Il talento fa paura. Il talento inquieta, ancora, persino in un tempo impassibile come il nostro. Soprattutto quando è giovane, e si presenta a noi con furia inaudita. La furia simbolica, sessuale, filosofica, omicida di questo libro, di questo romanzo struggente, infernale e paradisiaco al tempo stesso. Taiwo e Kehinde sono gemelli siamesi. Il loro corpo dotato di due busti e di un solo paio di gambe ha la forma di una ipsilon, come la lingua di un serpente, ma lavorando come inservienti dietro il banco di un locale di incontri sessuali pochi conoscono la loro natura, la verità della loro carne. È solo la prima di una serie di immagini fulminanti, di una successione di pagine fosche e splendenti che alternano ossessioni, torture, gironi danteschi, filosofia, sangue, suggestioni horror, riferimenti pasoliniani, passaggi efferati e altri pieni di una grazia purissima, quasi infantile. Uno in diviso: io, l’Italia, due gemelli con il corpo a forma di ipsilon, la Chiesa, l’aborto, i Pacs, l’omicidio, il terrore di uno sfruttamento fisico e intellettuale, il terrore di una spaccatura. Un romanzo che è un presagio, una fulminante premonizione. Una storia che descrive il crollo delle dicotomie contemporanee e ricorda il Pasolini degli ultimi film. Un terremoto che muove tutte le coscienze. L’autore ha vent’anni. Prima d’ora nessuno aveva mai osato tanto.
“Questo è un libro che frastorna, e al tempo stesso abbraccia e consola. Questo è un libro che qualcuno chiamerà maledetto, ma che io chiamerei nel modo contrario. Un libro benedetto dalla spada del talento, dalla luce sacra della letteratura.” Marco Mancassola
Alla sua uscita Unoindiviso divenne un caso letterario, si parlava tantissimo di questo romanzo definito estremo, insostenibile, rivoluzionario persino. La critica - anche quella di un certo livello - salutò il giovanissimo autore diciannovenne come un futuro maestro della letteratura italiana dalla carriera sfavillante e nei paragoni si tirarono fuori persino nomi come Pasolini e Dostoevskij.
Inutile dire che c'è davvero poco di tutto questo. Innanzitutto non ho idea in cosa sia stato visto Dostoveskij, se non nel fatto che i personaggi spesso si perdono in lunghe disquisizioni filosofiche e teologiche ma nient'altro. Idem per Pasolini (cui il libro - insieme ad Alda Teodorani - è dedicato), che viene più o meno indirettamente citato diverse volte, con una certa propensione per Salò o le 120 giornate di Sodoma. La storia non segue un particolare sviluppo, in quanto consiste interamente in una serie di vignette di vario tipo di cui la maggior parte ruotano attorno a due gemelli siamesi dal doppio tronco ma uniti da un unico paio di gambe chiamati Kehinde e Taiwo (che, non ci viene detto esplicitamente, ma deduco dai nomi che potrebbero avere origine africana) i quali narrano l'intera vicenda.
