si affidavano, soggiogate da un clero oscurantista e retrogrado, alle quali bastavano poche promesse per essere sedotte. Infatti alla resa dei conti il popolo è stato dalla parte di chi gli prometteva quella “tranquillità” necessaria per vivere sereni e senza problemi anche se soggiogati. L’esperienza rivoluzionaria durò poco e come avverrà cinquant’anni dopo con la Repubblica Romana il tiranno ritorna con l’appoggio di un esercito straniero. Ritorna ed è vendicativo, crudele e in pochissimo tempo elimina tutte le teste pensanti. Menti raffinate che avrebbero potuto dare contributi notevoli al progresso della nazione napoletana o dello stato nazionale che si sarebbe formato da lì a pochi decenni. Eleonora, trovatasi in pericolo, avrebbe potuto fuggire ma non lo fece. Anche se tentata non teme l’arresto e le conseguenze di questo (“Stavolta, stranamente, questo pensiero non dà angoscia. Forse perché nelle pieghe misteriose dell’anima, sente giunto il finale conseguente di tutta la vicenda. E’ venuto il tempo. L’altra volta si disperava perché sapeva che non tutto era ancora scritto. Ora no. Mo’ non c’è proprio più niente da fare. Il resto di niente. Sarebbe bene prepararsi, ha ragione Luigi”). Il fuggire, per lei, sarebbe stato più semplice, ma avrebbe comportato venire meno ai suoi ideali, in un certo senso non essere di nuovo libera di operare le proprie scelte in piena autonomia che era poi una delle cause per cui aveva lottato e sofferto (“Ecco: ancora una volta, nella mia esistenza, c’è qualcuno che sceglierà per me. Mi disegna il destino. E io mi piegherò. Com’è avvenuto sempre, come, in fondo, mi ha fatto sempre comodo. E’ così vantaggioso non decidere! […] sbotta, con marcata alterigia. ”). Eleonora, come quasi tutti gli altri esponenti della Repubblica Partenopea, pagherà con la vita questa sua coerenza. Non si sottrarrà alla sorte, lotterà fino all’estremo sacrificio e diventerà un personaggio (come i fratelli Bandiera, Carlo Pisacane e altri) che apriranno la strada al Risorgimento anche se spesso, come altre donne (Cristina di Belgioioso, la Contessa di Castiglione ecc.), non verrà adeguatamente considerata e relegata in disparte in un angolo della Storia.
Si può dir che è ..Noioso? Libro drammatico..d'altra parte è un romanzo storico,e la storia si sa..non è mai tenera con i sui protagonisti.Una protagonista eroica.E poi...il resto di niente.Noioso.
«Non mi muoverò più di qui, lo sento: in questa città mi toccherà vivere, forse vi vedrò nascere i miei figli. Ci morirò, infine, e vi verrò sepolta».
E così fu. Eleonora de Fonseca Pimentel, Lenòr per gli amici, è la protagonista di questo superlativo romanzo di un grande autore poco conosciuto. Con lei, Napoli, allora capitale del Regno delle due Sicilie. Una capitale con il suo splendore, le sue miserie e le sue molteplici contraddizioni. Da un lato gli illuminati, i colti, gli intellettuali giacobini che sognano il riscatto –come a Parigi-, dall’altro la nobiltà e gli intrighi di corte. Infine il popolino, i lazzari poverissimi, ignoranti, sottomessi, e tuttavia liberi e felici di quella povertà e sottomissione. Fu un “gioco” il sogno dei giacobini partenopei?, si chiede alla fine la protagonista. Fu un gioco “alto”, sì, troppo alto per quel tempo. Una grandiosa utopia di cui non rimase niente. Nada de nada, il resto di niente. Napoli non era Parigi. Lenòr se ne accorge in anticipo rispetto ai suoi appassionati compagni d'avventura, si rende conto di partecipare ad un gioco assurdo, “recitato” da uomini bambini. Ciò nonostante, non li abbandona e resta sulle barricate sino alla fine.
Quale altro “gioco” mi ricorda questa rivoluzione bambina? Cos’è che è stato definito, recentemente, un “tool”, un “giocattolo” in chiave politica? Prendiamo questo stralcio. Ferdinando, il re lazzarone, è fuggito a Palermo con tutta la corte e soprattutto la cassaforte. Championnet -a capo dell’esercito francese- si è insediato a Napoli dove viene proclamata la Repubblica Napoletana. Ma la stragrande maggioranza della popolazione è rimasta fedele al re. “Quando la cattedrale fu zeppa, arrivò Championnet. Percorse a passo lento e rispettoso, col seguito, il lunghissimo tappeto rosso fuoco che menava all’altare, qui s’inginocchiò devotamente, pur senza farsi il segno della croce. Poi andò a baciare la mano al cardinale, che l’aspettava in piedi, presso il busto d’oro di san Gennaro, splendente avanti il tabernacolo. […] D’un tratto il cardinale, che teneva gli occhi fissi sulle ampolle, ebbe un moto di sorpresa. Lo si vide sorridere, levar le braccia in alto, poi venne avanti ostentando le fiale con aria rapita, intonò: Te Deum laudamus…, seguito dal coro eccitato di tutti. L’organista pigiò più forte sui tasti. Championnet si levò a osservare le ampolle, si protese in un bacio raggiante. La folla ebbe fremiti contrastanti: molti applaudivano, altri protestavano”.
Di fronte al miracolo di san Gennaro, perfino i giacobini si inchinano. Non c’è gara. E’ accaduto anche qualche mese fa. Qui è spiegato bene, sebbene nell'excursus sia stato dimenticato proprio il nostro generale francese ;-) https://www.ilpost.it/2017/09/20/di-m...
“Com'è strana la Storia, a un tratto t'accorgi che respiri aria diversa. Non sai dire in che: tutto va come prima, però senti che le abitudini han preso confortevole, smorta eternità. Frizza irrequieta attesa d'avvenimenti ignoti”
4 stelle abbondanti e sento già che meriterebbe una rilettura più approfondita (che conoscendomi non farò).
