«La realtà è che gli orari dei pasti sono una costruzione culturale e cambiano non solo da un paese all’altro, ma da una classe sociale all’altra e anche da un’epoca all’altra.»Tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento l’aristocrazia a Londra e a Parigi modificò gli orari dei pasti quotidiani. Il pranzo, considerato all’epoca il pasto principale del giorno, venne consumato sempre più tardi, fino alle cinque, alle sei, alle sette del pomeriggio, mentre veniva introdotta una robusta colazione, il déjeuner à la fourchette, a metà mattinata, e scompariva la cena serale. La nuova moda venne adottata nel corso dell’Ottocento dalle classi medie e si diffuse lentamente anche in paesi come la Germania, l’Italia, la Russia, gli Stati Uniti, ma nel frattempo l’aristocrazia inglese e francese spostava l’orario del pranzo sempre più tardi, fino alla sera; col risultato che il divario delle abitudini non si ridusse realmente fino all’egualitario secolo Ventesimo. I contemporanei notarono con interesse questo cambiamento e ne discussero i motivi; la spiegazione più probabile è che le classi dirigenti, in quelle che erano a tutti gli effetti le due massime potenze mondiali, trovarono un nuovo modo per sottolineare la distanza rispetto alla borghesia e il divario fra capitale e provincia, nonché fra paesi moderni e paesi culturalmente arretrati. Il fenomeno, finora mai studiato, è interessante per lo storico come per il linguista, giacché provocò dei mutamenti nella designazione dei pasti che sono ancora oggi oggetto di discussione fra i parlanti; ed è significativo anche per la critica letteraria, dal momento che certi dettagli delle abitudini sociali nel romanzo dell’Ottocento sono incomprensibili se non in questa luce.
Si laurea in lettere nel 1981 con una tesi in storia medievale all'Università di Torino. Successivamente perfeziona i suoi studi alla Scuola Normale Superiore di Pisa e nel 1984 vince il concorso per un posto di ricercatore in Storia Medievale all'Università degli studi di Roma "Tor Vergata". Nel 1996 vince il Premio Strega con il romanzo "Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo". Dal 1998, in qualità di professore di Storia Medievale, insegna presso l'Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro". Oltre a saggi storici, è anche scrittore di romanzi. Collabora con il quotidiano "La Stampa", e lo speciale "Tuttolibri", la rivista "Medioevo" e con l'inserto culturale del quotidiano "Il Sole 24 Ore". Dal 2007 collabora ad una rubrica di usi e costumi storici nella trasmissione televisiva "Superquark". Il governo della Repubblica Francese gli ha conferito il titolo di “Chevalier de l’ordre des Arts et des Lettres”.
Immagino che altri lettori, scorrendo le pagine del Tonio Kröger, soprattutto se giovani com’ero io quando lo lessi, abbiano avuto il moto di sorpresa che mi colse nell’apprendere che ad Amburgo un secolo fa si pranzava alle tre; ma poi, leggendo Il barone rampante, venni a sapere che, sebbene a casa Piovasco si desinasse more antiquo a mezzogiorno, la moda coeva introdotta dalla poco mattiniera corte di Versailles avrebbe comandato di pranzare a metà del pomeriggio: come ad Amburgo ai tempi di Thomas Mann, quindi, o ancor più tardi. Leggendo questo librino di Alessandro Barbero, garbatissimo divulgatore di storia come sempre, dovremmo però rifare le bucce a Calvino: ché, se Mann descriveva un’usanza del suo tempo da lui effettivamente veduta e praticata, lo scrittore italiano, per ovvie ragioni anagrafiche, degli orarî settecenteschi possedeva una mera conoscenza erudita; e un po’ si sbagliò, perché la consuetudine di spostare il pranzo tanto in avanti, al tempo in cui principia la storia di Cosimo Piovasco di Rondò, ancora non era invalsa nella corte francese, dove prese piede invece alla fine del