Il punto di partenza poteva anche essere interessante se non fosse che, nonostante la scrittura qua e là affascinante, il libro non sembra avere un proprio stile definito il quale inoltre si perde nella voluta frammentarietà delle vicende. Nelle sequenze del romanzo si alternano con frequenza scene di violenza esasperata che vorrebbero essere shockanti ad ogni costo alternate a discussioni esistenziali che vorrebbero apparire coltissime e complicate per quanto in realtà superficiali. Il tutto sembra essere messo lì solo per spocchia e per un tentativo di provocazione a tutti i costi con un pizzico di elementi di pop culture per renderlo più scandaloso e attuale, tra cui un capitolo intero che non è altro che il resoconto delle indagini sul caso di Cogne e su Anna Maria Franzoni, caso di grande impatto mediatico ed emotivo all'epoca della pubblicazione. Tutti i personaggi che appaiono sono solo esili macchiette che esistono esclusivamente per rapportarsi con i due protagonisti e per sfoderare vicende e descrizioni funzionali solo alle citazioni di riferimento (Pasolini in primis) e che sarebbe stato interessante approfondire (il nonno proveniente da un Abruzzo ancestrale, il padre). Anche gli stessi protagonisti non hanno una vera personalità, per quanto in maniera stereotipata e forzata si dica che i due gemelli siano uno malvagio e uno buono, ma questa rivelazione (per quanto banale) è inutile poiché non ci sarà alcuna occasione in cui questa affermazione possa essere funzionale o di qualunque peso per la storia rimanendo alla fine un personaggio unico e poco incisivo. Se si può fare un paragone con altri autori al massimo mi verrebbero in mente i primissimi libri di Massimiliano Parente (il che non è del tutto un complimento) e alcuni di Isabella Santacroce, le cui atmosfere sono molto ma molto simili, con la notevole differenza che la Santacroce quando scriveva anche di scene estremamente violente o sessualmente esplicite aveva un suo stile estetico ben preciso e soprattutto esse erano perfettamente funzionali e a loro modo inserite all'interno della non-storia, qui no, avvengono e basta senza alcun motivo, come in un Guinea Pig o in un August Mordum Underground qualsiasi, senza spiegazioni né perché. Pulp tardo-cannibale molto autocompiaciuto seppur curioso, questo bisogna ammetterlo, ma non un libro che consiglierei.
In un'intervista dell'epoca trovata online l'autore affermava che a breve avrebbe pubblicato un romanzo di oltre mille pagine e un saggio contro l'aborto per una grande casa editrice. Le due opere non sembrano essere poi uscite.
“Io, Taiwo, per noi due la bellezza era una: quella. Quel ribrezzo, quella porcheria, quella ripugnanza. Un buchetto, per fare un esempio. Sempre in quel bagno, sulla manecchia sozza dello sciacquone, c’era un buchetto funesto probabilmente causato da un vecchio chiodo. Attorno al buchetto ci stavano minuscole schegge di muro, un sottilissimo strato di calce, un’elementare striatura della parete, un’interna, nefasta, misteriosa, oscurità. Questa, per noi, era la bellezza. I fiori? le rose? le albe? i tramonti? Era tutto uno sfondo scialbo, inutile, uno scenario pallido e la nostra platonica idea di beltà era un grosso sacco nero, lucido, della spazzatura. Alcuni immaginerebbero una rosa immensa oltre il cielo sublunare: un oceano brioso tre metri sopra il cielo. Io, Taiwo, ci piacevano i sacchi neri e oltre il cielo sublunare vedevamo questa enorme balla lucida della spazzatura con due occhietti scintillanti sotto l’attaccatura.”
Premessa: Uno in diviso contiene scene che alcune persone potrebbero trovare disturbanti e inquietanti, tra cui scene di stupro e abusi su animali. Quindi consiglio la lettura ad un pubblico adulto.
Taiwo e Kehinde sono due fratelli che abitano lo stesso corpo: sono gemelli siamesi. Nonostante siano molto diversi - come lo yin e lo yang - la carne di cui sono fatti li lega, nel pensiero come nell'azione, portandoli a perdere ogni moralità. La perfidia del secondo ha contaminato la bontà del primo e l’indulgenza di questi - il primo - ha inquinato lo spirito dell’altro. Assomigliano ad una Ypsilon, terribili e affascinanti. Sfruttati, abusati, schifati, costretti a vivere in condizioni di miseria, camminano sull’orlo del bene e del male fino a perdere ogni raziocinio.
Il romanzo d’esordio di un allora ventisettenne Alcide Pierantozzi è una storia cupa, visionaria ed efferata. A livello d’impatto emotivo potrei paragonarla a “Una stagione all’inferno” di Rimbaud. Vuoi perché Pierantozzi lo ha scritto da giovanissimo, quindi un romanzo bellissimo e imperfetto, vuoi perché mi ha trasmesso le stesse sensazioni selvagge, aspre e contrastanti del poema del poeta maledetto.