«Non mi muoverò più di qui, lo sento: in questa città mi toccherà vivere, forse vi vedrò nascere i miei figli. Ci morirò, infine, e vi verrò sepolta». Con queste parole sceglie la propria patria d’adozione la marchesa Eleonora de Fonseca Pimentel, protagonista del romanzo storico di Enzo Striano. Trasferitasi ancora bambina dal Portogallo a Roma e poi a Napoli per sfuggire alle persecuzioni contro i giansenisti, la giovane “Lenòr” così preannuncia il suo destino, ormai legato a Napoli, viva e pulsante capitale del Regno delle Due Sicilie. Poetessa, scrittrice e giornalista di grande talento, sarà amica di filosofi e letterati tra i più importanti del suo tempo. Coinvolta nella Rivoluzione partenopea del 1799, darà il suo significativo contributo al tentativo di creare un mondo migliore firmando “Il Monitore Napoletano”, ma pagherà con la vita, insieme agli amici più cari, il suo amore per la libertà. Protagonista del romanzo, accanto ad Eleonora, è la capitale partenopea, con il suo splendore, le sue miserie e le sue molteplici contraddizioni: la nobiltà, più o meno colta, favorevole o meno a una rivoluzione, sempre intenta a sperperare e a spettegolare sulla regina, l’austriaca Maria Carolina; i lazzari, il vivace popolo napoletano, povero, ignorante, sottomesso, e tuttavia libero e felice in quella povertà, in quell’ignoranza, in quella sottomissione, pago del sole, del mare e della sua bella città; intellettuali provenienti da ogni classe sociale, vivaci, brillanti e ansiosi di andare incontro al futuro sulla scia degli avvenimenti francesi. Nella rappresentazione dei diversi “mondi” napoletani nulla è lasciato in ombra da Striano, né gli intrighi della corte né la spaventosa miseria dei lazzari: tutto è descritto con implacabile veridicità. E da ogni realtà di Napoli provengono i numerosi e variegati personaggi che circondano Lenòr, ciascuno dotato di una ricca caratterizzazione: Vincenzo Sanges, suo precettore ed amico nella prima giovinezza, l’aristocratico Gennaro Serra, che invece le sarà accanto nella parte finale della sua vita e con il quale Lenòr condividerà la tragica fine; Ferdinando, "il re lazzarone”, rozzo, ignorante e solito trascorrere le sue giornate nei bassi della città, con i pescatori e i popolani; la regina austriaca Maria Carolina, malvista da tutti e sempre al centro di scabrosi pettegolezzi nei salotti napoletani. Particolare attenzione merita Graziella, domestica di Lenòr, emblema dei lazzari e della loro condizione, con la quale la marchesa tenterà senza successo di avviare il suo progetto di educazione del popolo. Tutti loro e molti altri gravitano intorno a Lenòr, personalità complessa e affascinante, presentata non soltanto come intellettuale ed eroina della sfortunata repubblica partenopea, ma anche e soprattutto come donna, attraverso il suo percorso di crescita, le sofferenze, gli amori, le amicizie, l’appassionato impegno ideologico: tutto è visto attraverso i suoi occhi. La vivacità del mondo napoletano è perfettamente rispecchiata dallo stile: brioso, ricco ed elaborato, ma anche scorrevole e dinamico, incalzante nei momenti più drammatici, minuzioso e attento nelle descrizioni che coinvolgono tutti i sensi del lettore nell’universo di odori, colori e sapori della città. La narrazione è poi ulteriormente vivacizzata dalle frequenti analessi e prolessi, da una miscela di linguaggi differenti, dialetto romano e napoletano, inglese, francese, spagnolo, portoghese, e dall’utilizzo del discorso diretto e indiretto libero, che semplificano i periodi e conferiscono loro rapidità. Il resto di niente cerca di dar voce a un momento fondamentale della storia napoletana, ai motivi e alle cause di una rivoluzione, alle speranze di chi l’ha fatta e alla delusione del fallimento. Gli intellettuali partenopei, principali artefici della repubblica, portarono Napoli in una posizione di primo piano nel movimentato panorama politico europeo di fine Settecento, incoraggiati dall’esempio della rivoluzione francese, ma fallirono nel loro intento perché non supportati dal popolo, che in Francia era stato l’anima della rivoluzione, ancora troppo legato alla figura sacra e paterna del re. Dalle pagine di Striano emerge così una Napoli bellissima e maledetta, lacerata dalle contraddizioni e condannata ad un immobilismo storico in cui annega ancora oggi. Ciò che resta, alla fine, è solo disillusione. «Come dicono i napoletani per significare nulla, proprio nulla, nada de nada?», si chiede Lenòr. «Ah, sì: il resto di niente».
Well, because I did 'really like it'. Why not five stars? Because I was, at times lost. Of course, this is through little to no fault of the author, it's just that although my Italian is (arguably) 'excellent', and my French is okay... I speak little to no Portuguese, and my knowledge of the Neapolitan dialect leaves a lot to be desired.
The story itself was amazing. The experience of Napoli from the point of view of a Portuguese immigrant was delightful, and at times tragic. The various heartbreaks and emotional happenings that we bear witness to throughout the life of 'Lenor' are stirring, and sometimes very sad. We're led through her whole life..her friendships, relationships, and also her unhappy marriage.
I thought the style that the book was written in made it a pleasure to read, at times I could not bear to read through some of the paragraphs describing the banquets because I was so hungry. (Fonseca's festa, or when Lenor & co. ate on the boat) I bought this book in Napoli, and read it after leaving the beautiful city. I think this fact is something that contributes to my affection felt for the people, the places, the storyline. I suppose that if you have never been to Napoli, it is very hard to associate any of the beautifully described scenery with the Naples represented in the media these days... but these places do exist. They still stand, albeit amongst blocks of houses, or restaurants, or bars...the castles are still all there. Napoli still retains some of distinct 'cultural separation' described in the book, which is something that I found fascinating. I don't remember the exact line, but at a certain point, Lenor wonders if the public want freedom, she questions whether the people might just be happier, in the protection of their deep alleys and trips to the seaside...without questioning, or asking themselves what freedom is.