regno di Luigi XVI, e viepiù durante la Rivoluzione e l’età napoleonica. L’uso di pranzare tardi d’altronde non nacque nemmeno in Francia: era una trovata inglese, o meglio una trovata dell’upper class di Londra, dove anzi si pigliava un po’ a gabbo il tradizionalismo di certe dame attempate o della gentry di campagna, ostinata nel voler andare a tavola entro le due; oltretutto, i viaggiatori britannici, sempre col nasino arricciato appena varcata la Manica, si lagnavano dei pasti consumati sul continente, a loro dire, in ore disumane, che sarebbero poi quelle in cui mangiamo anche noi adesso: e siccome nel secolo dei lumi l’anglofilia era uno dei furori più diffusi, capace, incredibile dictu, di contagiare perfino i francesi, verso la fine del Settecento si cominciò un po’ dappertutto a ritardare sempre più l’ora del pranzo. Se ne davano anche giustificazioni economiche, dicendo per esempio che così non occorreva fare la pausa negli uffici, e il lavoro ne guadagnava: Barbero le ritiene giustificazioni un po’ appiccicate, ma in un’epoca come quella della Rivoluzione servì a gabellare per ottima ed efficiente quella che viceversa era solo una moda nobiliare; anche perché i lavoratori manuali, i campagnoli e i poveri in genere, abituati ad alzarsi e, chi lo faceva, a lavorare dal sorgere del sole, e a coricarsi con le galline, difficilmente sarebbero potuti restar a pancia vuota per tante ore, avendo a disposizione qualcosa da mettere nello stomaco. La gente “di qualità” al contrario pranzava alle cinque, alle sei, alle sette, e anche dopo, man mano che l’Ottocento va avanti: in pratica, finiva per pranzare all’ora di cena, e per chiamare cene gli spuntini notturni caratteristici soprattutto delle feste di ballo; il che si rifletteva nella qualità e quantità delle liste di vivande, negli usi linguistici e, di riflesso, anche, ovviamente, negli usi alimentari stessi, perché ovviamente, se si fa colazione di mattina presto e si pranza la sera, in mezzo si dovrà pur sempre mangiare qualcos’altro: ed ecco nascere infatti la colazione à la fourchette. A chi conosca l’Artusi, citato, ma non per esteso, anche da Barbero, questo nome ricorderà l’ultimo capitoletto della Scienza in cucina a l’arte di mangiar bene, che appunto si chiama Colazioni alla forchetta. L’autore spiega che vivande vi vadano servite: “La base è sempre un piatto di carne, caldo ed abbondante, con un contorno; ma questo dev’essere preceduto da una minestra asciutta o da principii. Se trattasi di minestra, avete tutta la serie dei risotti e delle paste variamente condite; se di principii, vengono opportune le frittate, le uova al burro, le uova affogate con qualche salsa piccante; i rifreddi con gelatina; oltre a ciò, l’affettato di salumi, il caviale e le sardine di Nantes, accompagnati dal burro, oppure un fritto di pesce. Per ultimo, frutta e formaggio, e se avete conserve o gelatine di frutta, queste saranno aggradite specialmente alle signore; infine un buon caffè che predispone al pranzo”. Nonostante qualche influsso francese (certi tipi di antipasti) e il perdurare dell’antica usanza, oggi perduta, di servire a fine pasto le conserve di frutta, come ancor oggi si fa in alcuni luoghi del vicino Oriente, si tratta, in sostanza, del normale pranzo italiano attuale. Ecco perché qualcuno si ostina a chiamarlo colazione, e denomina poi pranzo la cena: ma la sostituzione semantica, al contrario che in altre lingue, da noi non è arrivata ad imporsi. Può darsi che questa curiosa descrizione del pasto non dall’inizio ma da metà rifletta una storia del modo in cui si formò la “colazione alla forchetta”: nei primi tempi un pezzo di carne con qualche accompagnamento, quindi, man mano che l’ora del “pranzo” si spostava in là, anche qualcos’altro. Altro particolare curioso ma prevedibile è il fatto