Riguardo ai gialli più discussi si sente spesso parlare dell’esistenza di tre verità: fattuale, mediatica e giudiziaria. Ma i piani sono molto più intrecciati di quanto si pensi. Selene è una giornalista e per quattro anni esplora dall’interno il funzionamento della cronaca nera in Italia. Come freelance di tabloid di serie zeta scopre del paese in cui vive (e di se stessa) molte cose che avrebbe preferito ignorare. Qualsiasi pezzo scritto con coscienza, sensibilità e impegno viene trasformato in un capolavoro pulp a colpi di titoloni sensazionali e foto scabrose. Ma i titolisti non inventano nulla, pescano solo il lato più oscuro nel brodo avvelenato servitogli dal cronista. Confessando con schiettezza e autoironia il modo con cui ha narrato i principali fatti di cronaca nera degli ultimi anni, l’autrice svela i meccanismi che regolano l’universo dell’informazione giudiziaria e scandalistica. Un delitto non è mai un delitto ma una novel fiction che si sviluppa nell’arco del tempo, come una soap opera o un serial televisivo. Prevalgono i personaggi standardizzati, il codice fiabesco e l’abuso del colpo di scena. Le vittime che bucano la soglia dell’attenzione mediatica sono quasi sempre quelle che il pubblico trova piacevoli da guardare e i casi di femminicidio vengono trasformati in parabole lacrimevoli e morbose. Quando si parla di sangue il labile confine tra informazione alta e bassa salta del tutto e le narrazioni tossiche della cronaca nera non restano rinchiuse entro i confini dei tabloid, della tv del pomeriggio e della colonna destra dei grandi portali d’informazione. Rompono la diga, infiltrando gli atti processuali e l’attività investigativa, influenzando lo sguardo del pubblico, dove andranno a pescare le loro prossime vittime. Anche se non avete mai posato gli occhi su un magazine a base di “sangue & sesso”, nemmeno voi siete immuni da una narrazione tossica ben costruita. La storia di Selene, del suo compagno d’armi Potito e del loro magister Senpai vi aiuterà a sviluppare gli anticorpi per non cedere alla contaminazione.
«Vuoi un delitto tra squillo?».«Ti serve un marito evirato?».«Ci sta una storia di decapitazione che potrebbe andare...».«In quel buco di due pagine mettiamo la mamma che è andata al bar col neonato morto nella borsa, che dici?».
Il testo, come dice l'autrice, è tipo un diario. Di fatto, l'autrice racconta il suo passato come narratrice di tabloid di infimo livello, intrecciando questa trama principale con alcuni eventi significativi della sua vita personale.
La particolarità di questo testo sta nella sua struttura metaletteraria: per la precisione, si tratta di una narrazione su come si narrano storie di cronaca nera su riviste che si muovono nel sottobosco del discorso giornalistico.
Toccando alcuni casi famosi, Pascarella destruttura le rappresentazioni dei delitti fatte dai media per mostrare gli strumenti del narratore seriale, a caccia più dell'interesse del pubblico che di una ricostruzione rigorosa dei fatti. Il mondo dei tabloid, in sostanza, cerca di rappresentare i vari delitti all'interno di schemi fissi, facilmente leggibili e comprensibili, capaci di catturare l'attenzione di un pubblico anziano e poco colto.
Dietro alla cronaca nera, quindi, si nasconde strutture di intreccio riprese dal mondo seriale, da quello della favole, dal substrato culturale della provincia italiana. Alcuni delitti, inoltre, diventano notevole non per la loro efferatezza, ma perché capace di far nascere una nuova struttura narrativa capace di influenzare l'interpretazione di delitti futuri. La cronaca diventa mito, quindi, trasformandosi in un vero e proprio modo di pensare.
Lo sguardo, però, non è quello di una studiosa o di una critica, ma di una persona che ha alimentato queste narrazione tossiche. Pascarella ha fatto parte di questa macchina mitologica incentrata sulla vendita di storie di facile consumo, per questo nella sua scrittura aleggia un senso di vergogna, che tra le altre cose non viene celato. Fortunatamente, manca un "mea culpa" in ginocchio, che avrebbe reso ridicola l'operazione dell'autrice.
Il testo si conclude sottolineando che, però, esistono modi per utilizzare gli strumenti della narrazione pulp per difendere i più deboli, per ripristinare un certo senso di verità. La consapevolezza che dietro a ogni racconto ci sia sempre un'operazione di costruzione retorica, non deve far credere che ogni operazione linguistica sia tesa all'inganno o alla vendita: esiste un potere benefico, non di certo salvifico, che può fare tanto per combattere le narrazioni tossiche.
Il testo è molto interessante, ma predomina il saggio: saggia scelta, allora, quella di utilizzare un linguaggio medio, pulito, che cede solo ogni tanto a qualche tecnicismo in inglese (ma che viene fatto solo per restituire il linguaggio dell'ambiente dei tabloid, non per esterofilia). Così facendo si permette una lettura scorrevole, resa piacevole anche dalla lunghezza del testo piuttosto contenuta.