The book also served to remind me of an intellectual's place in the world. Even if we're not the smartest person in the world, it's still our responsability to better the world...we're the lucky one's who've had some sort of education. We're the one's who can improve what we think is wrong..or fight for a cause that we believe will bring freedom, or that is right. We just have to be sure that the cause, or that our convictions are truly righteous.
I did love this book, and I'm planning on watching the movie maybe later tonight...we'll see how that holds up in comparison.
I would definitely reccommend this book to someone who is interested in any sort of European Literature or Euro-History. It's not an easy read, but it's definitely insightful, and an absolute pleasure to work your way through.
I've lived in Naples for a month now and was thrilled to read this novel, which seems to be something an enshrined local classic mostly unknown outside of the intellectual circles of the city. I was notified of its existence, and it was recommended as an interesting adjacent read by Silvio Perrella in his afterward to Ermanno Rea's Mistero napoletano. Indeed, the two books paired well together--and I also endeared myself to my local used book seller by asking for it; he was so pleased to sell this super Neapolitan novel to a new resident and it allowed me to introduce myself and feel that much more at home in my new city of residence.
The reason that a nonfiction book about a Neapolitan communist's suicide during the cold war is adjacent reading to a novel about the Jacobin revolution in Naples of 1799 and the life of Eleonora de Fonseca Pimentel is that, as is the case with most historical novels, Striano is both turning history into literature as well as opening a broader meditation on his own period--exactly that of Cold War Communists of Naples in the 1950s and '60s--about how one wins over the hearts and minds of the vast army of the poor and disenfranchised of this amazing city in order to enact actual revolutionary political change. Also, rather coincidentally, when Rea, disillusioned by the Stalinist tactics that eventually helped to sink Italian Communism, especially here in Naples, left the city for greener pastures, it was Striano who replaced him at L'Unita', the Italian Communist daily paper, working alongside Francesca Spada, the subject of Mistero napoletano.
Although the novel wasn't published until 1986--the same year I first visited Europe and fell in love with Italy, where I've lived continuously now since 1997--the Cold War was still pretty much in full force, even if the coming fall of Soviet Communism was surely brewing. Francesca Spada was by then long dead, and this novel, recounting the glorious failure of the Neapolitan intelligentsia to wrest the feudal kingdom from its rather decadent rulers and give Southern Italy's capital and largest kingdom over permanently to U.S. and French-inspired democracy, seems almost prophetic for the post-war Communists who dreamed of building a more just society after the fall and defeat of fascism. (Inbetween these two books I read Curzio Malaparte's wonderful half reportage/half novel about the American army's occupation of Naples and Italy at the end of WWII, Skin, and thus saw quite clearly how close that army's role was to that of the French army's sad abandonment of Naples in 1799, which allowed the king to return, only to be chased away again by Napoleon later, and then finally restored permanently. Sadly, it would take another half century and the unification of Italy to finally rid Naples and the south of its Bourbon ruling family. Similarly, the Americans basically commandeered Naples for NATO, stealing its port for their own military bulwark against the USSR, reinstating the least competent (or the least criminally culpable) Fascists to positions of power as part of the new Christian Democratic government of Post-war Italy, effectively hobbling the Italian Communist Party and turning it into the ineffectual loyal opposition that it remained until splintering after the fall of the Berlin Wall and dissolution of the USSR in 1992.
Now, in 2022, the history of the glorious revolution of 1799 returns as the main subject of the novel, its subtext already become almost as historical as its original subject, and it's indeed winningly written as how that revolution was experienced by one of its protagonists, in a quite personal and sensory way. The novel is also a wonderful hymn to the city itself, and I've been walking its streets these last few weeks recognizing (or seeking out) sites that are key to the narrative, seeing the streets and buildings with new eyes, knowing now how these historical evens unfolded in them some 200 years ago. Completely by chance, I took my son and his girlfriend to the Castel Sant'Elmo yesterday and returned to the city down the Petraio stairs, retracing Eleonora's flight backwards that ends the last chapter, which I read today. While it's fun to go to places described in novels, it's extra-interesting to go to places with actual historical significance, and history is often best told in the form of fiction, which can turn objective reportage into something much more affecting and visceral.
All the while I read I've been toying with the idea of translating this novel, which seems like a mostly local treasure. (There was a film made of the novel in 2004, but my bookseller told me to avoid it like the plague.) Perhaps on the coat-tails of Elena Ferrante, Naples might be more marketable these days--and, in the wake of the insurrection last year I should think Americans might be interested in just how hard the struggle was to depose the kings, and how much blood was shed, for democracy to come to dominate most of the Western World. One thing that's really fabulous about this novel is its linguistic cornucopia. Since the Fonseca family were exiles from Portugal, there's a smattering of Portuguese in our protagonist's head as she learns first Romanesco and then Napolitano. The narrative is of course written in standard Italian, but our vast array of learned characters also use snatches of Latin and much French since they favor the revolution there. There's even a wonderfully fun passage in which the conquering French general address the plebe of the city in a wonderful mix of French and bad Italian. All of this would make for a challenge, certainly, to a translator, but also a fun puzzle to attempt to reproduce in English. Even the title, literately "The remains of nothing," is a transliteration into Italian of a common Neapolitan phrase meaning pretty much "less than nothing." Although this mantra, which returns as a phrase often over the course of the novel, might seem pessimistic, I think it's the measure of ideology: what remains of ideas worth dying for? What remains of the intellectual when they are forced to die for an ideal? Maybe less than nothing--but also maybe ideals are everything too since, well, we all die sooner or later.
