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351 pages, Paperback
First published January 1, 1955
Oggi ci separa da Metello più o meno lo stesso lasso di tempo che separava la stesura dal finale del romanzo, collocato nel 1902 ("Cent'anni avanti, dissero i giornali,c'era Napoleone, Marx aveva da nascere e la locomotiva era ancora da inventare.")
Come ogni romanzo storico, questo di Pratolini rimbalza fra 3 epoche: quella narrata (gli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento), quella in cui l'opera fu scritta (gli anni Cinquanta del Novecento) e quella in cui noi leggiamo, che è in divenire, cambia sempre e continuerà a cambiare.
Di solito, ci si chiede cosa della visione del mondo di un autore sia ancora attuale oggi. Nel caso specifico, da questo approccio discenderebbero considerazioni sull'ideologia letteraria del Dopoguerra etc. etc. In questo modo, la complessa triangolazione fra epoche si ridurrebbe a un gioco a due, a un banale ping-pong tra gli anni Cinquanta e l'oggi, con l'esclusione dell'altroieri.
Forse non è dall'autore che dobbiamo partire, non da Pratolini, bensì dai personaggi che ha messo sulla pagina. Forse, anziché domandarci cosa di Metello (inteso come romanzo) rimanga attuale oggi e cosa invece sia "superato" e obsoleto, dovremmo compiere un'operazione diversa, che potrebbe rivelarsi più feconda: non leggere la vicenda con gli occhi di oggi, ma leggere l'oggi con gli occhi della vicenda. E' un approccio che dovremmo avere coi grandi personaggi letterari: non limitarci a esercitare su di essi il nostro sguardo critico (bella forza!), ma provare a esercitare il loro sguardo critico su noi stessi e il mondo che abitiamo.
Cosa penserebbe Metello (inteso come personaggio) del nostro presente? Se potesse vederla, cosa capirebbe dell'Italia del 2010 il muratore fiorentino Metello Salani, nato nel 1873? Come vedrebbe questo mondo del lavoro? Cosa non troverebbe nel nostro Paese centocinquant'anni dopo l'Unità d'Italia?
"Viva Garibaldi che ci ha rimescolati!", dice nel romanzo un commilitone di Metello, tale Mascherini, quando realizza che, al fondo, i napoletani non sono così diversi dai toscani.
Qui e là, in Metello, si esplicita un'idea di "patria dal basso", si esprime un (le virgolette sono d'obbligo) "amor di patria" molto diverso da quello che ci viene richiesto dai demagoghi. Si tratta di un patriottismo internazionalista: "Tutto il mondo è paese e la patria è incontestabilmente una", dice il narratore, con quella che potremmo chiamare una "sintesi disgiuntiva". Sono due affermazioni in apparenza inconciliabili, eppure stanno insieme. La frase prosegue così: "C'era davvero qualcosa e qualcuno da difendere, non soltanto il re e non soltanto le frontiere".
Qualcuno da difendere. Chi? La risposta è: gli altri di cui facciamo parte. Anche questa è una sintesi disgiuntiva. Non "tutti gli altri", non un indifferenziato "popolo" che coincide con tutti i nostri connazionali. Assolutamente no. Nella scena-madre del romanzo, il fronteggiamento tra l'ingegner Badolati e i muratori in lotta, il muratore Ugo Parigi annuncia che farà "come gli altri", cioè andrà fino in fondo, continuerà a scioperare. Badolati ribatte che sono "gli altri" anche i crumiri, quelli già tornati al lavoro. La precisazione di Parigi è efficacissima: "Io dico gli altri questi, gli altri noi", dove "noi" diventa un aggettivo, un attributo - gli altri che siamo noi, cioè io e i miei compagni di lotta e lavoro. Io, loro e le nostre famiglie. Io e la mia classe.
Quello di Parigi, di Metello e dei loro compagni è un punto di vista fazioso nel senso puramente descrittivo del termine, cioè è il punto di vista di una fazione, di una parte attiva in un conflitto. Ma si tratta, per dirla con Mario Tronti, di quel "punto di vista di parte da cui si può conoscere il tutto, perché la conoscenza che il tutto propone di se stesso è sempre falsa e ideologica. L'unica conoscenza vera e realistica è quella che una parte può fare della totalità. Soltanto dal punto di vista di parte ci si può contrapporre al tutto, organizzare contro il tutto una postazione alternativa".