che i manuali non rispecchiassero perfettamente ciò che accadeva nella pratica. Il pranzo, ormai destinato ad esser il pasto serale, almeno se non si consumava tra intimi prevedeva una sequenza di piatti lunga e, per i nostri gusti, anche stucchevole, oltre che poco amichevole per lo stomaco vista l’ora in cui lo si riempiva: dopo la minestra, il fritto, il lesso, l’umido, l’arrosto con l’insalata, e infine il dessert; in una novella di Renato Fucini, ambientata ai tempi dell’Artusi, si narra un invito da parte d’un possidente, dal quale il protagonista esce stremato dopo essere stato ingozzato a dismisura: ma il banchetto, nella campagna toscana, si tiene una domenica a mezzogiorno; insomma, i lauti conviti a tarda ora restarono sempre appannaggio delle classi elevate cittadine. Alla simpatica e ricca trattazione di Barbero giova aggiungere che in Italia di queste cene travestite da pranzi, e con liste fortemente influenzate dagli usi francesi, rimangono concrezioni nei manuali di galateo e di cucina fino a pochi lustri or sono: basta pensare al popolare Talismano della felicità di Ada Boni, dove per pranzo si prescrivono il consommé, gli antipasti caldi, un pesce decorato o farcito, un pezzo forte di carne o un arrosto con l’insalata, e “si fa chiudere il menù con un ortaggio di primizia”: quindi, come dolci, “gelati, charlottes fredde, gâteaux”, mentre “per colazione” si raccomandava di servire preparazioni calde o composte di frutta accompagnate da pasticceria leggera: per il resto, la sua colazione era grosso modo quella dell’Artusi: antipasti freddi assortiti, “farinacei” (cioè maccheroni, risotto, gnocchi di semolino), un piatto di pesce o carne col contorno, formaggio, frutta, dolce. Si spera solo che dopo simili colazioni alla forchetta non si dovesse affrontare troppo spesso un invito a pranzo per le ore serali, specialmente se la lista delle vivande è una di quelle che dà il buon Pellegrino Artusi. Visto che siamo in settembre, eccone una per il mese in corso: “Zuppa di ovoli; Fichi con prosciutto e acciughe salate; Bocconi di pane ripieni di animelle e cervello [e fritti, n.d.r.]; Sformato di funghi ripieno di rigaglie; Tacchinotto arrosto con insalata o Pollo alla Rudinì; Babà o Gelato di latte di mandorle o Zorama [che è “un pezzo in gelo marmorizzato di bianco e nero, n.d.r.]; Pesche, uva e altre frutte di stagione.
Non coinvolgente come speravo, purtroppo ci sono molti passaggi in francese e non conoscendolo mi sono trovato a scorrere le pagine più spesso che no. Un libro per "addetti ai lavori", senz'altro ricco di informazioni ma privo di quell'atmosfera che caratterizza i bellissimi pezzi divulgativi dell'autore.
Il libro è un'interessante trattatello (brevissimo, meno di 80 pagine) sugli orari e sulle denominazioni dei pasti in Occidente, e ripercorre usanze e sviluppi degli ultimi 3 secoli circa.
Tuttavia Barbero sceglie di riportare interi passaggi di diari, corrispondenze, romanzi e fonti varie internamente in inglese e in francese senza alcuna traduzione, rendendo a tratti poco comprensibile il tutto.
Fun fact: prosciutto e melone, piatto che io ho sempre creduto un'invenzione degli anni '80 (del Novecento, evidentemente) è invece attestato già nel ricettario dell'Artusi, del 1891
QUANDO SI MANGIA? UN TEMA GUSTOSO, MA DAL SAPORE ACCADEMICO (E SOLO SE SAI IL FRANCESE)
Ho letto questo breve saggio spinta dalla curiosità per il tema insolito e originale. Devo dire che mi ha un po’ delusa: in pratica la "tesi" si potrebbe riassumere in un paio di pagine, mentre il resto è un lungo elenco di citazioni da testi storici e letterari sugli orari dei pasti. Peccato, perché l’idea di partenza era interessante, ma molte fonti sono in francese e non tradotte. In generale, mi è sembrato più un testo per studiosi che una lettura divulgativa.