«Donna Lionò, compatite il mio pensiero. Pulcinella è 'no povero ddio. Un uomo di niente, un pezzente, un vigliacco. Uno che pensa solo a salvarsi la pelle nelle disgrazie che lo zeffonnano. Perciò è arraggioso, fetente, mariuolo, arrepassatore. Non è un eroe. Voi lo vedete che ca se mette 'ncoppa a 'na cascia alluccanno?» Il vecchio si leva in piedi. Senza volerlo assume l'aria del palcoscenico, fa la voce nasale di Pulcinella. «Citatine! È nata la Ripubbreca... La Repubroca... La prubeca... Mannaggia lo cascione, comme canchero se dice 'sta fetente de parola?» [...] «E poi,» sospira Cammarano, tornando a sedere «Pulcinella non è un tipo allegro. Sa le cose nascoste. Ca la Repubblica adda ferni', come finisce tutto, ca ll'uommene se credono de fa' chesto, de fa' chello, de cagna' lo munno, ma non è vero niente. Le cose cambiano faccia, non sostanza: vanno sempre comme hanno da ì. Comme vo' lo Padrone. Lo munno non po' gira' a la mano smerza. Lo sole sponta tutte li mmatine e po' scenne la notte, la vita è 'na jurnata che passa: viene la morte e nisciuno la po' ferma'. Perché è de mano de lo Padrone: di Dio. Pulcinella queste cose le ha sapute sempre, come volete che si metta a fare il giacobino? Lo po' pure fa', ma solo per far ridere, per soldi. Isso non ce crede».
Le due protagoniste de Il Resto di Niente sono Eleonora Pimentel de Fonseca e Napoli. Di entrambe viene fatto un ritratto preciso, nel bene e nel male. Di entrambe emergono le comuni forze (la generosità, la resilienza) e debolezze (l'abbandonarsi a un destino che nessuna delle due è convinta di poter cambiare, il lasciare che siano gli altri a decidere per te le cose più importanti). Entrambe sono umane, molto umane, e partecipano e assistono a una Repubblica effimera e un po' sgangherata, napoletana anche in questo. Il Resto di Niente è la storia di un fallimento, il fallimento di un progetto che però non si può non guardare ammirati, perché in una città che da sempre (e tuttora, ahimé) vive nella convinzione che "Accussì adda ì", il semplice fatto che ci sia stato un gruppo di persone che ha negato questo principio e ha dato la vita perché le cose cambiassero in meglio... è meraviglioso. Non c'era verso di farla funzionare, e se quella Repubblica fu proclamata in fondo è stato più per l'incastro di coincidenze favorevoli che per altro, però c'è stata. Così come anche oggi ci sono tanti napoletani che impiegano tutte le loro energie perché ciò che non funziona arrivi finalmente a funzionare, e chissà che un giorno non si riesca a scardinare il pessimismo cosmico di un popolo pur così gioviale. Ma sto divagando. È che questo romanzo mi ha riportata a casa, mi ha fatto rivedere piazze, castelli, palazzi, teatri e vicoli che dal '700 ad oggi non sono cambiati poi così tanto, mi ha immerso in un'atmosfera che in buona parte è ancora viva e presente. Striano ha saputo far emergere tutti i colori, i suoni, i sapori e gli odori di Napoli, nel bene e nel male, e l'ha fatto per giunta attraverso gli occhi di una donna che Napoli la ama, che in Napoli ha trovato un posto cui appartenere e per il quale morire. Non c'è da stupirsi che un'emigrante come me ne sia stata completamente risucchiata.
Il romanzo in sé me l'aspettavo diverso. Pensavo che si sarebbe concentrato molto di più sugli avvenimenti della Repubblica Napoletana, che invece arriva solo verso la fine e sulla quale tanto viene omesso o riassunto in breve. Non mi ha convinto questo andamento così episodico, questo saltare giorni, mesi, anni, concentrarsi talvolta su fatterelli poco importanti e volare un po' in fretta su momenti fondamentali. Però non posso proprio dire che non mi sia piaciuto. Anche lo stile, ostinatamente privo di congiunzioni e pieno di omissioni, nelle prime pagine non mi convinceva affatto ma poi è riuscito a prendermi. E ho apprezzato molto la scelta di un uso realistico della lingua, che passa dall'italiano al napoletano al francese al portoghese (e altre ancora) in base a momenti e personaggi. Una ricchezza linguistica che esemplifica la ricchezza culturale di Napoli e le mille influenze che lei e i suoi abitanti hanno subito e accolto nel corso dei secoli. Certo, l'assenza di traduzioni e note può rendere la lettura davvero complessa, non solo per i non napoletani ma anche semplicemente per chi non mastica il francese, lingua nella quale si svolgono dialoghi importanti per la trama e la Storia. Personalmente sono riuscita a cavarmela, ma non mi va mai a genio quando un libro viene scritto ed editato in modo da non essere accessibile a tutti.
Insomma, la quinta stella manca perché avrei preferito una trama e uno stile più fluidi, e auspicato traduzioni e note almeno per i passaggi più importanti, ma resta un libro che mi è piaciuto molto e che consiglio (tranne forse che ai napoletani permalosi).
Il titolo del romanzo riprende un'espressione napoletana riferita a quel nulla che sembra caratterizzare la rassegnazione della città partenopea e su tutto, quello lasciato dall'amara esperienza della Repubblica napoletana del 1799, sostenuta da alcuni illuministi locali e tra tutti, la marchesa Eleonora Pimentel De Fonseca. Dall'arrivo a Napoli in giovane età sino alla triste conclusione della sua vicenda, il rincorrersi dei fatti che la vedono protagonista è vista dai suoi occhi da donna letterata e generosa, con sapiente manipolazione della materia storica da parte di Striano. Altri punti di nota sono la scrittura senza intoppi e la rappresentazione pittoresca che l'autore offre di Napoli tra colori, odori, sapori, caratterizzazioni e l'alternanza azzeccata di lingue.
"Il resto di niente" non è solo un romanzo storico centrato su Eleonora de Fonseca Pimentel, Lenor. In realtà i protagonisti sono 3 ed indissolubilmente legati: da un lato Eleonora; dall'altro Napoli, città eternamente in bilico tra splendore e degrado; ed infine l'idea stessa di libertà, che funge da filo narrativo ed esistenziale.
Eleonora ha come fine la libertà di Napoli. Tuttavia, fin dall'inizio del libro la vediamo alle prese con la sua personale libertà, spesso negata, a volte addirittura temuta. Da un lato, i vincoli storici del suo tempo - essere donna in un mondo maschile, progressista in una società conservatrice - ne limitano l'agire. Dall'altro, sono le sue stesse esitazioni, i dubbi esistenziali, la consapevolezza del prezzo altissimo che la vera libertà comporta, a limitarne le possibilità. Per quasi tutta la sua vita saranno le persone che la circondano a decidere per lei, a disegnare il corso della sua esistenza.