Una storia che procede per immagini, crudeli, efferate, poetiche. Come scrive Labbate nel suo L'orrore letterario, assomiglia ad un Eraserhead cartaceo. Un vero film horror in bianco e nero su carta.
“parevamo una padella storta, dove l’olio che butti a sinistra, puoi starne certo, finisce a destra e dove il calore lo fa bollire in fretta, sprizzare. Mentre l’altro lato si arroventa ma resta com’era, asciutto, certo: nessuno schizzo, nemmeno uno spruzzo. Devi essere tu a toccarlo per bruciarti le dita.”
Il romanzo è suddiviso in tre parti: Antinferno, Inferno e antipurgatorio, correlati dai loro vari gironi, in cui tra scene efferate e maledette i due gemelli siamesi disputerano sulla chiesa, l’aborto, l’assassinio, l’esistenza di Dio. Pregno di elementi simbolici, tra i quali spiccano i riferimenti al serpente, all’avversario, all’ouroboro, all’eterno ritorno, scritto con un linguaggio crudo e metaforico al tempo stesso, è un romanzo che si legge d’un fiato, nonostante mi sia dovuto fermare, quasi bestemmiando, per alcune scene che mi hanno veramente turbato. Proprio la figura del serpente, di serpi tranciate in due, dell’albina a due teste, riverbera per tutta la narrazione I due gemelli siamesi cadono dentro una spirale perversa fino ad un evidente deterioramento psichico e intellettuale fino allo svelamento finale sulla loro sorte e condizione.
Ci arrivo solo nel 2025, ovviamente a seguito della lettura de "Lo Sbilico". Esordio sicuramente evocativo e potente, ammantato di simbolismo e di una lingua un tantino autocompiaciuta. Acerbo, per certi versi, nel suo alternare lirismo e violenza. Sicuramente figlio dei "cannibali" per la sua esposizione pulp, ci ho ritrovato una anticipazione del mood surreale e cupo di Dalle Rovine di Funetta, altro esordio che ha segnato gli ultimi 20 anni di letteratura italiana.
“Kehinde, il fratello buono, forse non è così buono. Taiwo, il fratello cattivo, forse non è così cattivo.”
Sono due, uno, sono uno indiviso i due fratelli siamesi Kehinde e Taiwo. Nati così, a ipsilon, due busti e solo un paio di gambe. Due cervelli in due teste diverse come la lingua di un serpente, come due parti di una stessa medaglia indivisibile. Lavorano in una sauna per soli uomini. Nascosti dietro un bancone, hanno il compito di dare le chiavi degli armadietti, fornire asciugamani e preservativi e altri servizi, senza mai far vedere la parte inferiore delle loro arti. Intanto osservano tutto quello che succede lì dentro, dagli appuntamenti più normali alle esperienze sessuali più crudeli. Tutta quella violenza si riverbera su qualsiasi essere finché trova sfogo nell’omicidio di due donne. Strutturato in gironi, il romanzo presenta l’inferno del mondo d’oggi. I due fratelli, simili ai vasi comunicanti, si raccontano ognuno dal suo punto di vista, scambiando discorsi filosofici e delicati come l’amore divino, la chiesa, l’aborto, il bene e la giustificazione perversa del male, l’omicidio ecc. Con un linguaggio proprio del surrealismo dalle pagine rimbalzano immagini quasi ripugnanti, descritti a dovizia di dettagli che non ci si riesce più a distinguere tra sogno e realtà, tra ombra e luce, tra conscio e inconscio. Dedicato alla memoria di Pier Paolo Pasolini, l’epilogo del romanzo ritrova una sorta di serenità solo nel passato: “Caspita, fratello. Vieni dal cielo profondo e mi racconti la storia del mondo con una grande metafora”. Ci si ritrova a ricordare i versi di Pasolini: “E io, feto adulto, mi aggiro più moderno d'ogni moderno a cercare i fratelli che non sono più.” (Io sono una forza del passato)