I fantasmagorici rituali – di iniziazione – dei promotori di startup, riuniti in conclave a Londra. I saturnali, al Mugello, di una delle ultime divinità disponibili in Italia, Valentino Rossi. Il matrimonio fra i rampolli di due miliardari indiani – per tacer dell'elefante – nel cuore della Puglia. L'incontro, a New York, con un sopravvissuto alla sua stessa leggenda, Frank Serpico. Il paradiso – o l'inferno – artificiale nella sua versione più aggiornata, il poker online. Non importa da quale ingresso Daniele Rielli decida di entrare nel diorama ibrido e surreale che chiamiamo contemporaneità. Importa come ne racconta, ogni volta, un angolo diverso. E quanto, ogni volta, riesca a farci ridere.
Quitaly, la precedente raccolta di reportage di Daniele Rielli che ho letto (credo la sua prima pubblicata, e la mia prima letta) mi aveva lasciato speranza e curiosità. Non certezza. Ho fatto bene a darmi un’altra chance con lui, queste Storie dal mondo nuovo sono una lettura di gran piacere e interesse, un’apertura, uno stimolo alla mia curiosità. Un po’ come se qualcuno mi aprisse il suo attico sulla città per mostrarmi vista e panorama.
Le Officine Reggiane.
Da quello breve (dieci pagine), una visita al Translatico parlamentare, a quelli più lunghi (sessanta pagine l’uno), poker online e non e Sud Tirolo/Alto Adige, il mio interesse è rimasto alto e focalizzato. L’impressione è che questa volta Daniele Rielli, ex Quit the Doner, si dedichi a storie meno eccentriche, ad argomenti un po’ meno bizzarri, o che, pure davanti a una storia stramba come quella del matrimonio di due giovani indiani multimilionari in Salento, Rielli sappia comunque inquadrarli, allargare il loro orizzonte e il suo punto di vista. Ma soprattutto che questa volta tenga a freno l’eccesso di umorismo, a favore di una più sapiente ragionata e funzionale ironia (che quando vuole sa diventare sarcasmo).
Sagra della Stret Art a Trinità di Canossa.
Rielli è mosso da forte curiosità (sì, certo, è ovvio che sia prima di tutto mosso dal compenso per un ‘pezzo’ giornalistico commissionato, come dargli torto?), notevole indipendenza, che definirei anche pensiero libero e mente aperta, si tiene lontano da dogmi, retorica, sentimentalismo, ma anche dal cinismo, dall’ammiccamento e dal determinismo. Accumulare informazioni, osservare dal vero, esporre provando a essere neutri e avendo la lucidità di mettere in discussione idee e tabù.
OSGEMEOS, i gemelli, qui in azione a Lisbona.
Questa bella raccolta di pezzi già editi ma in forma ridotta, più un paio d’inediti, è un inno al giornalismo da strada, quello che si fa sul campo, muovendosi (le mitiche scarpe buone prima necessità di un buon reporter), viaggiando, scendendo per strada (così come secondo me farebbe molto bene a tanti scrittori, nostrani e non). Il suo “giornalismo narrativo” mi piace davvero molto, forse anche perché direi che sempre mi convince il suo punto di vista, sento che il suo sguardo è il mio. Il che, probabilmente, mi rende commentatore molto parziale.
Disrupt TechCrunch, la startup di una startup.
Un writer intervistato dice dei suoi graffiti: Un pezzo deve stimolare le persone a farsi domande. Immagina se si stampassero reportage alle fermate dell’autobus, o sui muri del centro. Anche gli scrittori dovrebbero lavorare direttamente sui muri…
Il matrimonio in Salento tra due sposi indiani di famiglie miliardarie (milionarie) costato 10 milioni di euro, o dollari, ma forse 20, o anche 25.
ecco un perfetto esempio di libro di cui non colgo il senso. perché raccogliere articoli usciti sul venerdì di repubblica, e sparsamente altrove, e pensare che debbano godere di interesse costante nel tempo? non stiamo parlando dei grandi reportage di barzini, e anche kapuściński quando si occupa di culture troppo lontane dalla sua lo posso trovare bravo, ma con il tipo di circolazione che hanno oggi le notizie mi pare abbastanza immotivato leggerlo. e poi sarò snob, ma diamine in questo libro ho trovato riferimenti alla versione albanese di striscia la notizia, alla battuta finale di una puntata de le invasioni barbariche, e il viatico introduttivo era stato il chiacchiericcio del transatlantico (quello maiuscolo) ove si aggirano minzolini e debora serracchiani, che (cito) «è più bassa e normale di quanto non appaia in tv». per quanto rielli me la metta giù in chiave ironica, resto convinta che ci sarà un motivo se nel giro di 12 ore buona parte dei giornali è notoriamente perfetta per incartare il pesce. ne il grande freddo, jeff goldblum interpreta un giornalista che a un certo punto si lamenta di essere «stufo che il mio lavoro venga letto nei cessi». qualcuno lo ammansisce che anche dostoevskij era letto al cesso, e lui chiosa: «non in una cacata sola, però». ecco, senza offesa (rielli sappi che io e il tuo libro ci siamo frequentati solo davanti a tazze di tè) trovo che raccogliere degli articoli in un volume solo per farli durare di più abbia le sue motivazioni da quelle parti lì.
infine una notarella di stile. mi dicono in molti che il ragazzo scrive bene, e sarà. ma se a pagina 19 trovo un «ahhhh (4 acca, ndr), esci da me, stile retroscenista!», qua e là degli (uff) tra parentesi, e dappertutto una quantità di inglesismi da lost in translation, mi vien da dire che nemmeno gli incarti del pesce sono più quelli di una volta. gli do due stelle, cioè sufficiente, con l'attenuante che di sicuro ho un problema personale con questo genere di operazione.
In genere di Daniele Rielli apprezzo soprattutto due aspetti: lo stile, ironico e dissacrante - il passaggio sulla Boldrini nel primo articolo mi ha steso - che rende i suoi racconti piacevoli da leggere, e la capacita di affrontare degli argomenti apparentemente "marginali" (nel senso di poco trattati dai media), in modo da offrire in realtà degli strumenti per riflettere sui grandi temi contemporanei: l'automazione del lavoro, la globalizzazione, i populismi, il ruolo dell'informazione e tanto altro. Questo libro non fa eccezione.
E magari fossero tutti così i nostri giornalisti italiani! Belle inchieste o meglio belle escursioni con aliante su argomenti disparati ma assai coinvolgenti. Con quel sense of humour che puoi trovare in ogni angolo di pagina e senza plastici ed orpelli della vecchia nomenclatura scrivana del bel Paese.
Lettura eccellente, fatta di storie interessanti (versioni "estese" di reportage, con due inediti), in una forma estremamente piacevole. Una menzione speciale all'ultimo reportage, dedicato alla controversa storia del rapporto etnico tra tedeschi e italiani in Alto Adige, vicenda poco nota fuori dalla Provincia Autonoma di Bolzano.
Segnalo questo libro per il bel saggio finale «Io che ho attraversato l'Alto Adige», che offre un punto di vista italiano-bolzanino sulla questione dei conflitti etnici in Südtirol.