Napoli, in questo racconto, non è un semplice sfondo ma un personaggio vivo e contraddittorio. Una città bella che nella sua arretratezza (il vassallaggio con la Chiesa ne è la piena rappresentazione) riesce comunque a offrire delle garanzie al popolo. Il popolo vive in un certo equilibrio, tanto che persino i lazzari si considerano liberi. Ma se la libertà è la possibilità di decidere autonomamente il proprio futuro e di perseguire i propri fini, in che modo dei lazzari possono dirsi veramente liberi? A me sembra piuttosto che non avessero altra scelta se non vivere nel presente, con un futuro reso nebuloso dall'ignoranza prima di tutto e poi dalla miseria. Insomma, più che liberi erano privi di responsabilità. Napoli non è libera e non vuole esserlo, anche perché non sa cosa significhi realmente la parola "libertà"!
In questo contesto gli intellettuali napoletani si trovano ad agire. Alcuni si lasciano travolgere da fanatismi che danno un senso alla vita, altri, più lucidi, identificano nell'ignoranza del popolo il vero ostacolo al cambiamento. L'ignoranza infatti è forse ciò che allontana maggiormente gli intellettuali napoletani dal popolo: non riescono a comunicare, quasi come se parlassero due lingue diverse. D'altronde, l'ignoranza era stata accuratamente coltivata per secoli dalla Chiesa e dal potere, ormai profondamente radicata.
La domanda che mi sono posto è: che senso ha agire per cambiare qualcosa che non si può cambiare? In una società destinata all'ingiustizia, che valore ha lottare per la giustizia? Perché fare tanti sacrifici per produrre poi "il resto di niente"?
La risposta sta nel fatto che, anche quando il futuro sembra già scritto e quindi non abbiamo la libertà di modificare la realtà, ci rimane la libertà di scegliere come agire. Possiamo rassegnarci ed essere complici di quella realtà, diventando così "il resto di niente": svuotati, indifferenti a tutto (il che è ben peggio della morte). Oppure possiamo accettare l'impossibilità di cambiare il mondo e decidere di agire comunque. In questo caso l'azione diventa un atto di ribellione, una protesta, un'affermazione di dignità, per non stare dalla parte del male. Dunque l'azione può essere inutile sul piano politico, ma mai su quello morale ed esistenziale. Dopotutto, in un mondo privo di senso e invaso dal male, cosa conta più della dignità?
Alla fine Napoli non riuscirà a essere libera, Eleonora invece sì, anche se le costerà la vita (del resto sapeva bene che la libertà ha un prezzo).
Niente è quello che mi è rimasto dopo le prime 88 pagine. Non fa per me, e non riesco nemmeno a capire cosa ci dovrebbe essere di accattivante in un romanzo del genere. Se l'ambientazione della Napoli fine Settecento è (o meglio, dovrebbe essere) uno dei punti forti, non capisco perché leggendo non senta niente di niente che mi dia una parvenza di antichità. Non trovo una trama, non trovo riflessioni, non trovo emozioni, che siano tristi o divertenti (e non conto il continuo colorito volgare), non ho trovato niente. Non credo fosse voluto questo niente.
ho iniziato a leggerlo in un momento di transizione importante della mia vita mi ha aiutato a comprendere la mia amata Napoli. Romanzo ricco di storia, cultura, eventi coinvolgenti
Ho riletto questo libro durante la quarantena con il desiderio di rivedere i luoghi della mia città. Mi sono ritrovata nei suoi vicoli a vivere una storia di rivoluzione e rassegnazione.
“Vedete, io, come forse sapete, non sono Napoletana, però sono vissuta in questa città fin da bambina e ne ho appreso molte cose. Una delle più importanti è questa: Accossì adda i’. Come dicono i lazzari: così deve andare. Tu non ce puo’ fa’ niente. Il resto di niente.”
Questo libro è un tuffo nella Napoli settecentesca, pulsante di vita. O meglio, ci sono tante Napoli diverse. C’è la Napoli sfarzosa e al tempo stesso decadente che si raccoglie attorno al re Ferdinando e alla regina Maria Carolina. La Napoli degli intellettuali, dei poeti e dei rivoluzionari. E poi c’è la Napoli del popolo e dei lazzari. Il tutto visto dagli occhi attenti di Eleonora “Lenór” de Fonseca Pimentel, di famiglia portoghese ma napoletana di adozione. Scrittrice e poetessa, dapprima vicina agli ambienti di corte e ai salotti letterari, avrà un ruolo di spicco, in qualità di giornalista, nella breve e tragica esperienza della Repubblica napoletana del 1799. Come la Repubblica romana e quella cisalpina, era una figlia della grande Repubblica francese, seppur anch’essa, in mano a un Direttorio debole e pressoché incapace, avviata verso il declino, mentre all’orizzonte si approssimava già la figura sfolgorante e controversa di Napoleone Bonaparte. L’arrivo “de li Francise”, guidati dal generale Championnet, viene inizialmente accolto con entusiasmo e speranza da una certa parte dei napoletani, i Giacobbe (giacobini), che vedono in loro dei liberatori dal giogo borbonico, e con naturale diffidenza da un’altra parte, in particolare dai lazzari che restano ancorati alla figura del re e alla Madonna. Come le sue sorelle, anche la Repubblica napoletana sarà destinata a vita breve e a fine tragica per mano delle truppe sanfediste. La stessa Eleonora rimarrà vittima della repressione borbonica, insieme a tanti altri rivoluzionari (non è uno spoiler, è Storia). A lei si attribuisce, in punto di morte, una citazione virgiliana “Forsan et haec olim meminisse iuvabit” (Forse un giorno ci gioverà ricordare anche queste cose), con cui Enea incoraggiava i compagni sconfortati dopo la fuga da Troia. Questa non è da considerarsi un saggio né una biografia romanzata, come lo stesso autore ci tiene a specificare, ma un romanzo storico di certo ben documentato. I personaggi, i luoghi e gli eventi sembrano rivivere sulla pagina. Enzo Striano ha la grande abilità di passare dal francese al dialetto napoletano in un battito di ciglia, il che rende il tutto ancor più immersivo. Lenór ho imparato a conoscerla, ho sperato e lottato con lei e i suoi compagni e alla fine è stato un po’ come dire addio a una cara amica, ragion per cui mi permetto di chiamarla con il suo soprannome.