Ecco cosa Metello Salani non troverebbe oggi: un punto di vista che, rivendicando una parzialità, organizzi da dentro il mondo del lavoro un'alternativa complessiva allo stato delle cose.
Appunto: il lavoro, il mondo del lavoro. Nel caso particolare, il mondo dell'edilizia, quei "ponti" su cui, dice il narratore, "si respirava a pieni polmoni". Oggi, in città, a pieni polmoni non respira più nessuno, e chissà che sguardo avrebbe Metello su un Paese deturpato e affogato dalla cementificazione selvaggia.
In Metello l'orgoglio del lavoro ben fatto è tutt'uno col rispetto per sé stessi e con la presa di coscienza ("Più bravo diventerai nel mestiere, più ti verrà chiaro di essere uno sfruttato"). E la forza-lavoro, il volontario rifiuto di erogarla, era la leva che trovava il punto archimedico e rovesciava il mondo. Lo sciopero era l'arma suprema. Il salariato che incrocia le braccia, che bellissimo ricatto, anzi, il ricatto dei ricatti! A tutti appariva chiaro: "Non importa essere socialisti per capire che se noi ci si mette con le braccia conserte, i muri restano all'altezza in cui sono".
Oggi lo sciopero è quasi sempre un'arma spuntata: lo sciopero sfonda porte aperte, rivolgendosi contro padroni che dei loro dipendenti desiderano già liberarsi, vuoi perché possono sostituirli con le macchine, vuoi perché han dichiarato bancarotta, vuoi perché il capitale vuole fuggire dove il lavoro costa meno. Lo scioperante sottrae al padrone una forza-lavoro che a quest'ultimo non serve, o che può trovare altrove con meno grattacapi. Lo sciopero è pleonastico, e questa sua pleonasticità accelera il decadimento del fattore umano nel lavoro. Decadimento che a sua volta implica - diventerà sempre più chiaro - un autentico disastro per la civiltà.
Ai tempi di Metello, poi, le lotte si iniziava a vincerle. Oggi veniamo da un lungo ciclo di sconfitte.
Attenzione, però: in Metello la vittoria non è il vero finale, e soprattutto non è catartica. Sono superficiali le letture che ritengono il libro edificante e consolatorio. Si vince senza fanfare, da uomini normali, e poco dopo - sopravvissuti per miracolo alle prove del momento eroico - si torna a morire di "normalità".
Ecco, gli incidenti sul lavoro, questi Metello li vedrebbe anche oggi, e li riconoscerebbe subito.
Che altro dire? Forse che è un libro costruito con sapienza invidiabile. Quegli stacchi di capitolo fulminanti ("'Chi non è d'accordo' disse Del Buono 'alzi una mano'." - STACCO!); quel continuo, pungolante anticipare il futuro (tattica narrativa che in inglese chiamano foreshadowing) con frasi come "Durante cotesto mese e mezzo avrebbe vacillato il loro amore" o "Prima ch'egli fosse di ritorno, qualcosa doveva ancora accadere".
Ed è un libro con un personaggio femminile (Ersilia) che si conficca nella memoria e non lascia più la posizione.
Sì, ci sono parentesi moraleggianti, lezioncine edificanti, alcune descrizioni troppo "bozzettistiche", da sketch, da quadretto tipico, e il romanzo può sembrare didascalico, ma in fondo: didascalico per chi? Di quel mondo si va perdendo ogni memoria. Queste cose non si sanno più. Ed è pur vero che noi (noi chi?) le sappiamo già, ma forse, dandole troppo per intese, ce le siamo in parte dimenticate. In questa fase storica, soprattutto in Italia, credo non faccia male tornare a dire le verità di base; tornare a spiegare, insomma, che - per dirla con Ersilia - "l'aceto si fa col vino".
che dire? bello..ti catapulta direttamente nell'italia di fine '800, le lotte operaie che si uniscono alle difficoltà di tutti i giorni e alla vita in famiglia.. ammetto che mi sono dovuta rinfrescare un po' la memoria sulla storia di quel periodo ma mi ha fatto senz'altro bene.