Una promessa non mantenuta... ma forse è colpa mia, che non mi sono informata prima. Il tema mi ha incuriosita, ma mi sono trovata in mano un articolo, più che un libro, e anche un po' ridondante. Lo storico e le sue fonti: romanzi, lettere, diari: è l'aspetto più interessante. Non finirò mai di stupirmi di quanto si possa trarre dal passato - a saper cercare (e poi raccontare).
Il Professor Alessandro Barbero non delude mai. Un saggio moderno affacciato su di un passato che ancora ci condiziona molto. Un 'piccolo libro' capace di non lasciare niente al caso e capace oltremodo di farci apprendere la Storia attraverso le curiosità.
Acquistato dopo aver ascoltato una conferenza del Magister in proposito. Avrei preferito che le citazioni in francese (non avendo problemi con l’inglese) fossero tradotte, almeno nelle note: lo avrei apprezzato molto di più, ma la non conoscenza della lingua è una mia mancanza, non essendo questo un libro indirizzato al grande pubblico, nonostante sia un argomento molto interessante, soprattutto perché chiarisce gli orari e i nominativi dei pasti che si possono incontrare leggendo classici e testi scritti secoli addietro. Alla fine rimane comunque il dubbio di come sia più appropriato chiamare i pasti, specialmente all’estero e in altre lingue. So per certo che prima o poi finirò a litigare con qualche amico francese e/o inglese su questo: ma va bene così, sarà divertente.
Lettura tutto sommato interessante, ma abbastanza ripetitiva. Non ho capito però perché le varie e frequenti citazioni in inglese e francese sono lasciate non tradotte. Personalmente, non ho avuto alcun problema in quanto parlo correntemente entrambe, ma non l'ho trovato corretto. Tant'è che le pochissime citazioni in tedesco sono state tradotte in italiano. Inoltre ho avuto l'impressione che fosse un saggio precedentemente scritto in inglese e successivamente tradotto in italiano, per esempio viene usata la parola "pretendere" con significato all'inglese di fingere, perché col significato di "esigere" non ha senso nella frase. Chiara svista.
“Il tema di questo saggio è il cambiamento che si è verificato tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, quando le classi agiate europee hanno modificato l'orario dei pasti, facendo slittare in avanti l’orario del pasto principale della giornata, quello che si chiamava dîner in francese, dinner in inglese, e pranzo in italiano; lo slittamento in avanti è poi proseguito nel corso del XX Secolo, concludendosi solo all'inizio del Novecento. Questa trasformazione ha creato una nuova differenza fra le classi sociali, attribuendo al “pranzar tardi” la valenza di uno status-symbol; (…)”
Non è sicuramente una pubblicazione ambiziosa né degna di nota nel suo contesto tematico, nn so in realtà perché Barbero si sia scomodato a scrivere un pamphlet del genere,
Lettura piacevole con curiosità su come siano cambiate le abitudini dei pasti e si capisce come oggi la colazione, il pranzo e la cena siano in realtà slittate a causa degli spostamenti della nobiltà
Una breve storia delle consuetudini dei francesi, in primo luogo, e degli inglesi, rari accenni all'Italia, sull'ora dei pasti e sopratutto, direi, sul numero degli stessi.
Barbero ci spiega l'evoluzione nella storia dell'orario dei pasti nel diciottesimo e diciannovesimo secolo. Si tratta di un elenco delle citazioni trovate nella letteratura di quegli anni che ci fanno capire la loro evoluzione: dal significato della colazione, allo spostamento sempre più in avanti del pranzo e alla cena che va quasi a scomparire fino al tornare alle attuali "posizioni". Pensavo sinceramente in una spiegazione maggiore da parte del professore, si tratta soprattutto di citazioni trovate.
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Trattato interessante, molto breve, cerca di spiegare l'evoluzione degli orari dei pasti e le terminologie ad esso correlate tra il XVII e XIX secolo. Bibliografia molto interessante per chi è appassionato del tema, sconsiglio la lettura a chi non parla francese e inglese a causa delle moltissime citazioni contenute.