"«Vedete, io, come forse sapete, non sono Napoletana, però sono vissuta in questa città fin da bambina e ne ho appreso molte cose. Una delle più importanti è questa: Accossì adda i’. Come dicono i lazzari: così deve andare. Tu non ce puo’ fa’ niente. Il resto di niente.»"
"Perché gli uomini son fatti tutti a questo modo, che non sanno placarsi col sereno calore dell’affetto? Così: parlarsi con pacata usanza, tenera stima. Guardarsi nel modo chiaro di chi può e vuol’essere com’è. Perché non basta loro l’incontro della pelle nelle mani intrecciate? La carezza maliziosa, infantile, in punta delle dita? Che demone li spinge a tormentarsi e tormentare? A trasformare soffi di baci in morsi, carezze in disperate strette?"
I libri vanno riletti. Anzi, la rilettura è forse il compito più bello per un lettore.
Lessi "Il resto di niente" ben cinque anni fa, in estate, per la scuola. Non avevo mai letto altri romanzi storici, eccetto per "I promessi sposi" - sempre a scuola, a capitoli, nell'arco di 9 mesi. Così cominciai questo romanzo, pensando che non lo avrei molto gradito, e così ho scoperto i classici e la bellezza della storia. O almeno, così mi ricordo, così mi piace pensare. Mi ricordo perfettamente quanto mi avesse colpito Eleonora, mi ricordo con quanto sentimento avevo letto quelle ultime pagine piene di rassegnazione e malinconia. Ed ora, dopo cinque anni, finalmente ho trovato occasione per rileggere questo romanzo, per il Club del Libro di Napoli. E di nuovo, avevo poco tempo, credevo che mi avrebbe un po' annoiata e stancata leggere 400 pagine in due giorni, di fretta, costretta... e invece no. Passato il racconto del viaggio, arrivata alla bellissima immagine di Lenòr che impara il napoletano, sono stata rigettata subito nel mio amore sconfinato per questa storia.
Prima di quella lettura, non avevo mai sentito parlare della Rivoluzione Partenopea. Mea culpa. Da allora, qualcosa dentro di me s'è incrinato e non riesco a non guidare me stessa verso un ideale di vita che Striano mi ha incastrato dentro.
Eleonora De Pimentel Fonseca è una contraddizione. è una donna che sogna la rivoluzione e la libertà, e che pure con molto più acume di alcuni suoi compagni riesce a capire cosa ci impedisce di ottenere questa 'felicità'. Eleonora non ha mai la presunzione di credere di sapere cosa sia la felicità, eppure crede fermamente nell'uguaglianza. Prova con urgenza ad educare persone sprovviste degli strumenti minimi per capire la realtà. Perché certo, i lazzari sono 'felici', vivono alla giornata, senza lavorare, ma c'è sempre qualcuno che paga il prezzo. C'è sempre qualcuno sulle cui spalle è poggiata la felicità altrui in una società così impari. Ed Eleonora, proprio alla fine, o forse sin dall'inizio, ci indica la strada: sono le donne. Proprio recentemente leggevo una considerazione, secondo me, fondamentale: in molti casi, la misura dell'avanzamento di una società è quella della condizione femminile. Le donne si parano davanti ad Eleonora quando è trasportata davanti al patibolo: le urlano contro e le sputano contro, la insultano; una donna le si para davanti, le mostra il corpo sfatto, come fosse prova del delitto di Eleonora, che si è sottratta alle gravidanze, alle maternità (un po' per necessità, un po' per stanchezza). C'è qualcosa che rende Eleonora unica in questo romanzo: la sua totale dedizione alla rivoluzione, e soprattutto alla cultura e alla lettura. Forse anche per questo me ne innamorai sin da giovanissima. Le altre donne e la maggior parte degli uomini hanno altre preoccupazioni; lei sola, assieme a pochi altri come Vincenzo Cuoco o Marra, sono tutti proiettati verso la rivoluzione, il resto sparisce. Forse Eleonora non ha niente da perdere, io credo che la sua scelta sia sempre stata quella. Sia sempre stata la cultura sopra tutto il resto. Solo ad essa è sempre stata devota e fedele. Eleonora interpreta questa sua predilezione come mascolinità. Alla fine si sente in parte uomo, capace di partorire con la mente. Quando pensiamo a questo, capiamo il disagio. Non c'è spiegazione a una donna che riesca a pensare "come un uomo". E sebbene ci siano altre fautrici della rivoluzione, c'è un motivo se Eleonora è stata presa a rappresentarla. Perché Eleonora non sceglie mai la strada violenta, Eleonora capisce che la rivoluzione può attuarsi solo quando sono tutti a volerla. Perché la rivoluzione non è quella che si realizza da un giorno all'altro, ma è quella che cambia la società ed il mondo nel corso di generazioni. è quella che noi oggi ci impegniamo a creare con le parole e lo studio, sulla scia di quei moti che nel Settecento e in seguito ci hanno spinto in questa direzione, per creare un mondo che sia più equo, un mondo più giusto, solidale, colto. Perché senza cultura, non c'è pietà. Senza cultura, non c'è bellezza. Noi siamo figli di chi, come Eleonora De Pimentel Fonseca, ha voluto rimarcare l'importanza della cultura; senza di essa, non si può costruire niente. Fin quando la nostra società non sarà composta da una maggioranza di persone che comprendono e apprezzano la cultura, non ci sarà un vero miglioramento.
Avrei dovuto scrivere una recensione dello stile, del racconto, una vera recensione; ma purtroppo questo è e forse rimarrà per sempre il mio libro preferito. Non riesco ad essere obiettiva. Vi invito soltanto ad immergervi in un racconto vivo, profumato, colorato come le strade e la vita di Napoli. Vi invito ad immergervi in contraddizione di morte e risa, pianti e commedie, bellezza e grottesco, perché questo è il folklore su cui Napoli nasce, nasciamo dai lazzari, da Pulcinella, da una saggezza ignorante, dalla furbizia spietata. Vi invito ad entrare in uno dei romanzi che meglio riesce a raccogliere l'essenza di Napoli, di chi siamo e dove andiamo. Questo è Il resto di niente, la nostra storia di luogo ai margini e allo stesso tempo culla della cultura e dell'intelligenza, la nostra storia di gente che non ha nulla, eppure ha tutto proprio in Napoli. Questo è Il resto di niente.
Stiriano descrive gli ambienti del suo libro come una persona elenca quello che deve comprare al supermercato. Approfondisce i suoi personaggi come una paletta di plastica scava un buco nel granito. Mescola le lingue e i dialetti come un bambino mescola i colori, fino a ottenere un colore melmoso e sgradevole. Il libro è accessibile come lo è la scalinata di piazza di spagna per uno in stampelle, scorre come un fiume in secca e aumenta la conoscenza degli enti storici che narra come lo zero aumenta i numeri a cui è sommato. Assolutamente non il libro adatto a chi non ha nessuna conoscenza pregressa dei fatti e del contesto storico rappresentati nel libro. Il tempo nel libro scorre in modo confuso, indefinito e non da neanche la possibilità di seguire con un minimo di chiarezza la vita di Lenór, l'unico personaggio al quale è possibile affezionarsi. Non ho ancora capito di quale rivoluzione parlasse il libro.
"Il Resto di Niente" è definito dall'autore stesso come un romanzo storico e un romanzo sperimentale. Di conseguenza abbiamo una vicenda storica ben delineata in cui si muovono e partecipano personaggi storicamente esistiti e personaggi inventati dall'autore stesso. La base della sua filosofia è quella degli intellettuali del secolo illuminista, come Gaetano Filangieri. La vicenda storica posta al centro del romanzo è la Rivoluzione Napoletana del 1799, la proclamazione della Repubblica e infine il suo tragico esito. È l'incontro tra la "macrostoria" della città partenopea la "microstoria" di uomini e donne di quei tempi, con i loro sogni e le loro speranze. Nel vasto pantheon di personaggi emerge la figura di Eleonora Pimentel de Fonseca, protagonista del romanzo. Eleonora, detta Lenòr, nasce a Roma da una nobile famiglia di origini portoghesi, ma trascorse gran parte della sua vita a Napoli, dove si trasferisce con la famiglia all'età di undici anni a causa dei difficili rapporti tra il Regno del Portogallo e lo Stato Pontificio che non riconosceva il titolo nobiliare ai Fonseca Pimentel. Dopo un matrimonio combinato dall'esito infelice e la morte del figlio, la vita di Eleonora si interseca sempre di più con quella di coloro che partecipano ai circoli repubblicani e illuministi, formati da coloro che, sulla scia della Rivoluzione Francese, vorrebbero un governo democratico e ispirato dai principi illuministici anche a Napoli e sperano nel rovesciamento del governo di Ferdinando IV e alla fondazione di una Repubblica Napoletana. Eleonora diventa redattrice del giornale della Rivoluzione Napoletana, rivoluzione che si concretizza con la fuga del re da Napoli verso Palermo a seguito della sconfitta dell'esercito borbonico contro Napoleone nella battaglia di Civita Castellana, lasciando la città del caos. Il 23 gennaio 1799 viene proclamata la Repubblica Napoletana. La Repubblica avrà però vita brave. I repubblicani, troppo pochi e senza l'appoggio del popolo, non riescono ad organizzare un governo stabile e in seguito all'intervento dell'Esercito della Sacra Fede, i sogni rivoluzionari vengono infranti e i partecipanti arrestati, tra cui la stessa Eleonora. La donna non rinnegherà mai il suo passato e le sue idee, pertanto, nell'agosto del 1799 verrà impiccata in Piazza Mercato con tutti gli altri rivoluzionari, nell'indifferenza generale della popolazione che mai riuscì a comprendere ciò che quei pochi intellettuali avevano cercato di fare realmente. Pur avendo al centro delle vicende la vita di un personaggio storico ben conosciuto, il romanzo non è definibile come "biografia" né come racconto "romanzato" della vita della protagonista. L'intreccio tra realtà e finzione è un punto fondamentale del romanzo, rappresentato ad esempio, dal personaggio di Sangres, attraverso il quale l'autore diventa osservatore interno della propria storia e con cui riesce a costeggiare l'evoluzione personale della sua protagonista. Il titolo dell'opera è estremamente significativo. Esso fornisce al lettore una chiave interpretativa, nonché anti-climatica, poiché in esso è racchiuso l'esito finale della vicenda storica e il destino dei suoi protagonisti. Dei sogni, delle speranze e delle vite di coloro che presero parte alla rivoluzione napoletana sono rappresentati nelle ultime parole di Eleonora prima di andare al patibolo: "Mi è rimasto il resto di niente", poiché nessun esito concreto seguirà il sacrifico di coloro che ne hanno preso parte. "Il resto di niente" è la storia di una sconfitta di una città con al centro una figura femminile contemporaneamente forte e fragile. L'evoluzione di Eleonora accompagna la vicenda storica, dando al romanzo storico una sfumatura biografica e di formazione. L'autore segue la donna nei suoi passaggi da bambina, donna, moglie infelice, madre e infine rivoluzionaria pronta a morire per la propria causa. La crescita intellettuale di Eleonora può essere interpretata anche come rivoluzione della figura femminile, non più spettatrice in disparte che guarda fare la storia ma che ci partecipa in prima persona e volontariamente. "Il Resto di Niente" è la storia di una città e di una donna senza fortuna, i cui destini si intrecciano in modo egualmente tragico. A fare sfondo alla vicenda è la Napoli del '700, la quale non si limita a ad essere solo la cornice in cui si svolgono le vicende narrate ma diventa anche essa protagonista indiscussa della storia. L'ambientazione napoletana è ciò che dà vita al romanzo stesso, con le sue luci e le sue ombre. L'autore mette volontariamente a confronto l'intellettualismo illuminista dei giacobini e l'ignoranza e la povertà dei ceti più bassi del popolo, a cui in parte è da attribuire la disfatta del Rivoluzione stessa. In questo "Il Resto di Niente" è anche un'analisi della storia e dello spirito dell'capoluogo campano. Una ricerca dei motivi per cui il grande potenziale della città sia tutt'oggi sprecato. La tragicità della storia napoletana e della sua rivoluzione diventa agli occhi del lettore moderno metafora e riproposizione della sorte e della condizione della Napoli moderna e del suo popolo. Essa diventa il tassello fondamentale da dover analizzare per comprendere i motivi per cui ancora oggi Napoli non riesce a vivere a pieno il suo potenziale culturale, artistico e intellettuale. Una parte del successo del romanzo può proprio essere riscontrata in quei sentimenti di familiarità e di continuità che il romanzo suscita nei lettori napoletani, i quali identificano il senso di sconfitta del romanzo con la difficoltà di rinnovare e migliorare la Napoli moderna. In questo possiamo dire che scopo ultimo del romanzo non è quello di intrattenere, ma di aprire una discussione e di inserirsi nel dibattito moderno circa le condizioni della città. La storia della città sembra quasi aver avuto un brusco arresto con la fine della Rivoluzione. Nelle vicende della Repubblica Napoletana narrate da Striano è facile riscontrare il desiderio di cambiamento e di miglioramento del popolo napoletano affiancato però da una condizione di immobilità perenne e rifiuto di un cambiamento concreto, rappresentato dalla contrapposizione tra i giovani intellettuali napoletani e li lazzari. L'autore ci presenta le vicende del passato in chiave critica e riflessiva, ponendole su una linea di continuità con le problematiche moderne. La ricerca della felicità, la forza distruttiva della natura, la fragilità dei sogni umani sono temi che da sempre ossessionano l'uomo. Leggendo il romanzo ci si rende conto che i desideri e le problematiche che affliggono gli uomini in realtà siano sempre le stesse, così come risulta immutata la natura umana. Un'altra caratteristica fondamentale del romanzo è il suo plurilinguismo. In esso si alternano italiano colto e popolare, napoletano, francese e portoghese, creando una popolazione multiculturale e stratificata che rispecchia la realtà dell'epoca. Le contrapposizioni tra le classi sociale e tra il livello culturale dei personaggi sono abilmente mostrati dal modo in cui le varie componenti parlano.
Una lettura fondamentale per chi vuole comprendere la Napoli contemporanea.
In realtà non l'ho finito, ho mollato a pagina 200 e passa per sfinimento. L'operazione è senza dubbio dotta ed appassionata, ma presenta i seguenti problemi:
1. Eccessiva polifonia lessicale (italiano, napoletano, romano, portoghese, francese e poi?)
2. Una girandola eccessiva di dialoghi e personaggi spesso inutili che distolgono l'attenzione dalla protagonista e fanno tirare un respiro di sollievo quando Striano passa finalmente al discorso indiretto.
3. Punteggiatura da carcere. Vi sembra. che. si possa. scrivere. un romanzo di 300. e più. pagine. così?
Ho trovato l'insieme di questi elementi respingente. Peccato.
“Il resto di niente” di Enzo Striano è una sorta di biografia romanzata (ma l’autore non sarebbe d’accordo con questa definizione) di Eleonora Fonseca Pimentel, poetessa e scrittrice di origine portoghese che prese parte ai moti partenopei del 1799. Un romanzo straordinario che, seguendo la parabola della vita di Eleonora/Lenòr, mi ha condotto per mano tra le vie di una Napoli settecentesca che Striano con una lingua opulenta riesce a dipingere alla perfezione nei suoi colori, nei suoi odori, nei suoi rumori. Se c’è una cosa che mi ha colpito infatti è stata proprio la capacità di rendere tangibile, anzi, visibile, udibile e addirittura “olfattibile” lo svolgersi della vita nei suoi vicoli: “Da quel banco di maccheroni giungeva odore saporoso e semplice, che andava a mescolarsi ai mille fluttuanti per l’aria. Bruciaticcio delle torce, dolciastro delle cere sciolte, asprigno del sugo di limone, maliziosi fiati d’anice, pizzicore d’aglio, esalazioni grasse d’intingoli, salsedine di roba marinara bollita in lucide pentole di rame. Ma anche acido di letame cavallino e umano. La strada era cosparsa di escrementi delle bestie. Gli uomini usavano con disinvoltura i muri dei palazzi, gli angoli dei vicoli” Da vero romanzo storico (questa sì che è la definizione dello stesso Striano), “Il resto di niente” attraverso le vicende di Lenòr e dei personaggi che compaiono nel suo mondo, ci racconta una fase della storia partenopea particolare, quella cioè del periodo successivo alla Rivoluzione Francese, quando a Napoli, con il diffondersi di istanze illuministe, nascono società segrete che hanno come obiettivo il sovvertimento dell’ordine politico vigente. Lenòr vive in prima persona questo fermento culturale e politico: osserva la città alla quale si sente sempre più unita, osserva la gente, il popolo, le sue contraddizioni, frequenta i circoli culturali, riflette, si fa delle domande, vacilla ma decide di abbracciare un’idea, quella della Repubblica Napoletana, a cui rimarrà fedele fino in fondo, non senza sofferenza, non senza dubbi. Un romanzo non facile, forse, con una lingua strabordante, piena di parole dialettali napoletane, francesi, reminiscenze portoghesi e un lessico specialistico riguardante l'abbigliamento e la vita quotidiana che a volte mi ha costretto ad aprire il dizionario, ma al contempo un romanzo, a mio parere, bellissimo, per l’avventura umana e politica che Striano racconta unendo al rigore della ricostruzione storica, una grande sensibilità poetica necessaria per dare parola all’anima, al cuore e alla mente di Lénor. Una delle letture più belle che abbia mai fatto